La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 12 maggio 2017

Brecht e Lukács, analisi di una divergenza d’opinioni

di Klaus Völker
Gli autori che si richiamano al socialismo sono condannati ad intraprendere la via del realismo? Ancora non vi è intesa sulla definizione e sui principi di tale estetica, eretta da György Lukács al rango di dogma. Nel corso degli anni Trenta, una controversia divise gli ambienti artistici e letterari, trovando eco nelle riviste specializzate. Incentrata prevalentemente sulla contrapposizione tra György Lukács e Bertolt Brecht, ma coinvolgendo anche personalità quali Ernst Bloch, o ancora, il compositore Hanns Heisler, la querelle divise autori e teorici su questioni di estetica sollevate dalla produzione letteraria dell’epoca.
Al di là dei disaccordi su cosa costituisca o meno l’avanguardia letteraria di un regime, il dibattito mette in luce questioni fondamentali riguardo alla dialettica che forma e contenuto, finzione e realtà devono intrattenere, nonché circa il ruolo dello scrittore nella società.

E io credo che la nostra situazione attuale sia tale che noi siamo ancora lungi dall’aver distribuito botte abbastanza numerose e abbastanza efficaci contro la decadenza.
György Lukács, lettera ad Anna Seghers, 28/07/1938
Quale senso può mai avere tutto questo chiasso sul realismo, quando non ne viene fuori più niente di reale? (Come in alcuni saggi di Lukács).
Berolt Brecht, nota del 1938.
I
Il drammaturgo marxista Bertolt Brecht e lo storico della letteratura, anch’egli marxista, György Lukács non hanno mai nutrito molta stima l’uno dell’altro. Brecht vivente, fu Lukács ad avere il sopravento in tale controversia: la dottrina estetica ufficiale del realismo socialista, nei paesi a guida comunista, fondandosi essenzialmente sul lavoro teorico dell’erudito ungherese. Dopo il 1956, i discepoli più dogmatici di Lukács trattano il loro maestro come un «revisionista», canonizzando nel frattempo Brecht. Tuttavia, persino questa canonizzazione avviene secondo le parole d’ordine fornite da Lukács. Colui che aveva sempre ritenuto Brecht un’agente della «decadenza», zelantemente impegnato nella liquidazione della tradizione classica, sbalordiva tutti pronunciando un elogio funebre nel corso della serata in memoria di Brecht al Berliner Ensemble. In tale occasione, Lukács conferiva a Brecht il titolo di «autentico drammaturgo», al quale riconosceva la volontà di trasformare le masse spettatici ed auditrici della sua poesia. In Brecht, affermava, l’effetto estetico ne produce uno morale: «ma era proprio questo il senso più profondo della «catarsi» aristotelica, così come concepita da Lessing». Brecht si è sforzato di raggiungere un simile obiettivo, riuscendovi nelle sue opere migliori, e in ragione di ciò egli è stato vero drammaturgo.
Lukács, che collocava Brecht sullo stesso piano dei suoi drammaturghi favoriti, Ibsen,  Čechov e Shaw, ne fece anche, a titolo postumo, un discepolo di Aristotele e Lessing. Nell’introduzione all’edizione della Grmania dell’est della Breve storia della letteratura tedesca, Lukács si scusa, in modo assai singolare, per non aver mai fornito un’analisi rigorosa dell’opera di Brecht: «ero restio riguardo alla sua produzione dei primi anni Trenta, nonché alle sue teorie. Ciò si riflette chiaramente in questo libro. Non è stato che dopo il mio ritorno nel paese, nel momento in cui ho avuto modo di conoscere opere come L’anima buona del SezuanMadre coraggio e i suoi figli, ecc., che ho cambiato radicalmente opinione». Purtroppo, come Lukács stesso non manca di sottolineare con rimpianto, sino ad allora non vi era stato tempo di dare forma teorica a tale mutamento d’opinione.
Le sue rare dichiarazioni positive, o di moderata approvazione su Brecht non testimoniano alcun cambiamento fondamentale, ma lasciano supporre che egli volesse semplicemente dimostrare di aver sempre avuto ragione contro quest’ultimo, il quale nelle sue ultime opere si sarebbe avvicinato alla sua concezione estetica: «maturando, egli ha abbandonato gradualmente quel carattere eccessivamente immediato. Ne sono risultati dei drammi potenti, in grado di elevare l’intenzione posta a loro fondamento ad una dimensione creativa, di ordine poetico – a dispetto dell’effetto di straniamento». Certo, contemporaneamente, Lukács concede a Brecht che, malgrado le sue aberrazioni formaliste o avanguardiste, le sue ultime opere sono orientate «secondo la vera evoluzione della realtà»: «la realtà che l’avanguardismo contesta, sforzandosi di distruggerla tramite la sua estetica, costituisce il punto di partenza «dell’effetto di straniamento», nonché il suo obiettivo». Tuttavia, Lukács, ora non meno che in passato, rifiuta categoricamente la teoria brechtiana dello straniamento. Egli rimane fermo sulla propria concezione estetica e teoria del realismo, derivante da Goethe e dal romanzo borghese del XIX secolo. Laddove scopre presso un autore la scrittura auspicata e le «forme permanenti», egli ricorre alla classificazione di realista. Soltanto dopo aver rinunciato, durante l’esilio, «all’opposizione astratta», Brecht è pervenuto a creare degli autentici tipi umani. Questi ha allora riconosciuto «sempre più chiaramente, nel corso della battaglia contro l’hitlerismo, che far emergere la sostanza umana della minaccia esterna ed interna rappresentava il problema centrale della forma drammatica». Ciò nonostante, i suoi ultimi drammi rivelano, anch’essi, elementi d’astrazione tipici della sua fase di transizione. Brecht, dunque, ha rinunciato ad ammettere con sufficiente vigore che la «razionalità poetica» del suo programma necessitava di essere realizzata senza effetto di straniamento.
Questo giudizio pedante è dissimulato nel testo di iniziali e dolenti lodi indirizzate, nel 1938, ad una scena di Terrore e miseria del Terzo Reich, giudizio annotato dal drammaturgo nel suo diario non senza un certo stupore:
Lukács ha già elogiato Lo spione (1) come se io fossi un peccatore rifugiatosi in  seno all’Esercito della salvezza. E tuttavia è stato colto nel vivo. Passa sotto silenzio il montaggio di ben ventisette scene, il quale non è altro che una serie di gesti, più precisamente i gesti del silenzio, dello sguardo furtivo, del terrore, ecc., i gesti che si compiono sotto una dittatura. Il tetro epico può in tal modo dimostrare di potersi adattare ad elementi «interiori» così come naturalisti, senza stabilire delle differenze tra di essi. L’attore, in ogni caso, fa bene a studiare le «scene di strada», prima di recitare una delle brevi scene. I gesti indicati non devono essere compiuti in un maniera tale da invogliare lo spettatore ad impedire che la scena prosegua; l’identificazione va padroneggiata accuratamente, altrimenti tutto va perso (2).
Lukács vede all’origine dell’effetto di straniamento «la polemica aspra e unilaterale, che nasconde situazioni di fato e nessi storici, condotta da Brecht contro la teoria dell’empatia». È pur vero che negli anni Venti e all’inizio dei Trenta, Brecht ha adottato nei confronti dell’eredità classica un’attitudine di radicale opposizione, attitudine in seguito abbandonata. Non vanno tuttavia sottovalutate le sue ulteriori prese di posizione riguardo ai classici, le quali necessitano di essere valutate anche da un punto di vista politico-culturale. Spesso non sono altro che concessioni retoriche e precauzioni difensive. D’altra parte, i complimenti di Lukács a Lo spione non erano certo dovuti al caso. Nelle scene di Terrore e miseria del Terzo Reich, Brecht ha effettivamente compiuto, dal punto di vista formale, un passo indietro. Si trattava, ovviamente, di una mossa deliberata, che gli avrebbe dovuto procurare la possibilità di rappresentare i suoi drammi. Dopo aver finito di lavorare a Vita di Galileo, egli deplora per l’ennesima volta simili tattiche:
Dal punto di vista tecnico, Vita di Galileo rappresenta un enorme passo indietro, troppo opportunista, proprio come I fucili di madre Carrar. Il dramma andrebbe interamente riscritto, se si volesse ottenere quella «brezza che soffia dalla costa», quella rugiadosa alba della scienza. Tutto più diretto, senza gli interni, «l’atmosfera», l’identificazione. Costruendo tutto su delle dimostrazioni globali. La suddivisione si potrebbe anche conservare, il personaggio di Galileo ugualmente, ma il lavoro, un lavoro che possa dirsi felice, non potrebbe essere realizzato che attraverso un praticabile, a contatto col palcoscenico.
Brecht, in seguito, nel lavoro compiuto su L’anima buona del Sezuan, vorrà «ritornare alla norma» in rapporto alla tecnica epica. «Non bisogna fare concessioni al fine di battere cassa». Tale osservazione dimostra quanto il suo «opportunismo», apprezzato da Lukács come «la raffigurazione autenticamente drammatica», non sia stato altro che un tentativo di scrivere drammi che potessero essere mesi in scena nelle difficili condizioni dell’esilio, e i quali avrebbero dovuto condurre gradualmente gli attori  ad un miglior teatro epico. Nella sua Estetica (1963), Lukács accoglie positivamente «l’opportunismo» di Brecht. Nel Galileo ed in altri drammi posteriori, «la raffigurazione autenticamente drammatica» sarà giudicata ancora teoricamente incoerente, «ma con risultati drammatico-poetici tanto più fecondi». Lukács seguita a considerare il teatro epico come un errore teorico da parte di Brecht. Allo scopo di illustrare la sua tesi, secondo la quale la «razionalità poetica» può essere attuata anche senza l’effetto di straniamento, egli cita l’esempio di Čechov, il quale avrebbe costruito i propri drammi sulla contraddizione tra le intenzioni soggettive dei personaggi e le loro tendenze e significati oggettivi. In questo caso, dunque, è il dramma stesso a costituire l’effetto di straniamento. Ma Brecht non riesce a discostarsene: lo spettatore si vede costretto ad ingurgitare un programma sotto forma di teatro. Secondo Lukács, Brecht avrebbe inventato l’effetto di straniamento come un trucco da giocoliere. Lo straniamento serve al drammaturgo non per oscurare un qualsivoglia scopo, bensì per illuminarlo. Il suo teatro deve apprendere, in maniera divertita, il piacere del pensiero e dell’azione inserite nella realtà sociale.
Solo in apparenza drammi come Vita di Galileo sono una concessione ai criteri dl realismo enunciati da Lukács. Ernst Schumacher, nel suo lavoro sul Galileo, dimostra come Brecht, malgrado le sue considerevoli obiezioni, non abbia cambiato niente, anche più tardi, nella forma del dramma, non realizzando le «dimostrazioni globali» che pure riteneva desiderabili. Il Galileo, di fatto, è il solo dramma in cui Brecht si serve della storia al fine di «storicizzare», distanziare, rispetto agli avvenimenti attuali. L’estraniamento non viene abbandonato da Brecht, ma viene ottenuto in modo differente. «La risposta, scrive Schumacher, risiede nel fatto che egli aveva a che fare non con una storia eventi immaginari, bensì reali, utilizzati allo scopo di illuminare la storia contemporanea». In modo tale da prevenire malintesi, Brecht ha tentato, nel caso di questo dramma, soluzioni che dovevano chiaramente indicare allo spettatore come si trattasse, anche in quest’occasione, di teatro epico. Il 23 novembre 1938, alludendo al processo impiegato alla fine del dramma, egli nota: «anche colui che si identifica inconsciamente dovrebbe, quantomeno ora, nel percorso d’identificazione con Galileo, individuare l’effetto di straniamento. In una rappresentazione rigorosamente epica, un cero grado d’identificazione è tollerabile».
Brecht non è soddisfatto da un simile compromesso. Nel 1945, in occasione del rimaneggiamento del dramma in America, ne critica ancora una volta la drammaturgia di tipo tradizionale. «Nel Galileo, con i suoi interni ed i suoi aggiustamenti, la struttura scenica improntata al teatro epico crea un effetto sorprendentemente teatrale». Brecht non è «teoricamente incoerente», come pensa Lukács», non ha bensì ottenuto un risultato soddisfacente nella soluzione pratica del problema formale. Quando il drammaturgo sottolinea che, tramite l’effetto di straniamento, non vuole precludere i sentimenti, ma al contrario, vorrebbe favorire l’emergere di «sentimenti appropriati», dal suo punto di vista, fa delle semplici concessioni alla teoria dell’identificazione, la quale, persino nel Galileo, non è chiaramente presente. Le osservazioni di Lukács su questo dramma dimostrano, in modo estremamente chiaro, la sua incapacità di comprendere «l’effetto di straniamento» di Brecht a partire dalla dialettica. Secondo l’interpretazione di Lukács, Madre Courage è ancora un personaggio tragico, il quale soggettivamente va incontro alla propria rovina poiché, a causa dei suoi atti, entra in contraddizione con la direzione assunta dallo sviluppo sociale. Al contrario, l’aspetto tragico di Madre Courage non ha alcun interesse per Brecht. Ciò che gli importa è che lo spettatore comprenda i motivi del suo soccombere. Capire i sentimenti di Madre Courage gli appare come una forma tollerabile di «identificazione». Tale forma inedita d’identificazione dello spettatore ha come conseguenza che, dal punto di vista della società socialista, anche i personaggi di Čechov, ad esempio, non devono più esser concepiti secondo la modalità tragica. In un saggio in forma di dialogo sul tragico, Brecht sostiene che l’epico non si interessa «all’esposizione» di sentimenti tragici: il che non significa nel modo più assoluto che nessun sentimento tragico potrà più emergere: «Il sentimento tragico è ammesso, laddove una rappresentazione, tenuto conto della storicità e del significato pratico delle basi della società, fa appello ad un tale sentimento».
Brecht, argomentando contro i critici, approva la loro legittima esigenza di una «rappresentazione della realtà che consenta di padroneggiarla», ma replica loro che la realtà non può essere rappresentata se non a condizione di «riconoscerne la natura dialettica». Inoltre, a suo modo di vedere, è necessario «insistere sul carattere contraddittorio dell’ordine delle cose, degli avvenimenti e dei personaggi». La funzione «dell’effetto di straniamento» consiste nel rappresentare questa «natura dialettica». L’aspetto tragico è divenuto ormai secondario. Lo straniamento significa «annunciare una contraddizione». La dialettica deve poter diventare concreta: «i problemi del mondo non vengono risolti, bensì esposti». Brecht vuole mettere in azione l’effetto di straniamento al fine di eliminare le emozioni colme di contraddizioni, così da rendere lo spettatore stesso un dialettico. Per Lukács, viceversa, non si tratta di influire sulla realtà, egli cerca «l’esperienza artistica». Il teatro epico di Brecht è un tentativo di strappare tale «esperienza artistica» alla metafisica, di «riportarla sulla terra». È a questo punto che si pone, per Brecht, la questione della forma, poiché «mettere in evidenza l’utilità politica dei drammaturghi non aristotelici è un gioco da ragazzi; le difficoltà iniziano nel campo estetico».
II
Nel 1937-1938, il periodico Das Wort, redatto a Mosca da Brecht, Bredel e Feuchtwanger, ospitava sulle sue pagine il cosiddetto «dibattito sull’espressionismo» (3). un dibattito al quale prenderanno parte, da un lato, Lukács ed i suoi fedeli, dall’altro, quei peccatori sospettati di decadenza, modernismo e avanguardismo. Retrospettivamente, Lukács separerà, il «fronte» dei suoi avversari, «coloro che difendevano l’espressionismo dall’inizio alla fine», tra innovatori radicali, come Benn, e «ricercatori leali» come Anna Seghers e Hans Eisler, i quali erano «presi e scossi, nella parte più profonda del loro essere, dalle nuove forme della vita sociale, cercando al contempo una risposta umanista e rivoluzionaria agli orrori propri di quel periodo». Lukács suppone, a ragione,  che Brecht, sebbene non prese parte direttamente alla discussione come Bloch, Eisler e Anna Seghers, rappresentasse il centro di quell’avanguardia preoccupata dei problemi sociali. Bercht, da parte sua, riteneva Lukács a capo della «cricca moscovita».
Le discussione sul realismo socialista conobbero un primo apogeo alla fine degli anni Trenta. La politica di Stalin in campo artistico doveva, a partire da Mosca, essere applicata al livello internazionale. Brecht partecipò alle discussioni, ma non ebbe modo di pronunciarsi riguardo al suo punto di vista. Persino il lavoro programmatico Ampiezza e varietà dello stile realistico, nel quale Lukács non viene specificamente preso in considerazione, non venne stampato all’epoca (comparve infatti soltanto nel 1954, nel quaderno 13 dei Versuche (Scritti). Egli esprimeva la sua volontà di concepire la nozione di realismo «più in generale in una prospettiva più vasta e, per l’appunto, in maniera più realista» (4). In una nota ad una articolo verosimilmente destinato alla redazione di Das Wort, Brecht si dichiarava a favore dell’interruzione del dibattito, poiché aveva condotto gli antagonismi ad un punto insostenibile. Egli voleva evitare lo scontro così da non rompere apertamente il largo fronte formatosi contro Hitler: «ho dunque scelto per il mio intervento una forma positiva, scrivendo in modo tale che la questione possa mantenersi entro questi confini» (laddove aveva già assunto, nell’ultimo numero di Internationale Literatur, una forma assai virulenta, con Lukács intento a denunciare, senza ulteriori dimostrazioni, «alcuni drammi di Brecht come formalisti). La posizione di Brecht in «campo estetico» era totalmente opposta a quella di Lukács. Il drammaturgo tedesco rifiutava la teoria imposta da Mosca, la quale proclamava lo stile realista, attaccando numerosi «classici socialisti», all’epoca frequentemente rappresentati, evidenziando il retroterra piccolo borghese del loro realismo. Anche la più importante opera in prosa dei primi anni dell’epoca staliniana, Il placido Don, di Šolochov, costituiva, agli occhi di Brecht, un romanzo impressionista, il quale attribuiva ai propri personaggi delle esigenze morali, ma era a malapena capace di dire qualcosa sulla loro posizione sociale, di conseguenza non era un romanzo realista. L’arte realista, a detta di Brecht, era «un’arte guidata dalla realtà contro le ideologie, la quale rende possibili dei sentimenti, dei pensieri e degli atti realisti».
Non è possibile intraprendere una vera e propria ricerca, laddove abbiano un carattere di processo. Il tono è allo stesso tempo estremo, autoritario e servile, improduttivo, odioso e personale. Non è chiaramente un’atmosfera nella quale possa prosperare una letteratura viva, combattiva e rigogliosa. E di fatto, non solo non vi sono romanzi importanti, ma si giunge al punto di considerare buona robaccia romanzesca come quella di Aleksej Tolsoj. Non vi è il minimo dramma, personaggio drammatico, comico o tragico, non una singola forma compiuta di linguaggio, o la minima qualità filosofica in un qualsivoglia dramma, e ciò nel momento stesso in cui abbiamo un teatro capace di risultati davvero notevoli.
Brecht – e questo lo differenzia chiaramente dai critici che sviluppano la medesime argomentazioni al di fuori dell’URSS – non trasforma una pessima e funesta politica in un’occasione di polemica generale contro l’Unione Sovietica. Riguardo al paese in cui è stata stabilita un’organizzazione di tipo socialista della società, egli assume l’atteggiamento di Marx rispetto alla socialdemocrazia del suo tempo: ovvero «positivamente critico». La sua critica dettagliata non mira a «svelare delle falle profonde», o dimostrare che dev’esserci necessariamente qualcosa di sbagliato:
Innanzitutto, si può solo affermare che i bolscevichi non hanno saputo come sviluppare una letteratura. Niente permette di assumere che i loro metodi abbiano fallito su questo piano. È sufficiente dire, può darsi, che i metodi da essi impiegati hanno fallito. La situazione era particolarmente sfavorevole. La letteratura si ritrovò presa alla sprovvista nel momento in cui il proletariato prese il potere.
In seguito, Brecht approfondirà teoricamente simili considerazioni, esaminando gli effetti nefasti delle esigenze di partito sugli scrittori:
Nel trasformare immediatamente la rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria, l’Unione Sovietica costrinse gli scrittori progressisti ad un salto che spezzava la schiena, o quantomeno le gambe, di molti di essi. In una Russia kerenskijana,  Ėrenburg sarebbe divenuto una figura letteraria di portata mondiale. Per un gran numero di scrittori, ciò che era, per Majakovskij, libertà, rappresentava una dura condizione di costrizione. Essi si sarebbero vendicati di Majakovskij.
Per Majakovskij, così come per Brecht, teoria e pratica rivoluzionarie costituivano un tutt’uno in senso leniniano. Essi potevano scrivere «secondo la volontà del partito». Per altri scrittori, i quali non erano altro che compagni di strada o dei romantici della rivoluzione, e che tuttavia si sforzavano onestamente di lottare per la causa del popolo, la volontà e le esigenze del partito significavano, al contrario, la rovina artistica. Dal punto di vista del partito, gli scrittori gregari facevano più comodo di quelli socialisti. Si creava in tal modo una situazione comica, nella quale Brecht e Majakovskij venivano criticati dal partito, poiché mostravano le falle e le contraddizioni, laddove i colleghi borghesi rimproveravano loro di piegarsi senza fiatare alla volontà del partito.
Nella prefazione all’edizione tedesco orientale di realismo russo nella letteratura mondiale, Lukács caratterizza il proprio impegno per gli antichi, nel contesto del dibattito su espressionismo e realismo, come un «indietreggiare per meglio saltare», nel senso leniniano dell’espressione. Egli avrebbe voluto combattere indirettamente, attraverso l’analisi dei grandi realisti del passato, «lo schematismo chiacchierone della letteratura» d’epoca stalinista. Il mantenimento delle tradizioni non sarebbe stato altro l’espressione «della nostalgia di un’are riflettente in modo adeguato la realtà contemporanea». Un’affermazione forse applicabile al Lukács storico della letteratura. In esilio a Mosca, egli giocò, su questo piano, un ruolo ben più nefasto. In definitiva, non polemizzò soltanto, in nome del realismo, contro il «formalismo» e la «decadenza» di Proust, Joyce, Kafka, Dos Passos e Brecht. Le tendenze che Lukács mirava a «liquidare» non si trovavano, in ogni caso, presso i rappresentanti «medi, estremamente chiacchieroni,  schematicamente naturalisti, del realismo socialista», bensì negli scrittori sovietici di primo piano come Ėrenburg,  Oleša e Tretyakov. Del resto, Lukács ha rimosso accuratamente, nelle edizioni successive, gli attacchi contro questi autori (5).
Due suoi articoli, pubblicati sul periodico Internationale  Literatur, precederanno il dibattito su Das WortGrandezza e decadenza dell’espressionismo Narrare o descrivere? Quest’ultimo, in particolare, susciterà il malcontento di Brecht. In esso Lukács contrappone l’approccio narrativo di Tolstoj, Balzac e Scott a quello di Flaubert e Zola. Nei primi tre autori vi sarebbero degli avvenimenti «che sono importanti di per sé, per le vicende dei personaggi che vi hanno parte, e per ciò che significa nella vita della società il vario dispiegarsi della vita umana di tali personaggi». Invece, presso gli atri due scrittori citati, i personaggi sarebbero solo spettatori degli avvenimenti. Ciò che si rivela decisivo nel giudicare uno scrittore sarà la sua posizione rispetto alla vita. Narrare e descrivere sono i metodi di rappresentazione fondamentali di due differenti periodi del capitalismo, i quali implicano conseguentemente due diversi atteggiamenti dello scrittore rispetto alla realtà. Lukács esige dal romanzo che «tutta la vita sia rappresentata nella sua intera estensione». Nei moderni, la scientificità cui tendono esplicitamente condurrebbe ad un «soggettivismo integrale». È per questo che non vi può essere «poesia delle cose» indipendente dai destini umani: «le cose vivono poeticamente solo in quanto stanno in rapporto con le vicende umane». Gli uomini dovrebbero essere posti alla prova di «azioni veridiche» e le «vicende degli uomini» dovrebbero suscitare in noi un’emozione poetica. Solo la vera epica produce forme durature. I realisti moderni attenuano la realtà capitalistica. Lukács non ammette descrizioni puramente esteriori ed esige, in particolare dagli scrittori sovietici, che padroneggino le vestigia capitalistiche. Flaubert è assolto sulla base del fatto che, lui vivente, non vi era stata Rivoluzione d’ottobre. Ma in Unione Sovietica non ci sarebbe più dovuto essere, per esempio, «l’atteggiamento da reporter di fronte ai problemi dell’epica».
La critica di Lukács è rivolta notoriamente ai romanzi di  Tretyakov, per il quale gli uomini non sarebbero altro che materiale illustrativo. Egli scriverà romanzi dalla sola valenza documentaria, rappresentando la teoria di una «biografia delle cose». Un romanzo esente da un intreccio «individuale» esprime, agli occhi di Lukács, tendenze puramente sociali e sociologiche: «la proteica multiformità e l’infinita ricchezza della vita, non possono non andare perdute quando si rinuncia a rappresentare il complicato labirinto dei sentieri ritorti e sinuosi lungo i quali gli individui, consapevoli o inconsapevoli, volenti o nolenti, realizzano l’universale. Come controesempio positivo egli cita Šolochov: «basterà accennare all’arte e alla vita di Šolochov». Infine, per lo scrittore realista, il suo modo di vita dovrebbe essere ugualmente decisivo, poiché «i residui della coscienza tradiscono sempre l’esistenza di residui nell’essere».
Brecht osserva nel suo diario, a proposito di questo articolo, «questa stupidità è gigantesca». Egli esordisce prendendosi gioco della terminologia infida lasciando intendere al «signor Professore» che i cambiamenti sociali possono benissimo aver posto in discussione le forme narrative tradizionali:
Dunque, a detta di Lukács, nei primi romanzi borghesi (Goethe) vi è «l’infinita ricchezza della vita» ed il romanzo suscita «l’illusione che tutta la vita sia rappresentata nella sua intera estensione». Fate altrettanto! Solo che oggi niente più si estende, e non vie alcuna ricchezza della vita! Tutto ciò che si può consigliare è di penetrarvi approfonditamente. Inoltre il capitalismo, il celebre tallone di ferro, si preoccupa di ciò. Di fatto, nostro compito e quello di descrivere delle svolte, delle false piste, degli ostacoli, dei freni  e delle avarie degli stessi, ecc. Ma col crescere della quantità, ecco giungere il rovesciamento. Lukács, con la sua tendenza a trasferire tutto dal mondo alla coscienza, lo percepisce (con indignazione) solo in quest’ultima. In Zola un complesso di realtà costituisce il cuore dei romanzi: il denaro, la miniera, ecc. La molteplicità organica della composizione diviene una catena meccanica, un montaggio. Crescente disumanizzazione del romanzo! Questo è il motivo per cui lo sfortunato uomo dà del filo da torcere agli sfortunati scrittori, i quali sono caduti «dall’intreccio alla descrizione».  Essi sono capitolati. Hanno assunto il punto di vista del capitalismo, rendono disumana la vita. Le proteste che essi innalzano, a sua detta, non hanno alcun valore. Avvengono post festum, non hanno niente a che fare con la questione, si tratta pseudoradicalismo. Ma ciò che non vede il signor Professore, è il fatto che il proletariato disumanizzato ripone tutta la propria umanità nella protesta, da qui partendo per lanciare la lotta contro la disumanizzazione della produzione. Le deviazioni verso nuove vie non comportano una revisione del romanzo. Vi è dunque una concezione della ricchezza che è stata rapida ne sopravvivere . Il «molto» è divenuto il «più» e non vie alcuna traccia di ricchezza. L’arte di calcolare si è trasformata nell’arte di teorizzare. Non occupa più la medesima posizione, non ha più spazio nella riflessione dell’eroe. È necessario comprendere che lo scrittore vede qualcosa di nuovo quando guarda al proletariato per astrazione. La forma narrativa di Balzac, Tolstoj, ecc., è andata in frantumi una volta entrata in contato col quel complesso di realtà «senz’anima» che sono la miniera, il denaro, ecc. Le esortazioni del Professore non saranno sufficienti a rabberciarla. All the King’s horses and all the King’s men couldn’t put Humpty Dumpty together again (6).  Gide incentra il proprio romanzo principale sulla difficoltà di scrivere un romanzo (I falsari). Joyce scrive un catalogo dei tipi di descrizione, e la sola grande storia popolare della nostra epoca, lo Sc’vèik  di Hašek, ha abbandonato la forma del romanzo borghese.
Brecht ha riassunto le lodi rivolte da Lukács alle scene di Lo spione sottolineando come vi avesse applicato esattamente la tecnica incriminata del montaggio. In altri drammi, il drammaturgo vi ha fatto ricorso ugualmente, invocando di continuo i tentativi analoghi intrapresi nel cinema o da altri scrittori. Egli utilizza il montaggio quando gli pare appropriato e lo difende in ogni caso contro gli argomenti di Lukács:
Non ho alcuna ragione per mettere in voga ad ogni costo la tecnica del montaggio di Dos Passos […]. Ma non posso permettere che simile tecnica venga condannata in nome della creazione di personaggi «duraturi». Innanzitutto, Dos passos ha rappresentato straordinariamente «i rapporti e le correlazioni conflittuali tra gli uomini», anche se i conflitti da lui svelati non sono gli stessi conosciuti dai personaggi di Tolstoj, e le correlazioni non sono le stesse dei romanzi di Balzac. E poi, un romanzo non basa necessariamente tutta la propria esistenza sul «personaggio» e, sopratutto, sul tipo di personaggio esistente nel secolo scorso. Non dobbiamo alimentare l’idea di una sorta di Valhalla dei personaggi duraturi della letteratura, di una specie di Museo Tussaud, nel quale  da Antigone a Nana, e da Enea a Nechljudov, non vi sono che personaggi intramontabili.
Brecht rimprovera Lukács di trasformare la questione del realismo in una di forma, e prendendo in considerazione la tecnica:
Non si dovrebbe prestare orecchio con eccessiva speranza a coloro che utilizzano troppo volentieri il termine forma, come si trattasse di qualcosa di diverso dal contenuto, in rapporto o meno con esso, e che esecrano la parola tecnica, ritenendola pressapoco come qualcosa di «meccanico». Non bisogna curarsi del fatto che citino i classici (del marxismo) e che il termine forma provenga d a essi: non hanno appreso la tecnica della scrittura romanzesca. Nessuno dovrebbe avere paura del termine meccanico, fin quando è in rapporto con la tecnica; vi è una meccanica che ha reso, e rende tutt’ora, dei grandi servizi all’umanità: esattamente quella della tecnica. Gli «ortodossi» tra di noi, che Stalin (7), in un altro dominio, differenzia dagli spiriti creativi, si sforzano, tramite certe parole, usate nel modo più arbitrario, di esorcizzare gli spiriti.
Lukács ed i suoi fedeli, a detta di Brecht, trattano in modo formalistico i problemi di forma. Il loro marxismo e un «murxismo» (8). Brecht caratterizza le loro argomentazione come segue:
I realisti borghesi avevano un realismo incompleto; avevano ancora degli idoli; mettiamoli da parte e tutto sarà in ordine. Ciò che hanno fatto viene acetato e riorganizzato. Marx viene concepito come un Ricardo giunto a conclusioni esatte. Niente di più. Šolochov, un Balzac liberatosi dai paraocchi. In realtà, i vari Šolochov non possiedono un grammo del materialismo di Balzac (una curiosa mistura di romanticismo, brama dei «fatti», di manie da collezionista, di speculazione, ecc.) e molti più paraocchi.
Brecht ritiene impossibile affrontare materiali e problemi attuali senza inventare nuove forme. Rigetta, come non marxista, il tentativo compiuto da Lukács di ridurre il realismo ad una questione di forma. Per il drammaturgo tedesco non si tratta di un problema di forma nuova o antica, egli esige la forma appropriata: «ogni elemento formale che ci impedisca di approfondire la causalità sociale va rigettato; ogni elemento formale che ci aiuti ad approfondirla va utilizzato». Lukács vuole conservare le forme antiche in modo puramente formale. Brecht non considera le sue tesi come analisi, bensì come dei precetti per la costruzione del romanzo attuale. A cosa dovrebbe servire tutta questa «ricchezza della vita» quando le situazioni che si dovrebbero  descrivere gridano vendetta. Con la sua esigenza di personaggi «netti», «armoniosi» e «dall’anima ricca», Lukács rende gli scrittori, e non i rapporti sociali, responsabili della «degenerazione» della letteratura. Brecht caratterizza la preoccupazione suscitata in Lukács dal frantumarsi delle forme borghesi di narrazione come «singolare inclinazione all’idilliaco»: «la tecnica di Balzac non fa di Henry Ford una personalità sul tipo di Vautrin, ma quel che è peggio, essa non consente di tratteggiare la nuova umanità del proletariato cosciente, quello della nostra epoca. La tecnica di Upton Sinclair non è tropo nuova, ma troppo antica per un simile compito. Non è né troppo, né tropo poco Balzac».
Stimolato dalle violente critiche di Lukács, Brecht si occupa di alcune opere «avanguardiste». Egli studia il catalogo di peccati, quali il montaggio, lo straniamento, il cambiamento di stile ed il monologo interiore in Dos Passos, Gide, Joyce, Döblin e Kafka, scoprendo in tale contesto come l’Ulisse sia «un grande romanzo satirico». Inoltre si domanda se «il romanzo di Giuseppe (9) sia scritto in uno stile più popolare dell’Ulisse». Nel suo articolo Contributi pratici alla questione dell’espressionismo (10), Brecht scrive: «ho sentito lettori estremamente intelligenti lodare il libro di Joyce per il suo realismo. Non che ne abbiano elogiato altrettanto la scrittura (alcuni parlano di manierismo); ma sembrano avervi individuato un contenuto realista. Probabilmente mi tratteranno da conciliatore se dovessi ammettere di aver riso leggendo l’Ulisse, quasi quanto leggendo Sc’vèik, e come al solito, non vi è che una satira realista che fa ridere la gente come noi». In Joyce, Brecht trova anche più realismo che in Thomas Mann o Šolochov, due dei pochi scrittori del XX secolo ammessi da Lukács, senza riserve di sorta, al fianco di Gor’kij. Per quanto avesse ragione sui punti fondamentali, Brecht, sui dettagli, non si sentiva sufficientemente sicuro per far valere i propri argomenti in favore di Thomas Mann, così come vi aveva fatto ricorso per il suo dramma Terrore e miseria del Terzo Reich. È pur vero che Thomas Mann, contrariamente a Brecht,  si sentiva spesso consacrato e lusingato dai lavori di Lukács. Il secondo, in ogni caso, considerava l’autore de I Buddenbrook come un moderno Spielhagen (11), e personalmente come un’opportunista. Egli non riconosceva l’ironia presente nell’opera di Thomas Mann.
Se si prescinde da tali giudizi riguardo a Thomas Mann e Šolochov, le prese di posizione di Brecht sulla questione del realismo forniscono, quantomeno, il contributo ad oggi più utile ai fini di una teoria marxista del realismo. Al contrario, Lukács propone nei suoi saggi dei criteri di natura dubbia. egli formula delle direttive mutuate dall’estetica del romanzo borghese. I suoi precetti di composizione determinano ancora oggi le pubblicazioni marxiste ufficiali sul problema del realismo. Tuttavia, gli articoli degli ultimi tempi contro Lukács, da un unto di vista marxista, non fanno altro che testimoniare di un liberalismo in grande stile (12). Il drammaturgo propone ai critici marxisti di «analizzare» la materia di un dramma come «marxisti, storici, politici, economisti e dialettici, e in seguito, laddove vogliano esprimersi sugli elementi formali di ordine estetico, il che dovrebbe essere fruttuoso per la composizione di nuovi drammi, di prendere in considerazione in quale misura tali elementi siano appropriati alla materia».
La controversia tra Brecht e Lukács, la quale, a causa del Fronte popolare, non poté proseguire a pieno, raggiunse l’apogeo col saggio di Lukács su Marx e il problema della decadenza ideologica. Si tratta di una sintesi delle sue tesi, e allo stesso tempo di un’offensiva generale contro tutti gli scrittori incapaci di «spingersi realmente sino alle fonti della vita». Brecht sottolineava anche in quest’occasione, nel suo commento, il pericoloso convergere delle concezioni artistiche fasciste e socialiste alla Lukács:
Letto Marx e il problema della decadenza ideologica di Lukács. Si noti come «l’uomo» venga costruito da un punto di vista che rimuove tutto ciò che riguarda il proletariato! Si tratta ancora del realismo, ormai ridotto così in basso da collocarsi lì dove i nazisti hanno posto il socialismo. Lo scrittore realista «dell’epoca della decadenza» (sarebbe la nostra epoca: all’inizio solo qualche borbottio su «l’epoca della decadenza borghese», poi solamente «l’epoca della decadenza», tutto è in piena decadenza, non la borghesia) viene dispensato dall’essere un materialista dialettico. Ciò che conta «è se egli , nel caso di un simile urto tra la realtà esattamente percepita e vissuta e l’ideologia e i pregiudizi acquisiti, dà la preferenza, nell’atto creativo, alla prima oppure ai secondi». Come già fatto da Balzac e Tolstoj, essi restituiscono la realtà. No vi è contraddizione tra questi realisti della borghesia e quelli del proletariato. (Un’occhiata a Šolochov sembrerebbe confermarlo). Forse neanche più tra la borghesia ed il proletariato stessi? Come, del resto, sotto le insegne del Fronte popolare? Viva il pastore Niemöller! (13) Realista di prim’ordine! Ancora una volta, per rappresentare non c’è bisogno di sapere (poiché Thomas Mann rappresenta per bene, e tuttavia non sa niente). Nel rappresentarla, queste compunte figure, conferiscono alla realtà, senza saperlo, la priorità rispetto alle opinioni preconcette. È una questione di esperienza immediata. Tu ti prendi un calcio e dici: «ahi»! Lui si prende un calcio e dice: «ahi»! Benedetta ingenuità! Questo Lukács è magicamente attratto dal problema della decadenza ideologica. Ecco le categorie marxiste portate all’assurdo da un kantiano, per cui non vengono confutate, ma  al contrario utilizzate. Qui la lotta di classe diviene un concetto pieno di buchi, prostituito, saccheggiato, bruciato sino ad essere reso irriconoscibile, e ciò nonostante è lì e appare. «Abbiamo anche visto… », «tra le altre correnti… », niente di concreto. nel saggio in questione, una breve citazione di Marx. Quest’ultimo elogia, in Sue, la rappresentazione di un personaggio dei bassifondi. Fleur de Marie viene da lui dipinta nelle sue buone qualità, in tal modo Sue «ha dato uno schiaffo ai pregiudizi della borghesia». Bene, finalmente qualcosa di concreto, e sopratutto si entra nella realtà, nella disumanizzazione per essere più precisi, di Fleur de Marie.  In Lukács la lotta di classe non è altro che una sorta di «demone», un principio vuoto, il quale turba le idee delle persone, niente di più. Esiste nella realtà, dunque, che lo scrittore dipinga la realtà, essa apparirà nei suoi quadri! Il modo con cui questa gente da inizio alle proprie critiche formaliste con una critica del formalismo, quale somiglianza con le manovre nazional-«socialiste»!
Ernst Bloch, il quale aveva affermato, nel 1937, in un articolo sul dibattito intorno all’espressionismo, che «la canzone schematica di alcuni intellettuali moscoviti va all’unisono con Hitler», sviluppa delle argomentazioni analoghe. Egli criticava il fatto che marxisti come Lukács «agitassero la loro fanfara rossa contro l’espressionismo», dal punto di vista di un classicismo sul quale puntava anche Hitler. A proposito del rimprovero rivolto da Lukács agli espressionisti, responsabili di aver oltraggiato e disprezzato l’eredità classica, ecco ciò che pensava Bloch: «le figure del secolo scorso, con le «opere dei nostri padri», non rappresentavano degli eredi, bensì degli epigoni; su di essi pesavano le parole di Goethe: «guai a voi, giunti dopo i vostri antenati». Ma la gioventù, che nel nostro secolo si rinnova, si rinnova senza tregua, non considera la grandezza del passato come una maledizione, ma come una testimonianza». Nel suo articolo per Das Wort, Bloch giudica ancora la modalità meccanica, non dialettica, con la quale Lukács pontifica su ogni nova ricerca artistica: «un neoclassicismo prolungato, nel quale la credenza per cui tutto ciò che è venuto dopo Omero e Goethe non è degno di rispetto, se non segue il loro esempio, o meglio, l’astrazione che ne è stata tratta, non costituisce in ogni caso un punto d’osservazione dal quale giudicare l’avanguardia degli ultimi tempi, e vederci chiaro». Lukács ha «una concezione della realtà oggettivista e chiusa», dalla quale viene indotto a prendere posizione contro qualsiasi artista che tenti di «rovinare un’immagine del mondo (e quando l’immagine del mondo è quella del capitalismo)». Egli pone sul medesimo piano l’esperienza della decadenza con lo stato di fatto di tale decadenza: «gli espressionisti erano dei «pionieri» della decadenza: sarebbe stato meglio se fossero stati come dei medici al capezzale del capitalismo?». Bloch sostiene l’opera di Brecht contro lo storico della letteratura, il quale ricorreva, all’epoca, con una frequenza sorprendente, al termine «liquidare»:
 Brecht invoca «una lingua parsimoniosa, che pesi nettamente le parole», ma vuole anche, giustamente, una visione esatta, la quale chiami le cose col loro nome, e che non si lasci sminuire. La semplicità di Brecht non ha niente in comune con la «liquidazione» astratta, non solo, esprime freschezza e forza politica. Un’opera per la quale valgono le parole di una locandina di Mahagonny: «la fuori, ieri, qualcuno ha iniziato a chiedere tue notizie». E le tenebre rispondono; i sostenitori del capitale, ai quali nessuno chiede niente, rispondono con rabbia; gli schematici di sinistra, i quali non capiscono, rispondono stupidamente.
Infine, insieme ad Hanns Eisler, Bloch pubblicherà sulla Neue Weltbühne un contributo polemico sul problema dell’eredità culturale, il quale darà a Lukács l’occasione di scagliarsi violentemente anche contro il compositore e collaboratore di Brecht. Eisler riteneva lo schematismo di Lukács una catastrofe, non solo artistica, ma anche politica: «ciò di cui hanno bisogno gli artisti, ciò che viene prodotto nei nostri giorni deve essere necessariamente un male e sarà un male, è che siano compresi e conosciuti i loro problemi di produzione specifici […]. Il formalismo non viene superato dall’accademismo, ma unicamente a partire da nuovi materiali che richiedano una forma, determinata dal contenuto, e che gli sia appropriata». Eisler proponeva in tal modo una ripresa produttiva dell’eredità, pronunciandosi contro la conservazione accademica dei classici, così come praticata dai nazisti. L’eredità storica doveva «contrariamente all’uso che ne fanno i nazisti, essere rielaborata in maniera critica». In tali osservazioni, Lukács scorgeva un atteggiamento di rifiuto arrogante, estraneo al «glorioso passato letterario del popolo tedesco». Egli vedeva nella posizione di Eisler una forma di avanguardismo della peggior specie. Il compositore non mancherà di replicare:
Potrebbe anche darsi che, a causa della critica di Lukács, in molti abbiano paura di assumere un «atteggiamento arrogante, estraneo… », di caratterizzare l’attività antifascista in Germania come barbara, giungendo a ritirarsi in un’estetica da museo, di tipo universitario, che consenta loro di vivere in comunione più intima coi classici. Lukács non ha proposto niente di più riguardo all’attività in Germania. Poiché un’espressione come «glorioso passato letterario del popolo tedesco» non ci fornisce granché da mettere sotto i denti, così da rispondere a dei bisogni del tutto reali. (Il termine «glorioso», d’altronde, viene utilizzato in Germania al fine di celebrare l’esercito prussiano, piuttosto che per rendere omaggio a Goethe e Beethoven) (14).
Brecht aveva in programma una piccola messa a punto, anch’essa non stampata, nella quale affermava:
Lukács ha, in qualche modo, ripulito la sua cucina con il mio amico Eisler, il quale non ha proprio l’aria di un pallido esteta, dato che nell’esecuzione del testamento non avrebbe mostrato la pia emozione prescritta. Egli ha frugato, per così dire, e ha rifiutato di prendere possesso di tutta l’eredità. Beh, può darsi che, da esiliato, non sia in condizione di portare troppe cose con sé.
III
La rudezza dei toni del dibattito su espressionismo, realismo, formalismo e decadenza, fornisce – laddove comparata coi testi rigidi ed esangui scritti oggi a proposito degli stessi temi – una sorprendente impressione di freschezza e vitalità. Tuttavia, non bisogna dimenticare che tali controversie avevano quale retroscena la minaccia crescente del fascismo ed i processi di Mosca. Le opinioni divergenti degli alleati venivano combattute con più violenza delle idee fasciste. Brecht era esasperato da questo scambio di colpi. Le discussioni stavano bloccando la sua produzione. Gli articoli di Lukács rappresentavano l’antefatto teorico alla condanna finale di tutte le tendenze progressiste in letteratura. La sua schematica teoria dell’arte, piatta, impregnata di idealismo, trascurava tutte le realizzazioni dell’arte moderna come l’opera di Picaso, Stravinskij, Schönberg, Eisler, Dos Passos e dello stesso Brecht. Tra questi artisti, pochi avevano una conoscenza sufficiente del marxismo, tale da consentire loro di fare differenza tra l’insegnamento di Lenin ed il marxismo volgare dei critici moscoviti. Scrittori dichiaratamente borghesi, come Romain Rolland, Sinclair lewis e Thomas Mann, le cui prese di posizione in favore del comunismo si condensavano, in ogni caso, nei discorsi, ma non nelle loro opere, erano più noti di scrittori socialisti come Brecht o Tretyakov. Gli scrittori borghesi vennero proclamati santi del realismo e citati come esempio.
La concezione del mondo degli antichi, insieme a quella della realtà, approvata da Lukács, può essere attraversata da tratti reazionari: in essi, ciò non impedisce «la rappresentazione completa, esatta e obiettiva della realtà sociale». In un autore come Tolstoj, Lukács separa la forma di rappresentazione dalla visione del mondo dell’artista, perché la forma incontra il suo favore. Ai moderni, il critico rimprovera al contrario una coscienza lacunosa, o falsa, il che spiega la loro scrittura asseritamente non realista. Nel caso di Tolstoj, Lukács occulta questa contraddizione sostenendo che i pregiudizi reazionari dello scrittore russo sono indissolubilmente legati «ad un sacrosanto movimento popolare, il quale si leva carico di avvenire».
Il caso di Tolstoj non è un esempio isolato nella letteratura mondiale del fatto che un artista può creare capolavori imperituri anche in base a una concezione del mondo sotto molti aspetti falsa ed erronea. Ma, per quanto complessi possano essere i rapporti reciproci tra la concezione del mondo eventualmente falsa e la creazione realistica, tuttavia una concezione del mondo falsa «qualsiasi» non è adatta a essere la base del realismo.
Lukács non offre la stessa opzione agli scrittori contemporanei. L’espressionismo rappresenta, ai suoi occhi, «l’espressione letteraria dell’ideologia dell’U.S.P. (15) presso gli intellettuali». Una difficile condizione per tutti coloro che non sono «figli genuini di Omero».
Brecht era più dedito al realismo e all’attività politica di quanto non fosse Lukács, il cui attaccamento alle forme antiche conduceva ad attardarsi nelle alte, ed eteree, regione dell’estetica. Che il teorico a tal fine si appelli a Marx e Lenin, i gusti letterari dei quali hanno fatto su Lukács un sin troppo profonda impressione, è frutto di malinteso. Il suo metodo non ha molto a che fare col marxismo. Da dogmatico, Lukács rimane estraneo alla realtà politica del 1938. Egli non fa appello alla lotta contro il fascismo, bensì contro la decadenza. Egli si orienta esclusivamente in funzione della letteratura e di alcune forme esemplari. «Ma riguardo alle forme letterarie», scrive polemicamente Brecht, «è la realtà che va interrogata, non l’estetica, sia pur quella del realismo. Vi son diversi modi di tacere la verità, così come di dirla. Noi deduciamo la nostra estetica, e la nostra morale, dalle necessità della nostra lotta».
Articolo inizialmente comparso su Kursbuch 7, 1966; la traduzione francese, di Dominique Letellier e Serge Niemetz per la rivista Travail Théâtral, n°3, 1971, p. 104-119, disponibile su Période.
  1. N.d.t. Nell’edizione italiana, Einaudi, scena decima.
  2. In un’altra nota a questo dramma si legge: «nel dramma Terrore e miseria , si è cerca di far adottare agli attori una recitazione adatta ai drammi di tipo aristotelico, anziché per altri appartenenti a questa stessa serie. Affinché il dramma possa essere rappresentato anche nelle condizioni sfavorevoli dell’esilio, esso è scritto in modo da poter essere recitato da truppe a ranghi ridotti (quelli operai esistenti) o solamente in parte. Le truppe operaie non sono in condizione, anche se ciò  è involontario, di forzare gli spettatori all’identificazione; i rari artisti di cui si dispone padroneggiano la recitazione epica, alla quale si sono formati nella ricerca teatrale degli ultimi decenni, prima del regime fascista. La maniera di recitare della truppa operaia e di questi artisti si accordano notevolmente. I teorici, i quali sino ad oggi consideravano la tecnica del montaggio come un puro principio formale, lo ritrovano qui inteso come una questione pratica, il che potrebbe ricondurre lo spettatore sul un terreno reale». L’elogio di Lo Spione da parte di Lukács è contenuto in un articolo comparso su Das Wort. Questo il paragrafo in questione: «é sufficiente comparare L’ebreo di Roma di Feuchtwanger al suo La fine di Gerusalemme, per constatare con quale energia tenti di superare alcune tendenze ad un certo soggettivismo storico separato dal popolo, di appropriarsi dell’autentica vita di quest’ultimo, nonché di esprimerla. Non molto tempo fa, Alfred Döblin teneva a Parigi, per la S.D.S. (Schuzverband deutscher Schriftsteller : Associazione per la tutela degli scrittori tedeschi), una conferenza la cui importanza non può essere sottovalutata per lo sviluppo della nostra letteratura, poiché vi viene riconosciuta l’attualità storico-politica della letteratura ed il carattere esemplare di un realismo come quello di Gorkij. E Brecht ha pubblicato, nel terzo numero di Das Wort, una breve scena in un atto (Lo Spione), nella quale conduce già la lotta contro l’inumanità del fascismo secondo modalità realiste per lui inedite, diverse e sfumate; egli fornisce un quadro vivace, per il tramite dei destini di alcuni uomini, dell’orribile terrore fascista in Germania, mostrando come questo dissolva ogni fondamento umano della vita comune, la fiducia nell’uomo, nella donna e nel bambino, come l’assenza di umanità del fascismo laceri e distrugga nelle sue fondamenta ciò che pretende di proteggere, ovvero la famiglia».
  3. Il periodico Das Wort venne pubblicato a Mosca dal 1936 al 1939. Brecht, membro della redazione, poteva, a dire il vero, fare in modo che certi articoli venissero stampati, ma non era in condizione di impedire che altri lo fossero. «Il dibattito sull’espressionismo» fu lanciato nel n° 9 del 1937, da alcuni articoli di Klaus Mann e Bernhard Ziegler, noto anche sotto col nome di Alfred Kurella. La discussione venne chiusa nel n° 6 del 1938, dagli articoli di Bloch e Lukács. La tribuna di quest’ultimo era Internationale Literatur, curato da Johannes R. Becher.
  4. Brecht, Ampiezza e varietà dello stile realistico.
  5. Lukács, per esempio, a proposito di Oleša scrive: «la discussione in seno all’Unione degli scrittori riguardo al naturalismo e al formalismo mostra, in maniera estremamente chiara, l’esiguità di progressi da noi compiuti. Malgrado l’estrema chiarezza dell’articolo della Pravda, la discussione ha a malapena toccato le questioni di principio del naturalismo e del formalismo. Il fatto che il compagno Oleša abbia trovato Joyce formalmente più interessante di Gorkij dimostra, in modo sorprendente, quanto il problema della forma sia ancor’oggi ben poco chiaro ai nostri scrittori, e a qual punto – impantanati nelle tradizioni della borghesia decrepita e di Bogdanov – persistano nel confondere la forma con la tecnica» (in Internationale Literatur, n°11 del 1936).
  6. Né i cavalli né tutte le guardie del Re riuscirono a rimettere Humpty Dumpty sui piè (Lewis Carroll).
  7. Nella traduzione francese pubblicata da L’arche: «che… distinguono Stalin dagli spiriti creativi».
  8. Ihr Marxismus sei eher « Murxismus ». (Gioco di parole intraducibile. Il loro marxismo è piuttosto un dilettantismo mortifero, n.d.t).
  9. Brecht si riferisce senza dubbio a Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, il cui terzo ed ultimo volume venne pubblicato nel 1936 (n.d.t.).
  10.  Brecht, Contributi pratici alla questione dell’espressionismo.
  11. Friedrich Spielhagen (1829-1911), autore di ventidue romanzi, tradotti i numerose lingue, in seguito dimenticato (benché Nietzsche vi abbia trovato «la forza e la chiarezza di un Goethe»), salvo forse Problematische Naturen (Nature problematiche, 1860). Umanista e lasalliano, il suo realismo ottimista mira alla rappresentazione completa e totale della realtà, ciò che egli definisce «totalità epica» (n.d.t.).
  12. Così, ad esempio, il realismo senza limiti di Roger Garaudy non è una nozione definita in termini marxisti, né una categoria estetica precisa.
  13. Teologo protestante assai noto in Germania, antifascista e pacifista (n.d.t.).
  14. Nella riedizione della sua critica di Eisler, Lukács rimpiazza «glorreiche» (glorioso) con «ruhmvolle» (rinomato).
  15. Unabhängige Sozial Demokratische Partei (Deutschland): Partito socialdemocratico indipendente di Germania. Organizzazione centrista, «socialdemocratica di sinistra», la cui maggioranza raggiungerà la III Internazionale al Congresso di Halle (ottobre 1920) unendosi con lo Spartakusbund nel K.P.D., mentre la minoranza resterà nell’U.S.P.D., la quale conoscerà un’evoluzione di destra.
Fonte: traduzionimarxiste.wordpress.com
Originale: https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2017/05/10/brecht-e-lukacs-analisi-di-una-divergenza-dopinioni/#more-28898

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