La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 9 settembre 2017

Perché studiare la storia politica del nostro Paese?

di Valerio Romitelli
Corbyn, Iglesias, Sanders, Mélenchon, Varoufakis, Tsipras: non sono questi i nomi di cui oggi più si discute in Italia quando si discute di alternative alle politiche neoliberali? Gli stessi campioni della sinistra di casa nostra non è a questi nomi che fanno per lo più riferimento? E non è forse molto inferiore invece l’interesse a discutere di quel che è successo in passato, meno che mai nel nostro stesso paese? Tutto ciò pare ovvio e scontato, ma direi solo per ragioni non buone, anzi pessime. Tra di esse ne segnalo due. Una riguardante l’esterofilia che da sempre contraddistingue i dibattiti politici italiani. L’altra che riguarda l’amnesia sul passato che da qualche tempo si è imposta anche nella cultura del nostro paese, malgrado la sua inveterata tradizione storicista.
La prima ragione mi pare alla fin fine riconducibile al quel solito cosmopolitismo ecumenico e cattolico che si pretende prospettiva superiore ad ogni circostanza e limite locali. Quanto alla seconda ragione sono convito derivi da quel culto della tecnologia secondo il quale a scandire la storia, tutta la storia in ogni suo aspetto, sarebbe appunto la tecnologia, le sue svolte ( ad esempio, quella tra fordismo e post-fordismo e oggi sopratutto quella che si è voluta chiamare la “rivoluzione informatica”).
È da qui che viene quell’opinione post-moderna e quanto mai narcotica secondo la quale il nostro tempo, irretito come sarebbe dai nuovi mezzi di comunicazione, non avrebbe più rapporti se non episodici coi tempi precedenti: opinione che si trova per altro confermata dalla scarsa presa sul presente politico rivendicata e praticata dal modo dominante, più accademico e tradizionale, di fare e pensare la storia.
Per fortuna, però, non mancano eccezioni sia pur disperse a queste prevalenti tendenze della nostra cultura . Tra di esse si può oggi segnalare il bel libretto di Michelangelo Ingrassia Le società operaie di mutuo soccorso e la lotta per la democrazia in Italia. Storia di una sperimentazione politica, Ed. People&Humanities, Palermo, 2017. Preciso intento della sua concisa, ma accurata e dettagliata indagine storica è mostrare delle nuove possibilità politiche per il presente. E inoltre di farlo senza divagare sulla storia di altri paesi, ma restando accuratamente sul terreno della nostra storia, sia pur opportunamente tarata sugli snodi dell’evolvere della situazione europea e mondiale.
Protagoniste di questo saggio sono, come dice il suo titolo, “le Società Operaie di mutuo soccorso”. L’arco temporale esaminato ha un’origine ben precisata, mentre la conclusione resta incerta e reiteratamente dilazionata. Vediamo i perché di questa differenza tra l’inizio e la fine della narrazione di Ingrassia.
L’incipit assai preciso viene fatto risalire al settembre del 1861, a Firenze, quando avvenne il primo congresso di tali Società dopo l’Unità e il nono dopo i tempi della loro iniziale comparsa risalente al 1848 e che le vedeva essenzialmente prive di una precisa connotazione politica. Il perché di tanta importanza assegnata al congresso del 1861 è spiegato dalla seconda parte del titolo del saggio: “la lotta per la democrazia in Italia”. Secondo Ingrassia, infatti, è proprio dal congresso di Firenze che l’originaria e latente “lotta tra liberali e democratici” nel seno delle Società Operaie volge in favore questi ultimi ed è proprio da questo momento che tali organismi, diffondendosi e politicizzandosi come mai in precedenza, diventano protagonisti della lotta per la democrazia nel nostro paese.
Da allora in poi all’interno di questi sodalizi – viene precisato – “gli operai, i braccianti, gli artigiani, gli impiegati, gli intellettuali, oltre a fare fronte per soddisfare i bisogni di assistenza e previdenza, praticarono tutti assieme il Risorgimento delle masse con la vita collettiva, con la solidarietà, con la cooperazione e il mutuo appoggio; con le elezioni degli organismi interni e la lotta all’analfabetismo che contribuirono alla formazione di una coscienza culturale e politica nelle classi subalterne; con la partecipazione delle donne; con l’autogoverno, l’autorganizzazione, l’autogestione; esercitando e diffondendo diritti e doveri sociali; convertendo, per altro, il mutualismo e il cooperativismo in idee-forza dell’economia democratica opposte al capitalismo liberale e al collettivismo marxista; consolidando dal basso(…) l’abitudine alla vita democratica” (p.21).
Ma veniamo ora all’incertezza e alla reiterata dilazione della fine di questa storia così come viene narrata da Ingrassia. Tale conclusione in dissolvenza è dovuto all'”ipotesi” che è costituisce l'”idea centrale” di questo saggio. L’autore infatti si dichiara convinto che “allo stato attuale sia possibile riprendere l’esperienza delle Società Operaie come punto di riferimento e termine di paragone della costruzione di una società e di uno Stato veramente democratici” con la precisazione : “Cominciando con la trasformazione delle città in altrettante Società operaie di Mutuo soccorso” (p.121).
Così ben si comprende perché questo saggio pur indicando ed esaminando attentamente le svariate discontinuità della storia delle Società Operaie, senza trascurare le sue disfatte più gravi (come, ad esempio, dopo il 1862 e in seguito con l’avvento del fascismo), non consideri mai giunta la loro fine definitiva, ed anzi le assuma come punto di riferimento atto a riconoscere quanto renderebbe omogenee esperienze tra loro profondamente diverse e distanti quali i Fasci siciliani tra il 1891 e il 1894 (pp.79-95), le bande partigiane tra il 1943 e il 1945 (pp. 112-115), e così via, fino a proiettare il loro esempio nel futuro. Preoccupazione centrale di Ingrassia è in effetti cogliere l'”eterno ritorno di un pensiero sociale” (p. 78), “il ripetersi della storia” (p. 115), da “ricominciare” (p.116) ancora oggi, per continuare la lotta per la democrazia nel nostro paese.
La “conclusione” di questo libro, breve quanto intenso e ricco di spunti stimolanti, è comunque con il punto interrogativo. Il titolo del capitolo finale è infatti Nel ventunesimo secolo: un’esperienza da ricominciare? La domanda riguarda dunque il come e il quanto: il come e il quanto sia possibile oggi trarre consiglio da tutte quelle esperienze politiche passate che avrebbero le Società operaie di mutuo soccorso come modello originario.
A questo proposito Ingrassia è stato così benevolo da dichiarare di avere trovato utile applicare il “metodo interpretativo” da me definito “pensiero sperimentale della politica”, in La felicità dei partigiani e la nostra. Organizzarsi in bande, Cronopio, Napoli, 2015 e altrove. Colgo dunque l’occasione per una breve discussione in proposito.

II

Comincio dalla fine del ragionamento per provare ad essere più chiaro. Tutta la questione di fondo per me sta nel chiedersi se siamo alla ricerca essenzialmente di uno o di più e svariati insegnamenti da trarre da questo insieme di esperienze politiche così come da altre. Nel primo caso, che mi pare sia quello perseguito da Ingrassia, ciò che più interessa è evidentemente la continuità, la ripetizione, l’eterno ritorno di un pensiero politico che al fondo si dimostra unico: quello appunto della lotta per la democrazia e/o , dal secondo dopoguerra in poi , per l’applicazione della Costituzione – come sostiene Ingrassia.
Nel secondo caso, che è invece quello che prediligo, si è spinti a cercare le discontinuità, gli scarti, persino gli equivoci, se si vuole quelle “ironie della storia” per cui la giustizia sociale viene non di rado ad affermarsi in modi minoritari, controcorrente, almeno in parte impensati e incoscienti – in proposito si deve notare non poche delle più grandi esperienze politiche d’emancipazione, quali la rivoluzione francese o la guerra partigiana in Italia hanno avuto dei ventenni come protagonisti.
Certo è che nel primo caso sappiamo in partenza dove vogliamo arrivare, quale insegnamento vogliamo trovare in un’esperienza politica passata o quali obiettivi ci dobbiamo dare in un’iniziativa politica presente. Mentre nel secondo caso è tutto più incerto, controvertibile e lo stesso ideale di giustizia sociale, di egualitarismo, di equità o di riduzione delle differenze che voler si dica, appare ogni volta da ridefinire, da rimettere in discussione a seconda della situazione concreta, con tutti i rischi di smarrimento o errore che ciò comporta.
Inutile quasi aggiungere che è proprio questo l’approccio che qualifico come sperimentale, rivendicando per il pensiero politico ciò che una simile qualifica vale nelle scienze e nelle arti diciamo più incontrovertibilmente moderne.
Senza addentrarci ulteriormente nella discussione metodologica, anzi direi meglio epistemologica assai complessa che così si aprirebbe, mi limito a qualche osservazione personale sulla sequenza storica durante la quale prende corpo ciò che costituisce l’ archetipo politico di Ingrassia e di cui io sono invece portato ad esaltare l’irriducibile singolarità: il biennio 1860/62. Biennio nel corso del quale le Società Operaie di mutuo soccorso conoscono una tale tumultuosa crescita da portarle – sotto la spinta della neonata Associazione Emancipatrice Italiana con a capo Garibaldi e Mazzini ( come viene puntualmente ricordato da questo testo a p. 45) – ad un enorme salto anche quantitativo. Da 153 a 453 (p.50)!
Ingrassia giustamente denuncia quanto poco la storiografia sia stata propensa a riconoscere il carattere politico di questo tipo di organismi collettivi, più volentieri rubricati tra quei fenomeni sociali dove liberali e cattolici li hanno sempre voluti relegare . Ma d’altra parte sono convinto – mi pare più di quanto lo sia Ingrassia – che la molla essenziale di questo biennio così eccezionale – anche per il decollo delle Società Operaie – sia da ricercare nella politica garibaldina: sarebbe a dire in quella politica che si apre con l’impresa dei Mille e continua per mesi e mesi a dettare la sua agenda anche alle parti sia pur relativamente avverse come i Savoia.
Una politica, questa, che costituisce una discontinuità, che scandisce un “prima” e un “poi” persino rispetto alla stessa tradizione democratica. In un libro scritto assieme a Mirco degli Esposti, Quando si è fatto politica in Italia. Storia di situazioni pubbliche Rubettino, Soveria Mannelli, 2001 vi abbiamo insistito non poco: che, al di là di ogni retorica sminuente ( sempre di sia pur lontana discendenza cavouriana e alla quale cede in fondo persino Gramsci), l’impresa “dei Mille” , lungi dall’essere archiviabile come manovra più o meno eterodiretta, è stata essenzialmente un’operazione azzardata, minoritaria, controcorrente che ha cambiato il corso del divenire così come era disposto.
Le conseguenze di questa operazione si troveranno certo moderate a Teano, e nella configurazione statale dell’Unità sarà la monarchia a riprendere l’iniziativa. Ma resto convinto che senza tenere a mente il precedente senza paragoni dell’impresa dei “Mille”ben difficilmente si può capire come le Società Operaie siano allora divenute quello straordinario fenomeno politico che divennero. Un fenomeno politico così straordinario da essere capace, come sempre ben mostra Ingrassia, di rilanciare la stessa iniziativa di Garibaldi. Ancora una volta ha ben ragione questo storico a leggere nella parola “Roma” presente nel fatidico lessema “Roma o Morte!” gli echi più profondamente rivoluzionari della Repubblica Romana del 1849.
Detto altrimenti, mi pare del tutto chiaro che la stessa politica garibaldina, una volta ottenuto e straordinariamente ampliato il sostegno delle Società Operaie, lungi dal limitarsi ad obiettivi di completamento del disegno unitario in nome del re sabaudo, abbia saputo rinnovare e rilanciare le lezioni più radicali degli anni nei quali il patriottismo italiano contava ancora quasi esclusivamente sulle proprie forze. Non si può dunque non concordare con Ingrassia quando tiene a descrivere Aspromonte come vero e proprio scontro da guerra civile.
Ma mi pare riduttivo vedere questa battaglia come una delle tante manifestazione dell’ostilità che nella storia d’Italia ha sempre diviso moderati e democratici. Ciò che si compie allora è un disastro gravido di conseguenze: si tratta del disfacimento dell’alleanza che sola poteva avviare l’unificazione del nostro paese in senso universalistico, verso la realizzazione di una maggior giustizia sociale: l’unione singolare tra i corpi militarmente organizzati dei garibaldini e i corpi socialmente organizzati delle Società Operaie. Un’unione che faceva tremare non solo i Savoia, ma anche la Francia di Napoleone III e con esso tutti i reazionari del tempo.
Altra questione è allora chiedersi cosa diventeranno poi garibaldini, mazziniani e Società Operaie, una volta passato questo loro momento politico eccezionale. Comunque mi pare poco convincente l’assunto della “continuità” secondo il quale queste figure resterebbero fondamentalmente le stesse in quanto rappresentanti della tradizione democratica, da sempre e per sempre, si potrebbe dire, più legata al sociale e nemica di quelle liberale e cattolica.
Ingrassia certo differenzia i contenuti e le circostanze delle svariate risorgenze di questa opposizione dall’800 ai giorni nostri, ma pare che la morale della favola resti sempre la stessa, quella appunto “democratica”. Un aggettivo questo che oggi certo pare chiarificante e risolutorio di ogni questione politica, ma che è il caso di notare quanto mai radicalmente cambiato e anche pervertito, nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze, dall’800 ad oggi. Ad esempio nel già citato libro sui partigiani ho già espresso tutte le mie perplessità rispetto alla definizione di Quazza della banda partigiana come “microcosmo di democrazia diretta”.
Sia chiaro che anche per me gli esempi offerti dalle esperienze politiche delle Società di mutuo soccorso dei tempi di Garibaldi possono e devono tornare d’attualità politica, stante l’attuale ed oramai avanzatissima degenerazione dei partiti. Ma si tratta di un ritorno che deve essere ricostruito e ripensato, non semplicemente avallato e celebrato come conseguenza della tradizionale continuità della “democrazia dal basso” nel nostro paese. Resta che proprio ai fini di tali ricostruzione e ripensamento Le società operaie di mutuo soccorso e la lotta per la democrazia in Italia costituisce un preziosissimo contributo.

Fonte : Il manifesto Bologna 

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