La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 9 settembre 2017

Un’analisi economica del reddito di cittadinanza

di Lorenzo Pesaresi
Questa tesi si propone di sistematizzare e dare organicità ai sempre più numerosi contributi teorici ed empirici riguardanti le conseguenze economiche dell’introduzione di un istituto di reddito di cittadinanza. La questione fondamentale che permea l’intera trattazione riguarda la scelta dell’approccio più appropriato di analisi all’economia del reddito di cittadinanza. A priori, i due possibili indirizzi sono rappresentati dall’adozione di una prospettiva unitaria e sintetica dell’istituto o, al contrario, di un’impostazione analitica tendente a negare l’esistenza di un unico reddito di cittadinanza.
In ragione delle solide evidenze derivate nel corso della trattazione in tal senso, è possibile esprimere una netta preferenza a favore di una visione analitica, piuttosto che sintetica, del reddito di cittadinanza. Al fine di giustificare e supportare questa univoca presa di posizione conclusiva, si passeranno in rassegna i principali risultati scaturiti dall’analisi, seguendo un’impostazione eclettica ed interdisciplinare.
Il ragionamento prende le mosse da un approfondimento sugli aspetti definitori del reddito di cittadinanza, allo scopo di distinguerne le caratteristiche necessarie dalle accessorie. Richiamando la definizione accolta dal Basic Income Earth Network, il reddito di cittadinanza si configura come un trasferimento monetario, universale ed incondizionato, erogato su base individuale a frequenza periodica. Insita nella natura stessa dell’istituto vi è, dunque, la tensione verso universalità ed incondizionalità, che si manifesta nell’assenza di qualsiasi forma di selettività, categorialità o requisito lavorativo a cui subordinare la corresponsione del sussidio. Accanto a tali tratti essenziali, ogni versione specifica di reddito di cittadinanza presenta caratteristiche accessorie di notevole importanza, tra le quali spiccano la dimensione territoriale di riferimento, l’ammontare del trasferimento e la fonte di finanziamento del programma.
Considerata l’ampiezza dello spettro delle possibili misure qualificabili come reddito di cittadinanza, l’insigne economista Anthony Atkinson ha proposto di elevare il reddito di cittadinanza a vero e proprio modello di welfare state, caratterizzato da universalità ed incondizionalità, accostandolo ad assistenza e previdenza sociale. A conferma della bontà della sua intuizione, ripercorrendo la genesi storica delle proposte informate ai canoni del reddito di cittadinanza dalla fine del XVIII sec. ai giorni nostri, è possibile distinguere almeno 3 differenti finalità teoriche assegnate all’istituto: esso infatti si presta a perseguire gli ideali di giustizia distributiva tra i membri della società, di equità redistributiva, per emendare in senso equitativo il modello capitalista, e di efficienza allocativa, per contrastare la povertà senza disincentivare l’offerta di lavoro.
Nonostante la ricchezza di formulazioni teoriche ed autorevoli sostenitori nella comunità economica, l’acceso dibattito sulle conseguenze potenziali dell’introduzione di un istituto di reddito di cittadinanza ne ha finora inibito qualsiasi attuazione concreta. Da un lato, i fautori del programma ne sottolineano la funzione emancipante rispetto alle coercizioni lavorative, un ampio potenziale di contrasto alla povertà e di perequazione delle disuguaglianze e, soprattutto, l’auspicabile abolizione dei disincentivi al lavoro indotti dai sistemi selettivi sotto forma di poverty trap e welfare dependency. D’altro canto, i detrattori del programma fondano le proprie obiezioni sulla disgregazione dell’etica e del valore sociale del lavoro, alla base dell’attuale società occidentale, e sul disincentivo all’offerta di lavoro indotto dall’istituto, suscettibile di minarne la sostenibilità prospettica. Dato che entrambe le opposte fazioni arrogano a sé un effetto positivo e incentivante l’offerta di lavoro, è interessante analizzare le motivazioni economiche sottostanti a tale apparente contraddizione.
In prima approssimazione, tutte le versioni di reddito di cittadinanza condividono la medesima struttura di incentivi al lavoro dal lato della spesa: per definizione, esse inducono un puro effetto di reddito, neutrale rispetto ai comportamenti microeconomici individuali, che disincentiva l’offerta di lavoro sotto gli assunti di concorrenza perfetta nell’offerta di lavoro e concezione psicologica del tempo libero quale bene normale.
Ampliando la prospettiva al sistema integrato spesa-finanziamento, si rende necessario articolare l’analisi in relazione alla fonte di finanziamento propugnata, adottando il criterio della neutralità rispetto ai comportamenti microeconomici individuali. Le fonti di finanziamento che rispettano tale criterio sono classificate come esogene, quelle che lo violano come endogene.
A livello pratico, le applicazioni più note di schemi di finanziamento esogeno sono da identificarsi in trasferimenti provenienti da una diversa area geografica, generalmente implementati in paesi in via di sviluppo con onere del finanziamento a carico di organismi sovranazionali o ONG, e nella distribuzione dei proventi derivanti dallo sfruttamento di risorse naturali comuni. A quest’ultimo caso appartiene l’unico esempio di reddito di cittadinanza effettivamente attuato nel corso della storia, il Permanent Fund DIvidend dell’Alaska.
A livello economico, le versioni a finanziamento esogeno producono un presumibile aumento del tasso di partecipazione nelle fasce di reddito inferiori, a causa dell’abolizione della poverty trap, e un puro effetto di reddito nelle altre, mentre le risorse finanziarie a loro destinate presentano natura di costo-opportunità rispetto ai potenziali investimenti pubblici alternativi.
Le versioni a finanziamento endogeno, che per definizione risultano distorsive rispetto ai comportamenti microeconomici individuali, si differenziano sulla base dello schema impositivo prescelto e della direzione della redistribuzione indotta. Fin dalle prime concettualizzazioni di reddito di cittadinanza a finalità redistributiva, la fonte di finanziamento maggiormente indicata quale naturale complemento del programma di spesa è stata l’imposta personale sul reddito. E’ interessante notare come tale estrema rilevanza tradizionale abbia condotto nel dibattito attuale ad una sostanziale identificazione del concetto generale di reddito di cittadinanza in questa sua specifica e, sotto molti punti di vista, limitativa declinazione. Peraltro, a causa delle ricadute sui sistemi fiscali nazionali della liberalizzazione finanziaria in atto dagli anni ’90 del secolo scorso, tale forma di prelievo si risolve oggi sostanzialmente in un’imposizione sul reddito da lavoro, poiché i redditi da capitale vengono normalmente assoggettati a tassazione separata.
A livello economico, il passaggio da un istituto di reddito minimo ad un reddito di cittadinanza finanziato tramite imposta sul reddito da lavoro, a parità di ammontare del sussidio, implica profonde ricadute a livello distributivo. Ciò raccomanda di applicare una preliminare tripartizione della popolazione in categorie omogenee in termini consequenziali, sulla base delle propensioni relative a consumo e tempo libero. In ragione dei responsi comportamentali profondamente diversificati tra le varie categorie, non è possibile trarre alcuna indicazione teorica conclusiva riguardo la direzione della distorsione indotta dalla misura sugli incentivi al lavoro. Le sue ricadute pratiche, dunque, dipendono dalla distribuzione demografica della popolazione nelle varie categorie e dalle rispettive elasticità dell’offerta di lavoro alla tassazione.
In generale, come si evince anche dall’analisi macroeconomica, il finanziamento tramite imposta sul reddito soffre di criticità sia di ordine teorico si pratico. Dal punto di vista teorico, la tassazione sul lavoro costituisce un sostanziale disincentivo all’offerta di lavoro, esposto ad obiezioni in termini di efficienza, mentre la perversa discriminazione qualitativa dei redditi a detrimento dei redditi da lavoro è censurabile secondo un’ottica equitativa. A livello pratico, inoltre, si pone la spinosa questione relativa alla dimensione territoriale appropriata all’attuazione del programma, dovendosi ponderare attentamente le dinamiche potenzialmente scaturibili dalla libertà di emigrazione ed immigrazione selettiva. Riconoscendo validità e solidità di tali rilievi, da più parti in dottrina è emersa la necessità di indagare possibili soluzioni complementari o alternative all’imposizione sul reddito da lavoro, che ne attenuino le controindicazioni.
Le più naturali fonti di finanziamento complementari sono costituite dall’imposizione sui redditi da capitale, nelle possibili accezioni di flusso, stock, profitto d’impresa o trasferimento ereditario, o sui movimenti di capitale: esse necessitano di un coordinamento sovranazionale, potenzialmente perseguibile a livello di Unione Europea.
La principale fonte di finanziamento alternativa è l’imposta indiretta sul valore aggiunto: a dispetto di un profilo regressivo difficilmente emendabile, essa presenta i vantaggi di gravare su una tipologia più ampia di redditi e disporre di un disegno facilmente armonizzabile a livello comunitario.
In conclusione, il messaggio fondamentale veicolato da questo elaborato è, dunque, la necessità di categorizzare all’interno di uno schema comune di welfare universale, per il quale è adeguato l’appellativo di reddito di cittadinanza senza ulteriori specificazioni, le particolari misure di politica economica affini in termini di finalità, fonte di finanziamento e dimensione territoriale di riferimento.

Questo testo è la tesi universitaria di Lorenzo Pesaresi dal titolo “Un’analisi economica del reddito di cittadinanza” (anno accademico 2016 – 2017 – Corso di Laurea in Economia, Mercati e Istituzioni; Scuola di Economia, Management e Statistica – Alma Mater Studiorum Università di Bologna).


Fonte: bin-italia.org 

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