La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 1 febbraio 2018

Al voto, al voto: il Pd un sultanato ex Dc, i separati in casa di Liberi e Uguali e la sfida di Potere al popolo





di Vindice Lecis
Il Pd di Renzi ha le movenze forlaniane di Pierferdy Casini candidato a Bologna e la smarrita supponenza di Beatrice Lorenzin imposta a Modena. In queste due provincie, dove un tempo il Pci aveva il 45% dei voti, si abbatte punitiva la tempesta perfetta di un democristiano da manuale e di una ministra prodotta dal vivaio berlusconiano e levigata nella minore covata alfaniana. Per il resto i posti che contano nelle liste restano saldamente appannaggio degli ex popolari, margheritini, democristiani di varia osservanza: Lotti, Bonifazi, Franceschini, Guerini, Boschi, Giachetti, Serracchiani, il cespuglio Tabacci e poi giù per li rami con i ras locali o i fedelissimi del capo, comunque protetti nei listini proporzionali e ben lontani dalle sfide dell’uninominale. Il Pd è solo Renzi perché la minoranza è stata spazzata via e umiliata. Cuperlo, da molti anni in Parlamento, ha fatto il bel gesto di rinunciare ma non riesce ancora a mettere nel mirino il responsabile della definitiva trasformazione genetica di quello che si ostina a ritenere il suo partito. Il povero ministro Orlando è invece rimasto, accontentandosi. Renzi lo aveva promesso e ha consumato implacabile le sue vendette contro i flebili oppositori interni. L’orizzonte strategico è un partito centrista, macroniano, privo di contrappesi democratici all’interno e legato alle politiche dell’Ue sullo smantellamento delle regole del lavoro e per l’ulteriore allentamento dell’intervento pubblico nel welfare, nell’istruzione e nell’economia. La sua strategia di medio termine è l’intesa con Berlusconi con il quale, a ben vedere certi collegi, sembra che ci sia una sorta di desistenza.

Il caso di Liberi e Uguali si va come configurando un’occasione persa, da una parte, e come una conferma dall’altra. L’occasione persa è quella di chi grida all’alternativa al renzismo ma non all’insieme delle politiche sociali portate avanti dal Pd nel pieno alveo della cosiddetta compatibilità europea. Alternativa che è scomparsa dall’orizzonte strategico di questa aggregazione elettorale. Essere stati, per molti dei suoi principali esponenti, corresponsabili di tali scelte certamente non aiuta. Ma su questioni come il pareggio di bilancio, l’imposizione del rigore, la riforma pensionistica e previdenziale, l’adozione di strumenti devastanti come il jobs act o la buona scuola servirebbe anche una robusta e severa autocritica. La camicia di forza di Liberi e Uguali – questa è invece la conferma – sta nella impossibilità di valutare l’idea di fare al meno del Pd. Gori no e Zigaretti sì? Perché? Eppure Zingaretti è stato corresponsabile del renzismo in tutte le sue declinazioni, compreso il Sì al referendum costituzionale. Liberi e Uguali si conferma dunque come una ambiziosa alleanza zavorrata dall’essere sommatoria di ceto politico. Dove le differenze notevoli all’interno delle tre forze che l’hanno costituito non mancheranno di deflagrare (Fratoianni è assai differente da Bersani e da Civati). Al netto dei rancori che nascono sin dai tempi di Rifondazione comunista (incubatore di tanti ribellisti diventati renziani o moderatissimi) la defenestrazione del parlamentare Michele Piras dalle liste in Sardegna è il frutto di un dissenso politico profondo: Piras negli anni è transitato da Rifondazione a Sel, quindi è entrato dentro Sinistra Italiana il tempo per fare colazione prima di accasarsi subito nel piccolo campo di Pisapia. Ma l’ex sindaco federatore ha abbandonato la pugna senza avvertire Piras che scrisse, poche ore prima, un memorabile articolo sulla Nuova Sardegna in cui chiedeva di fare intese col Pd in stile Zedda. Fuori tempo massimo.

Potere al popolo è certamente una novità. E anche piuttosto interessante, pur se i sondaggi ancora non l’hanno pesata. La sua nascita è stata come un torrente in piena che ha costretto i due partiti comunisti e varie associazioni a fare i conti con un vivace spontaneismo organizzato di massa e ad accettare la sfida. E’ certamente un’aggregazione elettorale e politica del tutto nuova, con un programma di forte radicalità i cui punti centrali sono la critica all’Europa e alle sue compatibilità, la battaglia contro le eredità dei governi di centro destra e centro sinistra su lavoro, ambiente, istruzione e previdenza. Le sue liste sono varie e composite con molti giovani, espressione di Pci, Rifondazione, rete dei comunisti, alcuni centri sociali, associazioni varie cone Eurostop e gruppi locali. Potere al popolo se saprà condurre una campagna elettorale intelligente, non figlia di un mero antagonismo, saprà far valere il suo essere nettamente alternativo al Pd e fortemente competitivo nei confronti del centro sinistra di Liberi e Uguali. Per la prima volta dopo anni ritorna, con loro, al centro del confronto la questione del conflitto tra il lavoro e il capitale e l’ancoraggio dei diritti individuali (non bastevoli) a quelli sociali (necessari). Non è poco. Come è importante la volontà di voler rappresentare gli esclusi e i non garantiti. Nel suo programma non trovo accomodamenti politicisti e quegli atteggiamenti da vecchi marpioni di chi sta ancora contrabbandando il voto utile (anche a sinistra). Ma, allo stesso tempo, non vanno sottaciute le difficolta a rendere stabile il progetto. Liberarsi da incrostazioni estremistiche è necessario e vitale. Questo non depotenzia, ma anzi rafforza la carica radicale. Una navicella così piccola, sulle ali di un entusiasmo abbastanza raro nel panorama nazionale, ha raggiunto comunque in pochi giorni circa quarantamila firme a sostegno delle liste. Senza chiedere aiuto a Tabacci, come hanno fatto i lagnosi liberisti di Bonino. E domenica alle 9 è stato il primo schieramente a presentare le liste. La ragionevolezza dei militanti ha, inoltre, saputo sventare alcune Opa ostili che avrebbero fatto naufragare il piccolo vascello sugli scogli dell’irragionevolezza. Tuttavia il programma – certamente il più innovativo su molti aspetti sociali – ha all’interno dei limiti, figli di un malinteso garantismo come la sorprendente richiesta di modificare il 41 bis perchè ce lo chiede l’Europa.

I Cinque stelle diventeranno il primo partito italiano e i suoi elettori non vanno demonizzati da nessuna anima bella. Non li definirò costola della sinistra (come fece D’Alema con la Lega delle origini) ma vanno compresi e rispettati. Certe parole d’ordine sulla questione morale, ad esempio, devono tornare ad essere in mano dalla sinistra. Tuttavia, anche tra i cosiddetti grillini le contraddizioni strategiche peseranno. Il rapporto con le politiche dell’Ue sarà basilare e il giro delle sette chiese di Luigi Di Maio nelle capitali finanziarie ha puntato solo ad accreditarsi nell’establishment come un Renzi o un Letta qualsiasi. Il M5S nella formazione delle liste ha comunque fatto un salto di qualità affiancando ai suoi esponenti storici anche volti non di militanti ma di cosiddetta società civile. Una normalizzazione del partito che ora non esclude alleanze e intese parlamentari.

Fonte: fuoripagina.it

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