La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 2 febbraio 2018

Il marxismo e la storiografia della Rivoluzione messicana








di Luis F. Ruiz
Studiosi appartenenti ai più diversi ambiti accademici hanno cercato di dare un senso alla Rivoluzione messicana, ovvero a un movimento iniziato come ribellione pluriclassista alla dittatura di Porfirio Diaz, ma sfociato in una serie di scontri regionali in cui fazioni, con agende contrastanti, combattevano l’una contro l’altra in una lotta per la terra, il potere e l’autonomia. La complessa sequenza di eventi dispiegatasi in Messico, tra il 1910 e il 1920, ha ispirato (e continua ad ispirare) gli storici a proporre differenti interpretazioni del processo rivoluzionario. Questo articolo discuterà come le interpretazioni fornite da diversi storici marxisti hanno modellato la storiografia della Rivoluzione messicana. I modelli interpretativi sviluppati da due generazioni di marxisti – quelli degli anni Trenta e le loro controparti dei Settanta – hanno influenzato le modalità attraverso le quali gli studiosi hanno percepito la storia del Messico in generale, e della sua rivoluzione in particolare. A grandi linee, gli storici marxisti l’hanno definita come (a) un’abortita o incompiuta rivoluzione proletaria, e (b) la vittoria della media borghesia e dello sviluppo del capitalismo.

Dopo il 1980, tuttavia, il contributo del marxismo è stato sminuito e marginalizzato da un certo numero di eminenti storici messicanisti [1]. I tradizionalisti hanno messo in questione i meriti delle sintesi marxiste, mentre i revisionisti affermavano che ogni sintesi, compresa dunque quella marxista, aveva fallito nel fornire una spiegazione alle apparenti incongruenze della Rivoluzione messicana. Negli ultimi venticinque anni, un numero crescente di storici ha scelto quindi di interpretarla come un insieme di “molte rivoluzioni”, verificatesi contemporaneamente nelle varie regioni del paese. Studi recenti si sono concentrati su aspetti particolari, come i singoli individui, le fazioni, le industrie, le classi, la razza, il genere e le aree geografiche [2]. I revisionisti si sono orientati verso la storia regionale, sancendo l’obsolescenza delle interpretazioni marxiste [3]. L’obiettivo del presente articolo, per tanto, consiste nel rivalutare il posto occupato dai marxisti nella storiografia della Rivoluzione messicana. Le interpretazioni marxiste , dunque, son davvero obsolete? Come possono contribuire ulteriormente a scrivere la storia di questo evento?

Messicanisti come Alan Knight e David Bailey hanno imputato al marxismo di ridurre meccanicamente la Rivoluzione a una storia di scontro di classe ed economico [4]. Ma le interpretazioni marxiste non andrebbero definite esclusivamente quali sistematiche applicazioni dell’ideologia alla storia. Le varie argomentazioni prodotte da due generazioni di marxisti hanno creativamente mediato tra un’ideologia rigida e i caotici, apparentemente incoerenti, eventi svoltisi fra il 1910 e il 1920. Sebbene gli storici marxisti non abbiano fornito soluzioni a tutti i problemi storiografici, le loro interpretazioni hanno costretto altri storici a riconsiderare l’importanza dei movimenti radicali, dei rapporti di classe e dei cambiamenti sociopolitici ed economici verificatisi, plasmandone la storia, durante la Rivoluzione messicana. Inoltre, i marxisti hanno sviluppato alcuni modelli concettuali che gli storici futuri potranno utilizzare quali piattaforme su cui costruire interpretazioni alternative della Rivoluzione.

Dunque chi erano questi marxisti? Tutte le personalità che verranno discusse erano storici, intellettuali o studiosi che si servivano della metodologia marxista al fine di interpretare la storia. Per quanto molti fra di essi fossero coinvolti in attività politiche, concentrerò la mia attenzione sulla loro opera come storici, e non quali politici, agitatori o membri di partito [5]. La prima generazione di marxisti emerse negli anni Trenta, e tra i suoi principali esponenti vi erano i messicani Rafael Ramos Pedrueza e Alfonso Teja Zabre. I marxisti degli anni Trenta ottennero preminenza nel contesto del regime di sinistra di Lázaro Cárdenas (1934-1940). Ammiratori della Rivoluzione russa, furono tra i primi a introdurre il marxismo nei circoli intellettuali messicani [6]. Al termine del mandato di Cárdenas, tuttavia, il paese attraversò un periodo maggiormente conservatore tra il 1940 e il 1968. In quest’epoca, il marxismo iniziò a perdere consenso fra i politici e gli intellettuali messicani. In seguito, due eventi di enorme influenza – la Rivoluzione cubana ed il Massacro di Tlatelolco nel 1968 – suscitarono un rinnovato interesse per il marxismo, dando vita ad una seconda generazione di storici ad esso ispirati. Si trattava di studiosi impegnati nella revisione della precedente interpretazione marxista, ponendo tutta una serie di questioni inedite. Ad esempio, iniziarono a definire il porfiriato, cioè i trentacinque anni di dittatura che precedettero la Rivoluzione, come una fase di consolidamento del capitalismo borghese, anziché un periodo di semi- feudalismo (come suggerito invece dalla generazione degli anni Trenta). Il gruppo degli anni Settanta comprendeva i messicani Arnaldo Córdova ed Enrique Semo, l’argentino Adolfo Gilly, gli statunitensi James Cockcroft, Donald Hodges e Ross Gandy, nonché il messicano-americano Ramón Eduardo Ruiz.

Le figure citate non comprendono tutti i marxisti che si sono espressi a proposito della Rivoluzione messicana. Altri, compresi José Carlos Mariátegui, Leon Trotsky e Vicente Lombardo Toledano, hanno contribuito alla storiografia, scrivendo su riviste, giornali e pubblicando pamphlet. Tuttavia, questo studio si concentrerà prevalentemente sul lavoro di coloro che hanno sviluppato un’analisi della Rivoluzione più comprensiva e dettagliata. I modelli marxisti che verranno presi in considerazione derivano specificamente da monografie sulla Rivoluzione messicana. Le interpretazioni proposte dai diversi storici marxisti possono essere raggruppate in sei modelli. Quello degli anni Trenta include (1) la teoria della rivoluzione borghese democratica di Ramos Pedrueza e (2) l’idea di marxismo umanista di Teja Zabre. Quello degli anni Settanta comprende (3) la teoria della non-rivoluzione di Ruiz e Cockroft, (4) il modello bonapartista proposto da Córdova, Hodges e Gandy, (5) il ciclo di rivoluzioni borghesi avanzato da Semo e (6) la rivoluzione interrotta teorizzata da Gilly.

Delle due generazioni, quella dei marxisti degli anni Trenta ha subito il maggior discredito. In un noto saggio storico, David Bailey ha sostenuto che l’apporto di tale leva “era ben poco agli occhi degli studiosi seri. I professionisti hanno registrato ciò [il lavoro dei marxisti] come prova di un pensiero reazionario o di puerile radicalismo, ma ignorandolo laddove inteso come storia” [7]. Gli studiosi hanno criticato i marxisti degli anni Trenta per due ragioni principali: essi avrebbero manipolato i fatti al fine di adattarli ad un’ideologia rigida, nonché avallato conclusioni ripetitive e non originali. Persino esponenti della generazione degli anni Settanta hanno suggerito che i modelli marxisti, proposti dai loro predecessori, erano fondamentalmente omogenei [8]. Ad esempio, Donald Hodges e Ross Gandy, che pure hanno passato in rassegna le interpretazioni marxiste esistenti, nella loro valutazione dei marxisti degli anni Trenta non ne menzionano per nome alcuno. Inoltre, i due autori, limitano i propri commenti sui modelli marxisti di quel decennio ad una sintesi fornita da un terzo studioso, Pablo González Casanova. Tuttavia, un’analisi comparativa di due diversi schemi marxisti, delineati negli anni trenta, rispettivamente da Rafael Ramos Pedrueza e Alfonso Teja Zabre, dimostrerà come quanto prodotto da questa generazione differisca in aspetti cruciali, ben lungi quindi dall’omogeneità attribuitagli, e accreditata da Hodges e Gandy. Teja Zabre e Ramos Pedrueza concordavano su diversi punti, ma avevano idee divergenti circa gli esiti della Rivoluzione messicana e l’applicazione della metodologia marxista.

Rafael Ramos Pedrueza sviluppò la prima influente interpretazione marxista in La lucha de clases a través de la historia de México, opera pubblicata in due volumi (1934-1941) [9]. Nel quadro della sua teoria di una rivoluzione borghese democratica, affermava che la piccola borghesia messicana, con l’aiuto dei contadini e degli operai, aveva intrapreso una guerra di classe contro l’élite dei proprietari terrieri. Ramos Pedrueza suggeriva che leader della piccola borghesia, come Alvaro Obregón e Plutarco Elías Calles, avevano acquisito il potere “sconfiggendo il feudalismo e l’imperialismo [della borghesia internazionale], due elementi fondanti della dittatura porfiriana” [10]. Il trionfo di questa classe innescò la scintilla della transizione dal semi-feudalismo al capitalismo, e dalla dittatura alla democrazia. Insisteva, tuttavia, che operai e contadini avevano fallito nell’organizzare una rivoluzione proletaria unificata poiché privi di una coscienza di classe avanzata.

Il Plan de Ayala di Zapata, per esempio, illustrava la disconnessione tra i ribelli contadini di Morelos e i lavoratori industriali dei centri urbani [11]. La proposta di Zapata rivendicava riforme riguardanti esclusivamente la condizione contadina. Conseguentemente, altri settori del proletariato non erano integrati nel movimento zapatista, nonostante nemici comuni come i possidenti terrieri e i proprietari delle fabbriche. Ramos Pedrueza ne traeva la conclusione che la distanza tra contadini e operai avrebbe dovuto essere eliminata affinché avesse luogo una rivoluzione socialista.

Fra tutti gli storici marxisti in questione, Pedrueza era il più fermo nella sua adesione all’ideologia marxista. Per esempio, interpretava la trasformazione del Messico in democrazia borghese come il “terzo stadio” della lotta di classe, un processo che poteva concludersi solamente col crollo del capitalismo e l’ascesa del socialismo [12]. Fasi della lotta di classe riferite ad una teleologia marxista in cui i rapporti di classe evolvevano in conseguenza dei cambiamenti economici. Ramos Pedrueza era del tutto aderente al marximo quando affermava che i cambiamenti nella sovrastruttura (religione, arte, filosofia, diritto) non avrebbero potuto disgregare la gerarchia sociale, poiché tali cambiamenti non colpivano la base – ossia i rapporti economici definiti dalla proprietà dei mezzi di produzione [13]. Nel suo modello, dunque, la Rivoluzione messicana rappresentava un passo verso un nuovo stadio della lotta di classe, questo perché la piccola borghesia aveva assunto il controllo dei mezzi di produzione prima detenuto dalla sconfitta élite porfiriana. La successiva implementazione del capitalismo e della democrazia borghese, in linea con la teleologia marxista, avrebbe infine, e necessariamente, condotto al sorgere di una vera rivoluzione socialista. Laddove quest’ultima si fosse verificata in Messico, tale era la convinzione di Ramos Pedrueza, essa sarebbe stata parte di un movimento globale. “La rivoluzione in corso in Messico è legata inesorabilmente al futuro del mondo. Nessuno può ritenersi isolato dal concerto internazionale” [14].

Sebbene Ramos Pedrueza criticasse le carenze della Rivoluzione, come la mancanza di coscienza di classe delle masse, ne sottolineava nondimeno i risultati positivi, nonché l’enorme potenziale per il futuro. Nel contesto della sua teoria della rivoluzione borghese, il regime di Lázaro Cárdenas rappresentava il compimento delle promesse insite nel processo rivoluzionario. Egli era convinto, inoltre, che sarebbe stato in grado di portare il paese alla prossima fase del conflitto di classe [15]. Ad esempio, elogiava le riforme sociali, in particolare in materia di educazione, intraprese da Cárdenas, suggerendo la loro funzionalità ai fini della successiva fase rivoluzionaria. La redistribuzione della terra avrebbe potuto costituire un primo passo verso l’indipendenza economica delle masse, mentre la riforma dell’istruzione sarebbe stata l’inizio del processo di indottrinamento. Quindi, secondo Ramos Pedrueza, gli insegnati, nel contesto dei nuovi programmi di istruzione, avrebbero dovuto essere i responsabili dello viluppo di una coscienza di classe tra contadini e operai. “È dovere essenziale, e magnifico, degli intellettuali, specialmente gli insegnanti rivoluzionari, disseminare la dottrina socialista rivoluzionaria… così da raggiungere l’unità delle masse contadine” [16]. Dunque, si tratta di uno schema in base al quale la Rivoluzione messicana, oltre ad aver dato origine alla democrazia borghese, ha creato anche le condizioni per la futura ascesa del socialismo.

Alfonso Teja Zabre concordava su diversi aspetti della teoria della rivoluzione borghese democratica, ma il suo approccio concettuale differiva da quello di Ramos pedrueza. I due marxisti convergevano su tre importanti conclusioni: (1) la Rivoluzione messicana era stata iniziata dalla piccola borghesia, (2) le masse aiutarono i leader di quest’ultima nel loro perseguimento di cambiamenti socioeconomici, come la distruzione del semi- feudalismo e (3) la Rivoluzione emerse quale reazione al porfiriato, un epoca nella quale il Messico era regredito “ai tempi in cui la Chiesa cattolica e le famiglie ricche controllavano le haciendas più grandi, il denaro, il credito e la rendita” [17]. Laddove Ramos Pedrueza vedeva la Rivoluzione come un’altra fase nella storia della lotta di classe, Teja Zabre sosteneva che il porfiriato aveva creato delle condizioni senza precedenti ed uniche per le classi sfruttate messicane. A suo modo di vedere, le masse avevano preso parte alla Rivoluzione perché, durante il porfiriato, i piani per il progresso e l’industrializzazione avevano escluso “la popolazione indigena, i lavoratori e le classi umili. I loro salari, le razioni di mais e cibo e, in generale, la qualità della loro vita subirono un declino” [18] Teja Zabre concentrava l’attenzione sulla grave situazione dei gruppi marginalizzati, motivo per il quale il suo modello concettuale può essere definito “marxismo umanista”. Il ricorso al marxismo al fine di studiare gli sfruttati del Messico poteva certo causare “un perdita di solidità della teoria, ma un guadagno quanto a senso di umanità” [19]. Sulla base di tale schema, dunque, la Rivoluzione messicana rappresentava qualcosa di più rispetto a una sollevazione della piccola borghesia; si trattava anche di una rivoluzione agraria, contadina, indianista e nazionalista, la cui vittoria fu assicurata da una popolazione variegata e ribelle.

Teja Zabre applicava la metodologia marxista con minore rigidità rispetto a Ramos Pedrueza. Il suo modello utilizzava gli elementi più funzionali, rifuggendo quelli meno flessibili della tradizionale dottrina marxista. Per esempio, a differenza di Ramos Pedrueza, e anzi di molti marxisti della stessa generazione, rifiutava conclusioni teleologiche. Lo schema del marxismo umanista non implicava che la Rivoluzione messicana avrebbe necessariamente condotto al socialismo. Teja Zabre si distingueva dai colleghi marxisti poiché “negava l’esistenza di una legge naturale alla guida dei processi storici. Al contrario, credeva esclusivamente nella possibilità di costruire ipotesi, in grado di portare ad una serie di indicazioni e conclusioni parziali, suscettibili di cambiamenti e modifiche successive” [20]. Altra significativa differenza tra Teja Zabre e Ramos Pedrueza, era che il primo non tracciava un collegamento tra classi lavoratrici messicane e movimento proletario internazionale. Invece di cerare di anticipare le fasi future della Rivoluzione, egli tentava solo di dare un senso a quanto accaduto nel passato. Un modello riuscito, perché incorporava il concetto di lotta di classe “applicandolo non come teoria chiusa e dogmatica, bensì quale strumento di analisi e studio” [21]. Nel suo esame dei rapporti economici e delle sollevazioni popolari, ad esempio, l’idea di lotta di classe consentiva a Teja Zabre di spiegare perché certi settori della popolazione avevano partecipato alla violenta insurrezione contro i proprietari terrieri.

Oltre ad impiegare un’interpretazione del marxismo flessibile, Teja Zabre suggeriva anche una presa in considerazione di varie metodologie, allo scopo di ottenere una “panoramica” più equilibrata della Rivoluzione messicana. Certo insisteva nel sostenere che il marxismo costituiva il metodo migliore, perché gli storici potevano servirsene “per selezionare e organizzare i fatti, e identificare la causalità relativa, tra le altre cose, ai fattori economici e sociali” [22]. Ciò nonostante, osservava come i fattori sociali ed economici non definiscono la storia nella sua interezza. Fattori che avrebbero dovuto essere studiati con cura nel caso della Rivoluzione messicana, in quanto precedentemente trascurati. Tuttavia, al fine di ottenere una panoramica della Rivoluzione, Teja Zabre raccomandava l’integrazione di differenti interpretazioni. “Le concezioni idealista, ortodossa, romantica, economica e materialista andrebbero completate con i fatti e i dati conosciuti” [23]. Il modello del marxismo umanista avallava diversi metodi, ma come concludeva Teja Zabre, l’elemento più importante rimaneva la condizione delle classi sfruttate, nonché le modalità con le quali i gruppi marginalizzati reagivano, o partecipavano, ai movimenti rivoluzionari.

Dopo il 1940, studiosi e politici messicani persero gradualmente interesse riguardo al marxismo, inteso sia come ideologia politica che come metodologia accademica. Tra il 1940 e il 1968, il clima politico messicano (e le succedentisi amministrazioni) divenne sempre più conservatore, mentre i messicanisti iniziavano a sviluppare interpretazioni maggiormente tradizionaliste (e ufficiali) della Rivoluzione [24]. Tuttavia, a partire dai tardi anni Sessanta, una serie di eventi cruciali influenzarono una rinascita del marxismo: la Rivoluzione cubana e il Massacro di Tlatelolco. Negli anni Sessanta e Settanta, il marxismo ebbe un ruolo in numerosi movimenti sociopolitici e culturali emersi, non solo in Messico, ma in tutta l’America latina. Eric Zolov, in suo articolo su questa stessa pubblicazione, definisce tali movimenti “la Nuova sinistra” [25]. Gli storici marxisti subivano senza dubbio l’influsso delle correnti della Nuova sinistra, ma non provenivano collettivamente da un gruppo o scuola di pensiero stabiliti. Il contributo degli storici “neo-marxisti” è consegnato a pubblicazioni e risultati accademici e, nel corso degli anni Settanta, la loro produzione sulla Rivoluzione messicana è stata così ampia da renderli dominanti in questo campo. Come David Bailey ha riconosciuto a su tempo, “gli storici marxisti della Rivoluzione, negli anni Sessanta e Settanta, hanno ottenuto quella rispettabilità di cui erano privi sino ad all’ora” [26].

I modelli marxisti emersi negli anni Settanta avversavano diverse posizioni espresse dai predecessori degli anni Trenta. Per esempio, non elogiavano più il “potenziale” della Rivoluzione. Laddove Ramos Pedrueza riteneva che la riforma agraria e dell’istruzione di Lázaro Cárdenas avrebbero potuto condurre il Messico verso la successiva fase del socialismo, i marxisti degli anni Settanta vedevano la presidenza Cárdenas come poco più di un continuo tentativo da parte delle élite di esercitare la propria egemonia sulla società. Dal momento che i governi conservatori affermavano di rappresentare la Rivoluzione messicana nella sua forma istituzionale, i marxisti della “nuova sinistra” svilupparono una visione ben più pessimistica, tanto della Rivoluzione che dello stato post-rivoluzionario. Ancora, sempre rispetto ai loro predecessori, produssero argomentazioni maggiormente complesse e dettagliate. In ragione di ciò, gli schemi discussi qui di seguito si presentano come meri distillati di opere ben più estese. L’obiettivo di tale trattazione consiste nel tracciare l’evoluzione del pensiero marxista tra gli storici messicanisti, evidenziando la varietà di interpretazioni cui ha dato origine.

Due esponenti del gruppo degli anni Settanta, Ramón Eduardo Ruiz e James Cockcroft, hanno proposto la teoria della “non-rivoluzione”, la quale si contrapponeva a diverse tesi avanzate dalla generazione degli anni Trenta. A detta di Ruiz e Cockroft la Rivoluzione messicana falli proprio nel produrre cambiamenti rivoluzionari significativi. I due non concordavano sulla nozione secondo la quale essa aveva causato una transizione dal semi-feudalismo al capitalismo. Secondo Cockroft, il capitalismo in Messico si era sviluppato ben prima della Rivoluzione. Durante il XIX secolo, compreso il periodo del porfiriato, l’agricoltura era divenuta “impresa capitalistica”, con la terra comprata e venduta in un mercato aperto e i contadini sempre più incorporati nel sistema del lavoro salariato [27]. Per lo studioso statunitense non vi era stata rivoluzione economica, poiché un settore della borghesia ne aveva rimpiazzato un altro quale proprietario dei mezzi di produzione [28]. Alcune ricche famiglie spalleggiavano il piano di Madero mirante a stimolare ed espandere l’economia capitalistica messicana, la quale era impantanata a causa dei monopoli di cui era espressione l’élite porfiriana. “Fondamentalmente, volevano un quota maggiore del bottino, nonché l’accesso alle più alte sfere del sistema [capitalistico], non certo la sua distruzione” [29]. Dopo l’iniziale chiamata alle armi di Madero contro il governo porfiriano, contadini e operai, in diverse aree del paese, presero parte a sollevazioni popolari. Nella descrizione fornitane da Ruiz, tale combinazione di eventi appare non come un rivoluzione, bensì come una “grande ribellione”. Egli, dunque, intendeva la Rivoluzione messicana come una rivolta disorganizzata che mise diverse fazioni della famiglia ribelle l’una contro l’altra [30]. Inoltre, affermava che i suoi leader – Madero, Villa, Zapata, Obregón e Carranza – finirono per combattersi in quanto privi di un piano unitario.

La costituzione del 1917 svolgeva un importante ruolo nel modello della non-rivoluzione poiché, secondo Cockroft, tale documento enfatizzava la continuità rispetto alle riforme radicali. Mentre altri marxisti avevano ne avevano lodato gli aspetti progressisti – come l’articolo 27 che garantiva la redistribuzione delle terre – Cockroft e Ruiz ritenevano si trattasse di una mera riaffermazione o continuazione della costituzione liberale del 1857. “La legislazione, sebbene temperasse gli ideali dei precedenti governanti, confermava i principi della proprietà privata, della competizione sfrenata, nonché i sacri diritti dell’individuo” [31]. In altri termini, la nuova costituzione manteneva intatto il supporto ai valori e alle idee borghesi. Lo schema della non-rivoluzione, per tanto, dipingeva un quadro pessimistico del 1917, l’anno in cui si conclusero le principali battaglie e il governo Carranza ratificò la costituzione. Cockroft, nell’esaminare i risultati della grande ribellione si interrogava: esattamente a cosa ha portato la Rivoluzione? Descriveva quindi la condizione del Messico post-rivoluzionario come segue: “i contadini sconfitti, un movimento operaio paralizzato e dipendente, una borghesia ferita ma vittoriosa e, per un popolo messicano diviso, un trionfo di carta – la costituzione del 1917” [32]. In conclusione, secondo la tesi della non-rivoluzione, la ribellione era sfociata nel trionfo di una nuova borghesia, la quale aveva sostituito quella porfiriana. Quanto alle masse, esse si ritrovarono ancora una volta in una posizione sfavorevole. Il proletariato fallì nell’organizzare una sollevazione unitaria poiché privo di leader capaci di diffondere la solidarietà e l’ideologia presso le classi sfruttate.

Arnaldo Córdova, Donald Hodges e Ross Gandy hanno sviluppato una teoria somigliante, sotto certi aspetti, a quella della non-rivoluzione. Córdova, e i suoi due colleghi statunitensi, concordavano sul prevalere della continuità rispetto ai cambiamenti rivoluzionari tra il porfiriato e la Rivoluzione messicana, e sulla tesi secondo la quale il continuo sviluppo del capitalismo costituiva il principale elemento di tale continuità [33]. Córdova respingeva anche la definizione di rivoluzione antimperialista – idea sostenuta dalla generazione degli anni Trenta – poiché, affermava, i capitalisti stranieri avevano continuato ad investire nell’economia messicana durante e dopo la Rivoluzione [34]. Ciò che separava Córdova, Hodges e Gandy da Ruiz e Cockroft era la convinzione dei primi che vi fosse stata una decisiva rivoluzione politica tra il 1910 e il 1940. Una rivoluzione politica consistente nell’emergere di un forte stato bonapartista, a rimpiazzo della dittatura porfiriana. Nella terminologia marxista, Bonapartismo si riferisce alla Rivoluzione del 1848 in Francia, quando Luigi Bonaparte pose fine al conflitto tra lavoratori, banchieri borghesi e proprietari terrieri legati all’ancien régime [35]. Secoondo Marx, Bonaparte rappresentava un’eccezione all’idea per cui “la classe dominante economicamente lo è anche politicamente” [36]. Córdova, Hodges, e Gandy suggerivano che la Rivoluzione messicana aveva creato una situazione analoga. i sostenitori borghesi di Madero, l’armata di lavoratori di Villa e i contadini insorti al seguito di Zapata, si sollevarono tutti contro la dittatura porfiriana, ma nessuna di queste fazioni aveva la capacità di mantenere il potere politico. Il Messico, per tanto, necessitava di un forte stato bonapartista ai fini del consolidamento politico. Hodges e Gandy affermavano che dopo la Rivoluzione “la borghesia rimase la classe economicamente dominante, ma allo scopo di salvaguardare il proprio portafoglio rinunciò alla corona” [37]. Corona che dunque spettava al nuovo stato bonapartista.

Sulla base del modello bonapartista, il governo post-rivoluzionario messicano rafforzò il proprio controllo sulla società nel corso degli anni Venti e Trenta. i successivi regimi di Alvaro Obregón, Plutarco Elías Calles, e Lázaro Cárdenas solidificarono la posizione di potere dello stato (al di sopra del proletariato e della borghesia). L’opinione positiva circa Lázaro Cárdenas espressa precedentemente dalla generazione degli anni Trenta, per tanto, svaniva nel contesto dello schema bonapartista. A partire dagli anni Settanta, trent’anni dopo la presidenza Cárdenas, Córdova, Hodges, e Gandy iniziavano a vedere il governo post-rivoluzionario non come progressista e proto-socialista, bensì come egemonico, burocratico e persino autoritario. Secondo tale modello, lo stato coopto i contadini e gli operai servendosi della strategia nota come política de masas [38]. La classe dirigente, in altre parole, tentò di placare le masse promuovendo riforme sociali ma, al contempo, proteggendo la borghesia attraverso il sostegno all’espansione del capitalismo. “Lo stato, in tal modo, appariva sia come benefattore e protettore dei non abbienti, nonché quale garante imparziale dei diritti degli abbienti” [39]. Córdova avanzava la tesi secondo cui i contadini, e le masse in generale, non erano nient’altro che “risorse umane” nella lotta armata, in quanto incapaci di “dettare l’agenda, l’ideologia e la direzione politica di qualsivoglia rivoluzione” [40]. I rilievi di Córdova somigliano all’argomentazione di Ramos Pedrueza riguardo alla mancanza, da parte di contadini e operai, di coscienza di classe. La differenza è che il secondo presagiva una futura educazione delle masse, mentre il primo riteneva che le politiche statali, inclusa la política de masas, le avrebbero tenute in una condizione subordinata, al di sotto del robusto stato bonapartista.

Il terzo modello marxista prodotto dalla generazione degli anni Settanta, il ciclo di rivoluzioni borghesi teorizzato da Enrique Semo, si proponeva di rispondere ad alcuni punti chiave indicati da quelli bonapartista e della non-rivoluzione. Semo concordava sul fatto che una forma di capitalismo esisteva prima della Rivoluzione, ma, affermava, non pienamente sviluppata. Secondo il suo schema, la Rivoluzione messicana rappresentava una terza ondata nel ciclo di rivoluzioni borghesi iniziate nel 1810. Ciascuna ondata rivoluzionaria, suggeriva lo storico messicano, avvinava la borghesia al pieno dispiegamento del capitalismo. Le Guerre d’indipendenza (1810-1821), ad esempio, produssero un moderno stato-nazione e abolirono il coloniale sistema de castas, due fattori che consentirono lo stabilirsi di una società più aperta e libera [41]. La seconda ondata rivoluzionaria si verificò durante le guerre della Reforma, le quali sfociarono nella distruzione del monopolio feudale sulla terra da parte della Chiesa e della proprietà comunitaria sulle terre indigene [42]. Il processo di redistribuzione ottimizzò le terre ai fini della produzione capitalistica. L’ondata finale fu proprio la Rivoluzione messicana, la quale trasformò il capitalismo monopolistico, finanziato dagli stranieri, tipico del porfiriato, in un sistema capitalistico indipendente, aperto e dinamico. Nell’argomentazione di Semo, la borghesia, a partire dal 1940, non aveva più alcuna riforma o rivoluzione da compiere. “La borghesia ha rappresentò una forza trasformatrice nella storia del paese, ma partire da questo momento assunse un carattere reazionario” [43].

La struttura del modello di Semo coincideva con l’idea delle fasi della lotta di classe sostenuta da Ramos Pedrueza, con la differenza che il primo tracciava l’evoluzione del capitalismo e non quella graduale del proletariato. Di fatto, Semo affermava, riguardo alle ondate di rivoluzioni borghesi, che il loro successo era dovuto “al loro tempismo e all’assenza del proletariato” [44]. In questo schema, dunque, il proletariato diviene un fattore reale solo dopo l’affermarsi del capitalismo. Prima della Rivoluzione messicana, le masse erano funzionali alla borghesia poiché “spostavano il pendolo della storia quel tanto necessario al consolidamento degli obiettivi della borghesia” [45]. Semo condivideva l’argomentazione di Córdova, Hodges e Gandy secondo il quale lo stato post-rivoluzionario tentò di manipolare e controllare le masse. Tuttavia, a differenza di questi marxisti, era convinto che lo stato, a partire dal 1940, fosse comparativamente debole. Nella sua ipotesi, lo sviluppo del capitalismo dipendeva dal lavoro (o meglio, dal suo sfruttamento) della classe operaia. Ciò, a sua volta, consentiva al proletariato di aumentare i propri ranghi, rafforzandosi e meglio organizzandosi. Di conseguenza, Semo concludeva che alla fine del ciclo di rivoluzioni borghesi, un proletariato unito avrebbe inevitabilmente costituito una minaccia alla stabilità della borghesia e al controllo egemonico dello stato.

La teoria della rivoluzione interrotta di Adolfo Gilly, ultima fra le interpretazioni marxiste qui prese in considerazione, coniuga diversi elementi degli altri modelli marxisti. innanzitutto, Gilly concordava con la valutazione complessiva espressa da Córdova, Hodges e Gandy circa il governo post-rivoluzionario. Riconosceva, quindi, che lo stato bonapartista di Obregón aveva rafforzato il proprio potere politico “conciliando ogni classe sociale, ma operando nell’interesse di una sola: la borghesia nazionale” [46]. Nello schema di Gilly, tuttavia, il controllo egemonico dello stato era inteso come rigorosamente provvisorio. A differenza del modello bonapartista, la sua tesi ipotizzava che le masse si sarebbero infine, e necessariamente, liberate poiché la Rivoluzione non si era ancora conclusa. Come nel caso di Luigi Bonaparte, lo stato opportunista rappresentato da Obregón impose la sua volontà ad una società frammentata, ma Gilly riteneva che la fazione proletaria avrebbe inevitabilmente compiuto una rivoluzione “interrotta… ma non sconfitta. [la rivoluzione del 1910-1920] Non fu capace di compiere il passo successivo, ma le sue forze non erano state schiacciate o disperse, e le sue battaglie fondamentali non erano ancora perse o abbandonate” [47].

Al pari di Ramos Pedrueza, Gilly credeva che la Rivoluzione messicana avesse favorito le condizioni necessarie ad una rivoluzione socialista. Tuttavia, discordava col suo predecessore riguardo la fonte del futuro processo rivoluzionario. Laddove Ramos Pedrueza puntava sugli insegnanti socialisti e sugli intellettuali, i quali avrebbero potuto servirsi dei programmi sull’istruzione di Cardenas al fine di educare il proletariato, Gilly guardava all’esercito contadino di Zapata quale avanguardia del socialismo. Secondo il suo modello, i ribelli guidati da Zapata avevano intrapreso una rivoluzione permanente, la cui ideologia e obiettivi differivano dal movimento borghese di Madero, Carranza e Obregón. La costituzione del 1917 era stata concepita per porre fine alla Rivoluzione, ma Zapata e i suoi sostenitori contadini rigettarono la proposta dello stato. Nella spiegazione fornita da Gilly “la rivoluzione non aveva trionfato, la terra non era stata redistribuita. Gli zapatisti rifiutarono di consegnare le armi e dissolvere il proprio esercito; essi svilupparono una loro agenda… proseguendo tenacemente la lotta” [48]. Gilly argomentava che gli zapatisti, in ragione della loro avanzata coscienza di classe e del loro impegno nella rivoluzione permanente, rappresentavano la via al socialismo. Il problema consisteva nel fatto che la loro iniziale insurrezione era stata ostacolata dal regime bonapartista. Ciò nonostante, l’assassinio di Emiliano Zapata nel 1919 non pose fine all’insurrezione, ne decreto solo l’interruzione. Il modello della rivoluzione interrotta proposto da Gilly, dunque, suggeriva che i contadini miravano ancora a proseguire e portare a compimento il processo rivoluzionario, e come fosse solo questione di tempo prima che altri settori del proletariato si unissero alla rivoluzione permanente.

A partire dal 1980, i modelli interpretativi sviluppati dagli storici marxisti degli anni Trenta e Settanta hanno gradualmente perso il favore degli studiosi tradizionalisti e revisionisti. Numerosi saggi storiografici, negli anni Ottanta e Novanta, hanno descritto il punto di vista marxista come inadeguato o, in alcuni casi, trascurabile al punto di non meritare menzione. In un saggio pubblicato su Secuencia, ad esempio, Alan Knight ha delineato le diverse generazioni di studiosi che hanno contribuito alla storiografia della Rivoluzione messicana; eppure i marxisti attivi negli anni Trenta sono vistosamente assenti dalla sua rassegna. Quanto alla generazione degli anni Settanta, l’opera di Gilly vi è citata brevemente e definito “alquanto schematico e povero di dati originali” [49]. Ma rigettare o minimizzare il contributo marxista porterà solo ad impoverire il dibattito storiografico, il quale dovrebbe invece includere una varietà di punti di vista e tradizioni. Riprendendo le parole di Luis Anaya Merchant, “esaminare le differenze tra le interpretazioni precedenti e presenti del passato è il compito del progetto storiografico” [50]. Le interpretazioni marxiste, per tanto, non andrebbero liquidate troppo superficialmente, poiché potrebbero considerarsi quali potenziali mattoni nella costruzione di una storiografia pluralistica e democratica della Rivoluzione messicana.

I modelli marxisti della Rivoluzione messicana forniscono alcune strategie interpretative che andrebbero recuperate e preservate dai messicanisti contemporanei. Due in particolare, sviluppate da Enrique Semo e Arnaldo Córdova, possono tuttora arricchire la nostra comprensione delle trasformazioni economiche e sociopolitiche avvenute nel corso del processo rivoluzionario. In primo luogo, l’idea proposta da Semo di un ciclo di rivoluzioni borghesi offre un’interessante spiegazione del perché la Rivoluzione finisca nel 1940, oltreché della svolta conservatrice assunta dalle politiche economiche dopo quell’anno. Semo, dunque, suggeriva che la borghesia aveva portato avanti lo sviluppo del capitalismo in Messico dando via ad un’ondata di riforme, o rivoluzioni, lungo tutto il corso dei secoli XIX e XX [51]. lo scopo di tali riforme consisteva nel creare un’economia di mercato che avrebbe consentito alla borghesia di rimpiazzare i monopoli oligarchici del vecchio regime. L’ultimo anno della presidenza Cárdenas (1940) segnò la fine del ciclo rivoluzionario poiché a questo punto, conclude Semo, il capitalismo si era pienamente stabilito in Messico. Col sistema infine dispiegatosi, la borghesia pose fine al suo impegno riformatore trasformandosi in una forza reazionaria. La teoria di Semo può aiutare gli storici a spiegare perché lo stato abbia messo fine al processo di redistribuzione della terra iniziato negli anni Trenta, e riaperto, successivamente, l’economia messicana al mercato mondiale e agli investimenti stranieri [52].

Il secondo concetto marxista che gli storici odierni farebbero bene a tenere a mente è l’idea di política de masas sviluppata da Arnaldo Córdova. Quando gli studiosi spiegano il processo di consolidamento statale (1920-1940), il concetto di política de masas può aiutare a illustrare come lo stato post-rivoluzionario sia stato capace di mantenere il potere politico su una nazione divisa e lacerata. Córdova affermava che la Rivoluzione messicana aveva prodotto un potente stato bonapartista, il quale si pose al di sopra del proletariato e della borghesia. Un’impresa portata a termine proprio tramite la política de masas, una politica che placava le masse promuovendo un’agenda populista mentre, simultaneamente, favoriva gli ideali borghesi. La facciata populista funzionava come importante strumento egemonico e controrivoluzionario. A detta di Córdova, lo stato rafforzò il proprio controllo sulla popolazione manipolando le masse e annichilendo i movimenti popolari indipendenti [53]. Obiettivo dello storico messicano, dunque, era illustrare la modalità tramite la quale il PRI (Partito rivoluzionario istituzionale) impose l’egemonia culturale e politica. Gli storici, solitamente, descrivono l’ascesa al potere del PRI facendo riferimento all’ideologia ufficiale dello stato, o il mito, secondo cui avrebbe promosso l’unità sociale, politica, razziale e culturale. Al fine di espandere l’idea di egemonia e consolidamento dello stato, gli stessi storici potrebbero incorporare il concetto di política de masas, poiché connette il potere manipolativo dell’ideologia ufficiale alla capacità dello stato di controllare la società.

Non tutte le parti dei modelli marxisti, ovviamente, rappresentano un mattone potenziale. Un elemento che indebolisce tali interpretazioni è il fatto che molti autori, sia della generazione degli anni Trenta che dei Settanta, sostenevano la conclusione teleologica in base alla quale la Rivoluzione messicana sarebbe, inevitabilmente, divenuta (o avrebbe condotto a) una rivoluzione socialista. Adolfo Gilly, per esempio, chiudeva il suo volume alludendo alla futura lotta di classe e vittoria del proletariato: “La Rivoluzione messicana, attraverso le sue forze principali – gli operai, i contadini, gli studenti e la piccola borghesia antimperialista – affronta con passione il proprio passato, così da organizzare la sua lotta presente e preparare le vittorie future” [54]. Il problema di una simile conclusione risiede nel suo allontanarsi dall’analisi storica, per volgersi al dominio della speculazione. Quando i marxisti fanno questo genere di affermazioni, sembra che vogliano forzare la storia della Rivoluzione messicana all’interno di una specifica visione marxista del mondo. Numerosi storici provenienti da altre scuole hanno criticato le interpretazioni qui discusse per la tendenza a fare ipotesi sul futuro. Alan Knight, ad esempio, ha sostenuto in modo convincente il rifiuto delle teleologie, poiché la Rivoluzione non ha avviato il paese verso un corso fisso e immutabile [55]. Le monografie scritte da storici marxisti hanno senza dubbio difetti, e in ragione di ciò devono essere sottoposte a valutazione critica, ma allo stesso tempo contengono intuizioni utili e rilevanti per il presente e futuro della storiografia.

Alcune parti della metodologia marxista non necessitano di un recupero poiché svolgono già un ruolo discreto nella storiografia. Il problema, semmai, è che l’influsso del marxismo rimane scarsamente apprezzato o sottostimato. Un esempio di tale “influsso” si trova nel lavoro dello stesso Alan Knight. Sebbene abbia criticato i meriti del marxismo in numerosi articoli, ha riconosciuto che la terminologia marxista, si pensi ai concetti di rivoluzione borghese e socialista, “offre ancora le migliori categorie globali al fine di dare senso al fenomeno rivoluzionario” [56]. Knight ha fatto ricorso a questo lessico marxista al fine i caratterizzare la Rivoluzione messicana come borghese. Conclusione alla quale è giunto sostenendo che essa “ha dato l’impulso decisivo allo sviluppo del capitalismo messicano, un impulso che i regimi precedenti non erano stati in grado di fornire” [57].

L’argomentazione generale di Knight riguardo all’impatto della Rivoluzione sul capitalismo e la borghesia era già stata avanzata dagli storici marxisti. Eppure, egli ha preso le distanze da questi ultimi sviluppando un discorso maggiormente sfumato, nel quale vengono respinti sia il determinismo economico che un mutamento drammatico e rivoluzionario. Knight ha sostenuto che gli storici marxisti hanno interpretato il cambiamento economico come risultato di una sequenza ordinata di eventi, la quale avrebbe condotto alla rivoluzione e al suo risultato logico. Egli si è opposto a questa teoria, spiegando come il sistema economico in Messico sia cambiato nel corso del tempo non a causa di “un singolo colpo risolutivo”, bensì in ragione dell’accumularsi di una serie di urti in rapporto non sequenziale con la Rivoluzione [58]. Sebbene Knight abbia data per scontata, da parte di marxisti, la percezione del mutamento economico quale risultante di eruzioni del conflitto di classe, ha sottovalutato la varietà di interpretazioni esistente tra di essi. Enrique Semo, per esempio, sosteneva una tesi rassomigliante nel complesso a quella fornita, in seguito, dallo stesso Knight. Nella sua trattazione del ciclo di rivoluzioni borghesi, descriveva il cambiamento come graduale, affermando che “i marxisti non hanno mai concepito la trasformazione del feudalismo in capitalismo come risultato di un singolo assalto, lanciato da un’unica rivoluzione” [59]. Al contrario, egli sosteneva che “il cambiamento ha avuto luogo dopo una serie di assalti, in seguito ad una successione di ’ondate rivoluzionarie’ e periodi di riforma, separati da fasi di stabilità, stagnazione e regressione” [60]. Knight potrebbe aver abbracciato le tendenze revisionista e tradizionalista al fine di evitare le interpretazioni marxiste, ma le evidenze qui riportate suggeriscono che il marxismo ha contribuito, almeno in parte, al suo approccio.

In conclusione, i modelli marxisti sviluppati dalle generazioni degli anni Trenta e Settanta possono colmare diverse lacune presenti nella storiografia della Rivoluzione messicana. La principale delle quali, probabilmente, è la recente scarsità di studi che offrano una sintesi. Un certo numero di fattori ha comprensibilmente scoraggiato gli storici dal produrre questo genere di lavori: la complessità dell Rivoluzione, l’accessibilità delle fonti archivistiche, la crescita degli studi regionali, l’esistenza di una sintesi apprezzata in The Mexican Revolution (1986) di Alan Knight, la sfida costituita dallo scrivere una monografia di poche centinaia di pagine su un evento di tale portata escludendo dettagli cruciali, ecc. E tuttavia, nuove sintesi potrebbero essere necessarie. Non solo per facilitare la vita ai docenti che insegnano storia messicana, ma, cosa ben più importante, al fine di dare seguito ai dibattiti circa il carattere e il corso complessivo della Rivoluzione.

In un saggio del 1987, Paul Wanderwood fece un’osservazione riguardo allo stato della storiografia messicana, osservazione tutt’ora valida: disponiamo dei mattoni, ma non ancora dell’edificio [61]. Gli studi regionali e specialistici (i mattoni) abbondano, ma ben poche sintesi (l’edificio) sono state prodotte dal 1987 [62]. In definitiva, l’obiettivo non può certo consistere nell’edificare un’edificio perfetto, dato che le dimensioni della storiografia renderebbero impossibile il consenso, ma forse l’obiettivo dovrebbe essere quello di costruire diversi edifici, concorrenti e interconnessi, che vadano al di là dei singoli mattoni disponibili. E spingendo oltre la metafora, anziché escludere il marxismo da questo “complesso di costruzioni” (ovvero, la storiografia), le interpretazioni ad esso ispirate potrebbero servire da impalcatura per alcuni edifici del complesso. La recente revisione e ristampa di La revolución interrumpida di Adolfo Gilly rappresenta un passo incoraggiante in direzione della riammissione del marxismo nei dibattiti storiografici attuali, ma nuovi studi sono necessari così da arricchire la qualità e la varietà di tali discussioni [63]. E, al fine di sviluppare future interpretazioni della Rivoluzione messicana, gli storici farebbero bene a tenere a mente le idee circa i rapporti di classe, la formazione dello stato e le trasformazioni socioeconomiche introdotte da due generazioni di marxisti.

Note
1. Categorizzare gli storici è senza dubbio una scienza inesatta, talvolta ingiusta, ma ai fini della discussione dei dibattiti storiografici ho scelto di suddividere i messicanisti in tre gruppi principali: revisionisti, tradizionalisti e marxisti. Per tradizionalisti intendo gli storici aderenti all’interpretazione “ortodossa” della Rivoluzione fornita da Frank Tannenbaum, così come esposta in opere fondamentali come Peace by Revolution (1933) e The Mexican Agrarian Revolution (1929). Tannenbaum ha introdotto l’idea di guardare alla Rivoluzione come ad un ampio movimento agrario-popolare. I revisionisti, da parte loro, hanno abbandonato tale punto di vista, concentrandosi sugli studi regionali. Tra i revisionisti, o “regionalisti”, più prominenti sono inclusi Romana Falcón, Mark Wasserman, e Gilbert Joseph.
2. Si veda Mark Wasserman, “The Mexican Revolution: Region and Theory, Signifying Nothing?” Latin American Research Review, 25, 1 (1990): 231-242.
3. I pochi storici che, negli ultimi venticinque anni, hanno scritto opere di sintesi onnicomprensive – Alan Knight, John Mason Hart, e Michael J. Gonzales – hanno anche rigettato il marxismo come modello teorico guida. Si veda Alan Knight, The Mexican Revolution, 2 vol. (New York: Cambridge University Press, 1986); John Mason Hart, Revolutionary Mexico: The Coming and Process of the Mexican Revolution (Berkeley: University of California Press, 1987); Michael J. Gonzales, The Mexican Revolution, 1910-1940 (Albuquerque: University of New Mexico Press, 2002).
4. Classifico Alan Knight e David Bailey nel gruppo dei tradizionalisti poiché ritengono che quella ortodossa rimanga tutt’ora l’interpretazione più affidabile. Knight sostiene che l’immagine “tradizionale”, quella di Tannenbaum, di una rivoluzione agraria e popolare resta in larga misura valida. Si veda, Alan Knight, “Revisionism and Revolution: Mexico Compared to England and France,” Past and Present, 134 (1992): 175.
5.Tra i marxisti politicamente attivi: Rafael Ramos Pedrueza, Adolfo Gilly, e Enrique Semo. Nelgi anni Venti, Ramos Pedrueza fu deputato federale del Partito liberale costituzionale sotto l’amministrazioni di Alvaro Obregón e, in seguito, ambasciatore messicano in Ecuador. Negli anni Sessanta, Gilly partecipò ad alcuni movimenti rivoluzionari (che condussero, in parte, alla sua detenzione nel carcere di Lecumberri), e negli anni Novanta è stato consigliere di Cuauhtémoc Cárdenas, allora sindaco di Città del Messico. Inifine, Semo ha ricoperto l’incarico di Ministro della cultura durante l’amministrazione di Andrés Manuel López Obrador (2000-2005).
6.Harry Bernstein, “Marxismo en México, 1917-1925,” Historia Mexicana, 7, 4 (1958): 501.
7.David Bailey, “Revisionism and the Recent Historiography of the Mexican Revolution,” Hispanic American Historical Review, 58, 1 (1978): 68.
8.Donald Hodges and Ross Gandy, Mexico 1910-1982, Reform or Revolution? (Londra: Zed Press, 1979), 89-92.
9.Parte di questa sezione su Rafael Ramos Pedrueza è ripresa dalla mia tesi di master. Si veda Luis F. Ruiz, “History, Marxism, and Cultural Hegemony in Postrevolutionary Mexico: The Forgotten Case of Rafael Ramos Pedrueza” (M.A. Thesis, University of Oregon, 2007).
10.Rafael Ramos Pedrueza, La lucha de clases a través de la historia de México: Ensayo marxista (México, DF: Talleres Gráficos de la Nación, 1936), 37.
11.Rafael Ramos Pedrueza, La lucha de clases a través de la historia de México: Revolución democraticoburguesa (México, DF: Talleres Gráficos de la Nación, 1941), 67.
12.Il primo stadio fu la Guerra di indipendenza (1810-1821), il secondo la cosiddetta Reforma (circa 1857-1876), ossia un periodo di riforme liberali e anticlericali sotto la guida di Benito Juarez. Ramos Pedrueza sosteneva che il terzo stadio, la Rivoluzione, emerse dopo che il governo porfiriano scelse di deviare dagli ideali della Reforma. Si veda Ramos Pedrueza, La lucha de clases a través de la historia de México: Revolución democraticoburguesa, 21.
13.Ramos Pedrueza, La lucha de clases a través de la historia de México: Ensayo marxista, 19.
14. Ramos Pedrueza, La lucha de clases a través de la historia de México: Revolución democraticoburguesa, 467.
15. Ibid., 440.
16. Ibid., 441.
17. Alfonso Teja Zabre, Panorama histórico de la revolución mexicana (México DF: Ediciones Botas, 1939), 81.
18. Ibid., 82.
19. 9 Andrea Sánchez Quintanar, “El pensamiento histórico de Alfonso Teja Zabre,” Anuario de historia, 6 (1966): 82.
20. Alberto del Castillo Troncoso, “Alfonso Teja Zabre y Rafael Ramos Pedrueza: Dos interpretaciones marxistas en la década de los treinta,” Iztapalapa, 22, 51 (2001): 230.
21. Sánchez Quintanar, “El pensamiento histórico de Alfonso Teja Zabre,” 79.
22. Teja Zabre, Panorama histórico de la revolución mexicana, 5.
23. Ibid., 178.
24. Negli anni Quaranta e Cinquanta, il governo priista si impegnò maggiormente nella produzione e rappresentazione pubblica della storia. Dunque, alcuni testi, come Historia de la Revolución Mexicana (1951) di Alberto Morales svilupparono un’interpretazione ufficiale della Rivoluzione messicana dipinta come eroica, unitaria, democratica e nazionalista.
25. Eric Zolov, “Expanding Our Conceptual Horizons: The Shift from an Old to a New Left in Latin America.”
26. Bailey, 78.
27. James D. Cockroft, Intellectual Precursors of the Mexican Revolution, 1910-1913 (Austin, Texas: University of Texas Press, 1968), 33.
28. Ibid., 174.
29. Ramón Eduardo Ruiz, The Great Rebellion: Mexico 1905-1924 (New York: W. W. Norton & Co., 1980), 411.
30. Ibid., 7-8.
31. Ibid., 6.
32. James D. Cockroft, Intellectual Precursors of the Mexican Revolution, 1910-1913, 235.
33. Arnaldo Córdova, La ideología de la revolución mexicana (México DF: Ediciones Era, 1973), 15-16.
34. Arnaldo Córdova, “México, Revolución y política de masas,” in Interpretaciones de la revolución mexicana (México DF: Editorial Nueva Imagen, 1979), 76.
36. Hodges and Gandy, 125.
37. Ibid., 127.
38. Il termine política de masas può essere tradotto come “politica di massa”, o politica delle masse.
39. Córdova, La ideología de la revolución mexicana, 268.
40. Córdova, “México, Revolución y política de masas,” 69.
41. Con Casta si intendeva una persona di razza mista, e il sistema de castas costituiva una gerarchia sociale in uso durante il periodo coloniale, la quale determinava la condizione sociale in base alla razza.
42. Enrique Semo, Historia mexicana: economía y lucha de clases (México DF: Serie Popular Era, 1978), 299-315.
43. Enrique Semo, “Reflexiones sobre la revolución mexicana,” in Interpretaciones de la revolución mexicana, 147.
44. Ibid., 148.
45. Ibid., 147.
46. Adolfo Gilly, “La guerra de clases en la revolución mexicana (Revolución permanente y auto-organización de las masas),” in Interpretaciones de la revolución mexicana, 48.
47. Adolfo Gilly, La revolución interrumpida, México 1910-1920; una guerra campesina por la tierra y el poder (México DF: Ediciones “El caballito,” 1971), 394.
48. Gilly, “La guerra de clases en la revolución mexicana,” 30.
49. Alan Knight, “Interpretaciones recientes de la Revolución mexicana,” Secuencia, 13, (1989): 30.
50. Luis Anaya Merchant, “La construcción de la memoria y la revisión de la revolución,” Historia Mexicana, 44, 4 (1995): 535.
51. Semo, “Reflexiones sobre la revolución mexicana,” 146.
52. Le riforme agrarie degli anni Trenta furono parte del programma del presidente Lázaro Cárdenas mirante a portare a compimento le promesse della costituzione del 1917. L’articolo 27 era specificamente designato a pacificare i contadini insorti, garantendo un’equa redistribuzione delle terre comprese nelle vecchie haciendas. Dopo l’amministrazione Cárdenas, tuttavia, lo stato fece ben pochi sforzi per implementare queste riforme costituzionali. “Dalla presidenza Cárdenas, i capi politici messicani misero da parte, gradualmente, gli obiettivi rivoluzionari originari, così come articolati nel Plan de Ayala e nella costituzione del 1917, in favore del mantenimento del controllo politico e di uno sviluppo economico sotto tutela”, tratto da Michael J. Gonzales, The Mexican Revolution, 1910-1940, 262.
53. Córdova, La ideología de la revolución mexicana, 33.
54. Gilly, La revolución interrumpida, 399.
55. Alan Knight, “The Mexican Revolution: Bourgeois? Nationalist? Or just a ‘Great Rebellion’?” Bulletin of Latin American Research, 4, 2 (1985): 13.
56. Alan Knight, “Social Revolution: A Latin American Perspective,” Bulletin of Latin American Research, 9, 2 (1990): 183.
57. Knight, “The Mexican Revolution: Bourgeois? Nationalist? Or just a ‘Great Rebellion’?,” 26.
58. Ibid., 3.
59. Enrique Semo, Historia mexicana: economía y lucha de clases, 299.
60. Ibid.
61. Paul Vanderwood, “Building Blocks but Yet No Building: Regional History and the Mexican Revolution,” Mexican Studies/Estudios Mexicanos, 3, 2 (1987): 421-432.
62. A parte Michael J. Gonzales (2002), le ultime pionieristiche opere di sintesi sono state pubblicate alla metà degli anni Ottanta: Francois-Xavier Guerra (1985), Alan Knight (1986), e John Mason Hart (1987).
63. Adolfo Gilly, The Mexican Revolution: A People’s History, tr. Patrick Camiller (New York, The New Press, 2005).

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Fonte: traduzionimarxiste.wordpress.com

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