La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 10 aprile 2016

Bernie fa la strada giusta

di Luca Celada
Nel giorno in cui è rimbalzata la notizia del suo invito in Vaticano, Bernie Sanders è tornato a casa. Con la campagna per le primarie di New York ormai nel vivo, il «socialista del Vermont» venerdì ha tenuto due comizi a Brooklyn, il primo a Flatbush il quartiere dove nel 1941 è nato e per diciotto anni cresciuto «giocando a lippa e a football – come ha detto in apertura alla folla – proprio su questa strada». Subito dopo, nello sferzante pomeriggio newyorchese Sanders, introdotto da Susan Sarandon, ha parlato a qualche migliaio di persone a Transmitter Park, un approdo di Greenpoint sull’ East River con alle spalle l’emblematico skyline di Manhattan.
Si è aperta così la «campagna di Brooklyn» in vista della prossima battaglia in una primaria democratica combattuta oltre ogni pronostico grazie alla sfida insospettatamente vitale di Sanders.
Venerdì nella Greenpoint «gentrificata» il senatore ha ripetuto al pubblico – molto giovane e molto bianco –il suo discorso su giustizia economica, diritti civili e rete sociale: il messaggio di idealismo riformista con cui ha galvanizzato giovani, intellettuali, e ampi settori di quella che è stata la Obama coalition. Un successo che ha preso in contropiede lo schieramento di Hillary Clinton.
La “narrazione” cambia
La classifica dei delegati continua a favorire Hillary grazie alle schiaccianti vittorie iniziali negli stati, soprattutto del sud, dove ha potuto contare sul consolidato sostegno di quadri di partito e minoranze come quella afro americana. Di contro Sanders, cui difficilmente un anno fa si sarebbe potuto pronosticare una sola vittoria, ha preso ad inanellare vittorie (6 negli ultimi 7 stati) nell’ovest, nordest e midwest. Successi di misura in scrutini proporzionali, che non bastano per ora a rimontare nella conta dei delegati (per ottenere la nomination dovrebbe ora prevalere con una media del 59% nei rimanenti stati) ma che hanno cambiato la “narrazione” elettorale, smentendo definitivamente quella dell’investitura plebiscitaria di Hillary Clinton.
In questo quadro il voto del 19 aprile di New York assume uno smodato peso simbolico. Se Sanders dovesse prevalere nello stato che per otto anni Hillary ha rappresentato in senato sarebbe uno smacco forse irreparabile al “momentum” clintoniano. E una Hillary che giungesse zoppicante all’eventuale nomination dovrebbe forzatamente accogliere le istanze della corrente liberal a cui Sanders ha dato voce così efficacemente.
In un normale ciclo elettorale, ora di aprile, i giochi delle primarie presidenziali sono fatti, pilotati in gran parte dai partiti negli stati minori. A due terzi del cammino di solito le primarie di New York e della manciata di stati importanti che restano (Pennsylvania, New Jersey, California) rappresentano poco più che formalità per sancire scelte già compiute. Quest’anno invece i grandi centri di popolazione avranno modo di incidere sul risultato finale. Per la prossima settimana New York sarà dunque nell’occhio di un ciclone politico e culturale che coinvolge iconici protagonisti della città.
Susan Sarandon vs. Woody Allen
Incontrato giovedì sul set della Upper East Side dove sta girando una serie televisiva per Amazon Studios, ad esempio, Woody Allen ci ha detto categorico: «Sono un sostenitore totale di Hillary. Non importa chi sarà il candidato repubblicano, Trump, Cruz, Rubio o Bush. È l’anno di Hillary e lei sarà un ottimo presidente». Ma se Woody non accenna nemmeno al concorrente delle primarie, sono molti, come la Sarandon, gli illustri concittadini che si adoperano invece per una vittoria di Sanders – e molti, forse non caso, come lui, nativi di Brooklyn – vedi Rosario Dawson e soprattutto Spike Lee. Venerdì il regista ha postato sul sito di Hollywood Reporter un incontro di venti minuti col senatore tutto centrato sulle comuni radici nell’iconico borough così simbolico del melting pot popolare.
In uno stato con 5,8 milioni di elettori iscritti alle liste democratiche, 945,600 – un sesto del totale – sono residenti di Brooklyn. Il che spiega perché sia Sanders che Hillary abbiano aperto qui i propri principali uffici elettorali. E malgrado le proprie radici nel quartiere che Sanders fa di tutto per sottolineare, è forse proprio la Clinton ad avere alleanze politiche più solide in comunità come quella caraibica e l’ebrea ortodossa. Paradossalmente in questa ultima ricorre il sospetto verso l’agnosticismo di Sanders, figlio di immigrati ebrei polacchi, mentre desta fiducia la ferrea posizione filo israeliana di Hillary Clinton, che sulla questione mediorientale si colloca ben a destra di Barack Obama.
Un partito, due anime
Giovedì prossimo sempre a Brooklyn si svolgerà un ennesimo dibattito televisivo fra i due candidati che su questa piazza simbolica, quasi a sorpresa hanno proiettato i democratici in un vero dibattito sulle due anime del partito. Nei suoi comizi newyorchesi Sanders ha riepilogato un’agenda apertamente progressista che rimanda alla sinistra storica di Eugene McCarthy, Robert Kennedy, George McGovern e prima di loro a Franklin Roosevelt. Ha denunciato l’involuzione reazionaria seguita alla Great Society di Lyndon Johnson e culminata nel reaganismo per riconsolidare il potere dell oligarchie. E ai molti giovanissimi che lo ascoltavano ha tenuto a delineare «la storia del cambiamento sociale in America» ricordando il ruolo dei movimenti di protesta popolari, del sindacalismo negli anni 30, dei diritti civili e delle donne negli anni 60 fino ad Occupy e Black Lives Matter. Riferimenti politici e morali cui si aggiunge ora esplicitamente la convergenza con Francesco contro «l’idolatria del capitale».
È un discorso dinnanzi al quale Hillary si definisce sempre più nettamente come candidata di sistema dato che come Sanders ha ripetuto al New York Daily News: «Non si ottengono a caso 15 milioni di dollari di finanziamenti da Wall street. Non se si è fautori di reale cambiamento». Al di là dell’esito finale aggiunge Sanders, che invece è interamente finanziato da piccoli contributi individuali (sei milioni ad oggi), «la rivoluzione politica di cui parliamo è già una realtà per come la nostra campagna ha rivitalizzato il processo democratico di questo paese».

Fonte: il manifesto 

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