di Pietro Negri
Nelle premesse alla COP21 sui cambiamenti climatici era stato chiaramente indicato l’obiettivo di limitare a 2 gradi centigradi l’aumento della temperatura media globale. Alcuni Paesi maggiormente esposti agli effetti del cambiamento climatico hanno proposto di abbassare la soglia di tolleranza ad 1,5 gradi scatenando l’opposizione delle economie dei Paesi più avanzati. Al di là delle responsabilità riconducibili ai Paesi più industrializzati che hanno portato alla attuale situazione, anche i Paesi emergenti (Cina e India, in particolare) nella loro corsa verso la modernità, hanno contribuito enormemente negli ultimi 10 anni ad accelerare l’innalzamento della temperatura del globo. Dopo una lunga trattativa, ha visto la luce un accordo condiviso che apre nuovi scenari per le politiche ambientali. Il testo di mediazione impegna i partecipanti a contenere l’incremento della temperatura media al di sotto dei 2 gradi, con un ulteriore impegno a fare quanto possibile per limitare l’incremento a 1,5 gradi. Una prima verifica è programmata per il 2023.
Una delle maggiori novità di Parigi è stata la presenza di moltissime entità non statali, regioni, comuni, città, singole comunità, ecc. che si sono impegnate direttamente a ridurre le loro emissioni di Co2. Proprio al fine di allargare il più possibile la platea di soggetti interessati ad assumere impegni, nei giorni successivi alla conferenza è stato pubblicato l’”Appello di Parigi”. La cosa più sorprendente però, almeno per quanto riguarda la comunità finanziaria mondiale, è avvenuta qualche mese prima della Conferenza. A settembre 2015, infatti, il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney aveva parlato di “tragedia all’orizzonte” sostenendo che i mutamenti climatici porteranno a una crisi finanziaria e alla caduta dello standard di vita occidentale se i Paesi più avanzati non faranno di più sulle emissioni di carbonio e sull’inquinamento industriale.
Nel suo intervento Carney ha sottolineato due aspetti cruciali nella lotta al cambiamento climatico: da un lato la necessità di attivarsi immediatamente per porre in essere idonee e durature politiche di decarbonizzazione dell’economia e, dall’altro, la consapevolezza che la comunità scientifica internazionale non è in grado di valutare né la possibile accelerazione che l’innalzamento climatico potrebbe avere nei prossimi anni né le conseguenze che si potrebbero avere se la soglia dei 2 gradi non venisse rispettata. Certamente, secondo il governatore, il mondo come lo abbiamo conosciuto sino ad ora subirà forti modifiche e le migrazioni, la stabilità politica, la sicurezza alimentare ed idrica verranno sollecitate in modo drammatico.
Fin qui le parole di Carney avrebbero potuto far colpo sulla comunità degli ambientalisti piuttosto che su quella fredda e cinica degli investitori finanziari, abituati per troppo tempo a politiche di investimento basate su una visione short-term” cioè sul “mordi e fuggi” subito dopo aver ottenuto un risultato economico favorevole. Il governatore, però ha saputo cogliere le corde sensibili della finanza: “L’orizzonte della politica monetaria è di due, tre anni. Per la stabilità finanziaria è un po’ più lungo, ma tipicamente non va oltre l’orizzonte del ciclo creditizio, cioè circa una decade. Una volta che i mutamenti climatici diverranno un “problema” per la stabilità finanziaria, potrebbe essere troppo tardi“. Già oggi si registrano perdite quintuplicate derivanti dai danni provocati dall’uomo e collegati al cambiamento climatico. In particolare dal 1980 le perdite del settore assicurativo sono quintuplicate, a 50 miliardi di dollari l’anno. Proprio in Inghilterra nel 2012 le alluvioni hanno piegato il sud dell’Isola, comportando perdite ingentissime ai riassicuratori internazionali che hanno subito lanciato il grido d’allarme. Non è un caso che proprio da quest’anno operi Flood RE, un pool di coriassicurazione che, tramite sovvenzione pubblica e privata, copre i danni derivanti da alluvione alle abitazioni civili, dietro pagamento di un premio calmierato.
Il 21 gennaio u.s. il Financial Stability Board (FSB), ha annunciato la creazione di un gruppo di lavoro internazionale al quale è stato attribuito il compito di favorire la trasparenza sulle informazioni derivanti dall’impatto ambientale dell’attività delle istituzioni finanziarie. L’obiettivo è quello di elaborare una serie di raccomandazioni sulla rendicontazione di informazioni relative al cambiamento climatico che siano consistenti, comparabili, credibili, chiare e autorevoli in modo da rendere i mercati finanziari più efficienti nell’ambito di economie più stabili e resilienti (www.fsb-tcfd.org).
Ma perché si è sentita questa “improvvisa” urgenza di attivarsi su questo fronte? La risposta è facilmente verificabile: la compagnia di assicurazione tedesca Allianz ha annunciato una prossima azione legale contro i cugini della Volkswagen legata agli ingenti costi che la compagnia sta subendo derivanti del recente scandalo sulle emissioni taroccate dei veicoli. Un’impresa di assicurazione, infatti, può essere danneggiata due volte in caso di rischio ambientale: la prima nella sua qualità “propria” di assicuratore per la responsabilità civile verso i terzi danneggiati da un assicurato che abbia provocato un danno ambientale; la seconda in qualità di investitore istituzionale che, per far fronte agli impegni assunti verso i propri assicurati, sia divenuto a sua volta azionista di una società che poi abbia prodotto un danno all’ambiente. Tipicamente le polizze vita, ma talvolta anche quelle danni, hanno una probabilità di accadimento dell’evento spesso molto tempo dopo la loro stipulazione e tutto ciò impone all’assicuratore di avere riserve finanziarie adeguate al momento dell’evento. Insomma le conseguenze di un danno socio-ambientale possono essere molto rilevanti per le istituzioni finanziarie.
In Australia, Canada e Brasile si sono avute sentenze di condanna verso alcune banche che finanziato soggetti, rivelatisi poi inquinatori, senza aver effettuato prima un’adeguata verifica prudenziale e violando così il “fiduciary duty” verso coloro che gli avevano affidato i propri risparmi. Ormai sempre più spesso, collegata ad una scelta di investimento, non c’è solo la ricerca di un interesse finanziario ma anche la volontà espressa o latente di investire in attività meritevoli dal punto di vista ambientale o sociale o almeno di non investire in talune attività ritenute riprovevoli: il Fondo pensione Cometa (quello dei metalmeccanici per intenderci) già oggi fornisce ai gestori del proprio patrimonio indicazioni ben precise in tal senso (Il Sole24 del 23.3.2016, pag. 29).
Il concetto che affiora è quello della “responsabilità” (dal latino re-spondere, promettere, impegnare la fede, rendere in cambio). A chi deve rispondere un’istituzione finanziaria? E che cosa deve rendere in cambio? Per lo più esse ritengono di dover rispondere ad un imperativo assoluto, che è quello della creazione di valore a favore dei propri azionisti. Ma l’attività finanziaria non produce solo risultati economici, l’uso del denaro dovrebbe in qualche modo produrre anche un plusvalore sociale. Però bisogna volerlo e bisogna misurarlo: così come per un’operazione finanziaria si valutano il rischio e il rendimento (ex ante e ex post), altrettanto occorrerebbe fare per le variabili ambientali e sociali.Nella valutazione del merito creditizio di un’impresa, oltre alla capacità di restituire le somme nei tempi stabiliti, un’istituzione finanziaria dovrebbe vagliare anche se l’attività del prenditore produce o meno dei benefici ambientali e sociali. Nella recente legge delega n.11/2016 – di recepimento delle direttive UE sugli appalti pubblici – si introduce il principio per cui la stazione appaltante dovrà individuare l’aggiudicataria anche in base all’impatto ambientale e sociale prodotto nell’esecuzione dell’opera.
La sfida è quella di considerare all’interno dei modelli di valutazione del rischio sinora utilizzati le variabili ESG (Environmental, social, governance). Tutto ciò permetterebbe anche di non incorrere nel “rischio reputazionale”, qualificato come “rischio operativo” sia in ambito bancario che in quello assicurativo, uno dei più rilevanti e meno conosciuti, il cui verificarsi può compromettere stabilmente e l’assetto di un’istituzione finanziaria. Un esempio di scuola è quello di British Petroleum, responsabile del disastro ambientale nel Golfo del Messico. Le cause sono state ufficialmente attribuite alla cattiva esecuzione del test di sicurezza della piattaforma, all’inadeguata formazione dello staff e alla scarsa manutenzione dei macchinari. Negli esercizi precedenti l’anno del disastro, però, la spesa di manutenzione in proporzione al fatturato era significativamente inferiore alle altre major petrolifere, come risultava da una facile lettura dei bilanci. Quel dato, pubblico e ben visibile, è stato generalmente sottovalutato dagli analisti finanziari “tradizionali”. Anzi, è probabile che molti lo abbiano apprezzato, in quanto indicatore di risparmio sui costi di gestione (e quindi di “creazione di valore” per gli azionisti). Viceversa, molti tra gli analisti ESG avevano segnalato questo elemento come un fattore di rischio e hanno rapidamente provveduto a ridimensionare la loro esposizione finanziaria sul titolo.
Per far crescere l’attenzione su questi temi servono consumatori consapevoli, informati e esigenti che sappiano valutare i consumi (e i loro investimenti) anche sotto questo profilo. Entro la fine del 2016 verrà recepita nel nostro Paese la direttiva UE n.95/2014 che impone, a partire dal 2018, a tutte le imprese operanti in qualsiasi settore che abbiano più di 500 dipendenti, di accompagnare al bilancio contabile un rendiconto sull’impatto ambientale e sociale delle proprie attività. Si tratta di uno snodo importante che costringerà molte imprese italiane (quelle assicurative coinvolte sono 17) a fornire un’informativa sulle proprie attività da un diverso punto di vista rendendosi più “trasparenti” agli stakeholder siano essi analisti finanziari, investitori, azionisti o semplici consumatori. Secondo una recente rilevazione la percentuale presente nell’indice Standard & Poor’s 500 che si impegna a rendicontare sugli aspetti di sostenibilità è aumentata dal 20 all’80%.
Anche in Italia qualcosa si sta muovendo. Il 2 dicembre 2015 la Commissione europea ha pubblicato un “Piano d’azione dell’Unione europea per l’economia circolare” nel quale si ribadisce che “….il valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse dovrà essere mantenuto quanto più a lungo possibile e … L’economia circolare darà impulso alla competitività ..mettendo al riparo le imprese dalla scarsità delle risorse e dalla volatilità dei prezzi, contribuendo a creare sia nuove opportunità commerciali sia modi di produzione e consumo innovativi e più efficienti…”. Sulla scia di tale iniziativa è stata pubblicata la legge n.221/2015 che tali principi e presenta numerose disposizioni volte a “..promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”.
Il Forum per la finanza sostenibile, insieme ad ABI e ANIA, sta elaborando apposite Linee guida sul ruolo delle istituzioni finanziarie nel contenimento delle conseguenze derivanti dal cambiamento climatico, che verranno presentate nell’ambito della settimana SRI. Parallelamente, il Ministero dell’Ambiente ha lanciato un’iniziativa pubblica per elaborare una serie di impegni e proposte concrete da sottoporre al Governo per dar seguito a quanto deciso a Parigi. Cominciano poi a essere progettate e diffuse anche nel nostro Paese iniziative di “finanza d’impatto”, operazioni finanziarie nelle quali un investitore privato finanzia un’attività svolta da operatori sociali o che abbia di per sé una finalità ambientale e sociale e sulla base del risultato raggiunto, adeguatamente misurato, gli viene riconosciuto un rendimento finanziario parametrato al “risparmio” ottenuto dalle istituzioni pubbliche e ai vantaggi ottenuti dalla collettività (ad esempio http://www.secondowelfare.it/privati/finanza-sociale/a-napoli-il-primo-social-impact-bond-tutto-italiano.html).
Qualcuno, forse a buon diritto, storcerà la bocca verso iniziative di questo tipo che vedono arretrare il ruolo dello Stato nell’ambito dei servizi e certamente è necessario fare passi cauti al fine di evitare pericolose fughe in avanti. Ma il dato rilevante è il crescente e inarrestabile interesse della comunità finanziaria verso una rapida transizione alle energie rinnovabili che potrebbe veramente portare il nostro Paese all’avanguardia del settore.
In fondo le istituzioni finanziarie, gli assicuratori in primis, dovrebbero essere tra i maggiori sponsor del prossimo referendum del 17 aprile sulle trivelle entro le 12 miglia dalla costa. Prima ci si renderà conto che si tratta di attività estremamente rischiose e inquinanti, foriere di possibili enormi risarcimenti e sulle quali i margini di guadagno restano molto aleatori, meglio sarà per tutti, a partire dai grandi riassicuratori internazionali. E poi, solo attraverso l’abbandono delle energie fossili sarà possibile depontenziare il terrorismo internazionale che trae dalla vendita del petrolio il proprio potere e la propria finora inarrestabile violenza.
Questo articolo è uscito anche su Zero Volenza con il titolo: “COP 21 – Cambiamento climatico, finanza e futuro: che sia la volta buona?”
Fonte: comune-info.net
Originale: http://comune-info.net/2016/04/355763/
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