La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 11 aprile 2016

Condizionalità senza solidarietà. La trappola dei fondi europei

di Federico Stoppa
Tra gli argomenti più usati (e abusati) dalla grande stampa italiana nella sua crociata quotidiana contro la Casta politica, c’è sicuramente quello della mancata spesa dei fondi comunitari, specie nel Meridione. Un generoso dono di Bruxelles agli italiani, che però quest’ultimi, per corruzione e incapacità congenite, non sarebbero in grado di impiegare per promuovere quella “crescita” del PIL continuamente invocata. Peccato che lo storytelling mediatico non regga al rigoroso fact checking che Romina Raponi svolge nel libro “Finanziamenti Comunitari. Condizionalità senza frontiere. La finta solidarietà dell’unione europea” (Imprimatur, 2016).
Non solo l’utilizzo dei fondi europei da parte dell’Italia è in linea con gli altri Paesi della Ue; ma nel 2014 l’Italia risultava anche un contribuente netto della Ue per ben 7 miliardi di euro, nonostante fosse al 12° posto nella Ue per Pil pro capite e presentasse fondamentali economici a dir poco disastrosi: Pil pro capite tornato ai livelli del 2000, un milione di occupati in meno rispetto al 2008, caduta degli investimenti fissi del 30% e perdita di capacità produttiva del 25% dall’inizio della crisi, esplosione della povertà e del debito pubblico, e ora deflazione.
Fatta questa necessaria premessa, l’autrice indaga nel dettaglio le modalità di funzionamento dei fondi comunitari. Come sappiamo, essi rappresentano una quota consistente del bilancio dell’Unione – più di un terzo del totale – e sono suddivisi in fondi diretti e indiretti (fondi strutturali e di coesione). I primi vengono amministrati dalla Commissione Europea e assegnati mediante sovvenzioni e gare d’appalto, mentre i secondi sono ripartiti tra i 28 Stati membri dell’Unione e gestiti dalle amministrazioni centrali, regionali e locali. Gli obiettivi fondamentali dei fondi strutturali sono quelli di favorire la convergenza delle regioni in termini di reddito pro capite e promuovere l’occupazione, gli investimenti in ricerca e infrastrutture e la competitività delle piccole e medie imprese europee. Un primo appunto mosso dall’autrice riguarda l’insufficienza delle risorse programmate, che si traduce nel mancato catching up, evidenziato dai dati, delle regioni povere rispetto a quelle ricche. Il secondo punto debole del meccanismo – causa precipua della mancata spesa dei fondi stessi – è quello del cofinanziamento obbligatorio dei progetti europei da parte degli enti pubblici nazionali.Infatti, quando un ente locale aggiunge al finanziamento europeo risorse proprie, a parità di entrate fa aumentareautomaticamente deficit e debito, cosa che gli viene preclusa però dal patto di stabilità interno. In alternativa, può aumentare la tassazione, decurtando però il già magro reddito disponibile delle famiglie, oppure, ancora peggio, tagliare altri capitoli di spesa, il che significa erogare meno servizi e meno welfare (colpendo, in particolare, la sanità pubblica). Da sottolineare che le regioni, pur di non perdere i fondi, li impiegano per progetti non prioritari per il territorio, perché ciò che conta non è la loro qualità ma la loro realizzabilità in tempi brevi.
Il merito dell’autrice è quello di ricordarci che qualsiasi considerazione sull’utilizzo dei fondi comunitari non può prescindere da un’analisi critica della cornice giuridica in cui sono collocati: i Trattati di Maastricht (1993) e di Lisbona (2009). Dietro il linguaggio asettico delle norme, si cela un preciso disegno politico-ideologico: costruire uno spazio economico, finanziario e valutario sovranazionale in cui venga messa la sordina alle politiche keynesiane con vincoli al deficit e al debito pubblico, divieto di aiuti di Stato e del finanziamento diretto del Tesoro da parte della Banca Centrale, a tutto vantaggio del grande capitale che può muoversi liberamente a caccia di minori oneri fiscali, burocratici, sindacali. La lotta alla disoccupazione è subordinata al controllo dell’inflazione e viene negato qualsiasi meccanismo di assorbimento degli shock che si verificano a seguito delle crisi (come crollo della produzione e disoccupazione), e che colpiscono più alcuni Paesi che altri. In altre parole, è assente un bilancio federale degno di questo nome, che trasferisca risorse dai Paesi ricchi a quelli in difficoltà.
La tesi della Raponi è che i fondi comunitari siano, a conti fatti, un dispositivo di controllo e direzione delle politiche di spesa degli Stati membri da parte delle istituzioni comunitarie. Si veda, per ulteriore conferma, l’elenco delleraccomandazioni fatte dalla Commissione e dal Consiglio europeo al nostro Governo nel biennio 2013-14, nell’ambito della presentazione dell’accordo di partenariato che definisce le priorità di spesa dei fondi nel periodo 2014-2020[1]. Si prescrivono – pena la sospensione e/o la revoca dei finanziamenti – riforme strutturali che riguardano mercato del lavoro e dei prodotti, contrattazione aziendale, giustizia, pubblica amministrazione e istruzione, il controllo severo del deficit e del debito attraverso il taglio della spesa pensionistica e l’inasprimento della pressione fiscale sugli immobili e i consumi, oltre che la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Lungi dal cementare la coesione economica e sociale tra territori, la logica dei finanziamenti comunitari risponde in ultima analisi a quella ideologia dell’austerity che sta condannando l’Europa a un futuro di stagnazione e disoccupazione.

Fonte: il conformista online 

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