di Massimo Di Gioacchino
Nel 1980 lo storico statunitense Howard Zinn pubblicava la sua opera più celebre A People's History of the United States 1492 – Present in cui ripercorreva la storia americana partendo dal punto di vista degli esclusi (neri, schiavi, immigrati, comunisti) e metteva in discussione la memoria collettiva maggioritaria statunitense. Mentre per alcuni europei poteva e potrebbe sembrare ancora oggi un’operazione antiamericana, Zinn intendeva semplicemente allargare lo sguardo a quelli che avevano sempre vivificato la storia sociale degli Stati Uniti seppur da un punto di vista marginale, quelli che da sempre erano stati / avevano fatto l’America.
Chissà come lui avrebbe commentato la campagna elettorale di questi mesi. In una delle sue più interessanti annotazioni, Zinn rimarcava come la Guerra Fredda avesse plasmato la cultura politica di generazioni di americani, educati a dividere il mondo in due categorie contrapposte (americano-sovietico) in cui tutto quello che odorava di collettivo diveniva interdetto.
Finivano nel calderone dei cattivi principi, secondo Zinn, valori che erano stati da sempre al centro di una certa vita americana (la comunità religiosa/civile, la solidarietà sociale nel territorio, l’isolazionismo pacifista), rimpiazzati dall’estremizzazione di altri (l’individualismo, il carrierismo aziendale, l’interventismo globale).
Finivano nel calderone dei cattivi principi, secondo Zinn, valori che erano stati da sempre al centro di una certa vita americana (la comunità religiosa/civile, la solidarietà sociale nel territorio, l’isolazionismo pacifista), rimpiazzati dall’estremizzazione di altri (l’individualismo, il carrierismo aziendale, l’interventismo globale).
A leggere l’espressioni di voto delle primarie USA ad oggi, qualcosa sembra cambiato dalla riflessione di Zinn: il termine socialista non è più un taboo mentre la filosofia del libero mercato è messa in discussione; perde quota il linguaggio del successo individuale (essere l’1%) mentre si afferma con Sanders lo schema concettuale del “We, the 99%”. Il pesante lascito della Guerra Fredda sembra esaurito oggi nelle espressioni di voto degli americani, soprattutto dei giovani nati negli anni Novanta, che guardano alla politica senza la grande sistemazione di valori che fu di tempo fa. Nessun paragone è lecito con la Russia putiniana di oggi dal momento che nessuna ideologia politica contrapposta anima le due super-potenze in un mondo che di super-potenze ne conta più di due.
L’America che vota Trump oggi vuole i dazi, quella di Clinton contesta il TTIP, Sanders chiede salario minimo ovunque e democrazia sindacale nelle imprese. Gli Stati Uniti vogliono proteggere se stessi: torna quindi il protezionismo ma anche l’isolazionismo. Lo stesso Trump chiede un’America meno impegnata in politica estera (perché non ne vuole pagare i costi) mentre Sanders urla: No more War! Sono finiti dunque anche i tempi di Seattle, della fede in una globalizzazione che apriva mercati e opportunità nuove per gli americani e il mondo intero. Cosa spetta dunque all’America di domani? Aspettiamo intanto il voto del 16 aprile di New York, poi ne riparliamo.
Fonte: MicroMega online - blog dell'Autore
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