di George Lakey
Quando gli islandesi hanno saputo che il loro leader aveva imboscato soldi in un conto all’estero nelle Isole Vergini, 10.000 di loro hanno affollato Piazza del Parlamento a Reykjavík il 4 aprile per chiederne le dimissioni. Ciò in parte perché il primo ministro Sigmundur Davio Gunnlaugsson aveva sollecitato per anni il suo popolo a mostrare la propria fiducia nel paese mantenendo i soldi in patria. La marea nelle strade ha rappresentato anche la visione degli islandesi della necessità di usare l’azione diretta nonviolenta per rendere massimo il loro potere.
Se gli statunitensi protestassero nella stessa proporzione degli islandesi ne avremmo dieci milioni contemporaneamente nelle strade. Che cosa diverrebbe possibile a quel punto?
Alcuni anni fa ho preso un caffè in Piazza del Parlamento con Hordur Torfason – il leader della rivolta islandese del 2008-09 – intervistandolo per il mio imminente libro “Viking Economics”. Aveva suggerito che ci incontrassimo nel suo caffè preferito, che si affaccia sul posto in cui aveva avuto luogo l’azione. La campagna non violenta da lui guidata cacciò non solo il primo ministro ma anche l’intero governo e mise i banchieri in galera.
A quel tempo la campagna era chiamata “la rivoluzione delle pentole e delle padelle” perché la gente si era data da fare picchiando su utensili da cucina così rumorosamente che i parlamentari non potevano sentirsi a vicenda all’interno dell’edificio. Quell’azione non fu una protesta una tantum; fu parte di una campagna sostenuta. Hordur mi diede un resoconto dettagliato che io riferisco nel libro.
La questione nel 2008 era molto più vasta che non la corruzione individuale. Quella dell’Islanda era la prima economia moderna in cui virtualmente l’intero settore bancario era finito gambe all’aria e, a rendere le cose peggiori, la moneta era crollata. La disoccupazione e l’inflazione erano balzate alle stelle. Molti islandesi, incoraggiati dalla bolla economica presieduta dal governo e dalle banche avevano speso i loro risparmi e non avevano nulla per vivere. Poiché il governo aveva ridotto le tasse, un altro errore commesso frequentemente dai neoliberisti, l’Islanda non disponeva di alcun “fondo vacche magre” per le emergenze. Alcuni nei media di massa occidentali descrissero l’Islanda come uno stato fallito.
Nel mio libro condivido l’eccitante narrazione di Horder su come gli islandesi cacciarono il loro governo e mandarono in galera i banchieri, ma il loro potere popolare è stato altrettanto considerevole nei negoziati a seguire con il Fondo Monetario Internazionale. Gli islandesi non potevano neppure ritirare il loro denaro dai Bancomat, per non parlare di rimborsare i loro mutui. Sì, il minuscolo paese (popolazione 320.000 abitanti) doveva semplicemente essere salvato ma il nuovo governo degli islandesi era una coalizione di socialdemocratici e socialisti verdi che si rifiutavano di accettare la solita ricetta neoliberista d’austerità del FMI.
I negoziati sono stati intensi, ma poiché la nuova coalizione era sostenuta dall’intensa campagna non violenta degli islandesi comuni, il governo ha potuto negoziare con il FMI un accordo senza precedenti in nessun’altra parte del mondo.
L’Islanda ha successivamente attuato una strategia economica di sinistra e il paese ha compiuto una spettacolare ripresa. L’economista premio Nobel Paul Krugman ha confrontato l’approccio dell’Islanda con quello degli Stati Uniti, del Regno Unito e della maggior parte dei paesi europei dopo il 2008, scrivendo: “Mentre tutti gli altri hanno salvato i loro banchieri facendo pagare il conto al pubblico, l’Islanda ha lasciato fallire le banche e ha concretamente ampliato la sua rete di sicurezza sociale”.
Nel momento attuale non sappiamo se gli islandesi affronteranno la corruzione scatenando una campagna di azione diretta o si accontenteranno di un evento singolo che ha cacciato il primo ministro. Mi è stato detto da Thorvaldur Gylfason, un eminente economista islandese, che il suo paese è stato storicamente più piagato dalla corruzione che non i suoi scricchiolanti cugini vichinghi.
Nella crisi islandese attuale, tuttavia, sappiamo già quanto basta per vedere l’impatto del 3 per cento della popolazione disposta a “infiammare le strade”. Se negli Stati Uniti 10 milioni di persone – il 3 per cento della nostra popolazione – prendessero una simile iniziativa vedremmo a cosa effettivamente assomiglia il tipo di “rivoluzione politica” di cui parla Bernie Sanders.
Gli statunitensi tendono a interpretare come controproducente l’aspettativa di giustizia attraverso le urne elettorali. Se gli islandesi avessero riposto le loro speranze sulle “prossime elezioni” anche loro aspetterebbero invano. La loro visione del potere non è insolita tra i nordici.
Quando faccio ricerche sull’eredità del potere popolare nordico capisco quanto noi statunitensi ci sbagliamo sulle cause dei loro risultati quanto a prosperità condivisa e a maggiore uguaglianza. Le ipotesi tipiche sono l’omogeneità, o la piccola dimensione o l’aver goduto storicamente di benessere, di disporre di risorse insolitamente abbondanti. La storia mostra un gran numero di paesi piccoli o omogenei o ricchi di risorse e che vivono povertà di massa, ingiustizia e tirannia.
Di fatto solo un secolo fa la maggioranza degli islandesi, norvegesi e svedesi era povera. Per decenni norvegesi e svedesi disperati hanno lasciato i loro paesi per gli Stati Uniti e per altri luoghi in cerca di una possibilità di guadagnarsi da vivere. Quelli che sono rimasti in patria hanno deciso di tirarsi su le maniche, integrare i loro sistemi elettorali inadeguati con campagne non violente ed estromettere dal dominio l’un per cento. A quel punto sono diventati liberi di abolire la povertà, accrescere le libertà individuali e costruire un’economia prospera per tutti.
La Danimarca contrattacca il neoliberismo
Un risultato per il popolo danese della sua eredità di azione diretta degli anni ’20 si è mostrato negli anni ’80 e ’90. Gli islandesi, come i britannici e gli statunitensi del periodo, subirono un attacco da parte dell’un per cento non entusiasta del periodo progressista degli anni ’60 e ’70. Tanto per cominciare, negli anni ’70 i movimenti nonviolenti danesi e statunitensi avevano dato scacco matto all’energia nucleare. Chiaramente in molti paesi era ora di riprendere quella che il miliardario Warren Buffett ha chiamato la “guerra di classe”.
Ispirati dal Thatcherismo i conservatori danesi tentarono a metà degli anni ’80 di operare un giro di vite sulla classe lavoratrice ed è qui che intervenne l’azione diretta. La dirigenza danese, avendo osservato i movimenti sindacali sia statunitensi sia britannici sulla difensiva nei primi anni ’80, decisero di passare all’offensiva. Organizzarono un vasto e protratto sciopero nel 1986-87 che impedì in larga misura ai conservatori di attuare un programma neoliberista.
I loro cugini norvegesi e svedesi avrebbero potuto trarre profitto all’epoca dall’esempio della risolutezza danese. A distanza di traghetto, l’un per cento in Norvegia e in Svezia convinse i governi a liberalizzare le banche, lasciando i banchieri liberi di darsi alla pazza gioia e di condurre entrambi i paesi economicamente sull’orlo del baratro. Fortunatamente la sinistra riaffermò il proprio buonsenso, sequestrò le banche principali, licenziò l’alta direzione, impedì agli azionisti di incassare una singola corona, e riorganizzò il settore finanziario in linea con principi socialdemocratici. Un decennio dopo, quando il 2008 vide giganti finanziari come il Regno Unito e gli Stati Uniti traballare in un nuovo disastro causato dai banchieri, le banche danesi, norvegesi e svedesi erano pulite e in ordine.
Non una sorpresa per il dottor King
Martin Luther King Jr. ci disse benissimo: “La libertà non è gratis”. Sapeva che per ottenere giustizia sono necessarie battaglie costose e non sarebbe sorpreso da ciò che ho scoperto nella mia ricerca su ruolo essenziale dell’azione diretta nei paesi che hanno ottenuto il grado più elevato di giustizia, uguaglianza e libertà individuale del pianeta.
Quando i nordici erano poveri e oppressi avevano in effetti libere elezioni e istituzioni parlamentari intatte, e anche il governo da parte dell’un per cento. Ho appreso dal famoso studio di Princeton, ancor prima della sentenza Citizen United e dell’attuale inondazione di denaro nella politica, che la nostra situazione è stata simile a quella dei nordici un secolo fa: democrazia finta e oligarchia reale. Anche in periodi in cui i Democratici controllavano entrambe le Camere del Congresso e la Casa Bianca la realtà oligarchica è rimasta in carica.
La storia dei discendenti dei vichinghi suggerisce una via di progresso. Fortunatamente possiamo svegliarci, sentire il profumo del caffè, e agire.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.