La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 10 aprile 2016

Palazzeschi: Italia fascista, trucida clownerie

di Massimo Raffaeli
Lo stereotipo che contrassegna Aldo Palazzeschi non potrebbe essere più univoco: egli è il poeta gentile e sventato che ha scritto E lasciatemi divertire e il manifesto del Controdolore; è l’autore di Rio Bo, La fontana malata e I fiori, testi non meno sottilmente corrosivi che mutano in parodia e talora in velata pornografia risapute filastrocche, tanto che davvero sembrano pensati con decenni di anticipo per la dizione scenica di Paolo Poli, il suo mirabile esecutore; Palazzeschi è infine l’outsider della Avanguardia, mezzo crepuscolare e mezzo futurista ma sempre intatto, sgusciante e imprendibile, l’esempio più compiuto e longevo (morì a Roma quasi novantenne, nel ’74, e ancora produttivo) di tutto quanto Jean Starobinski avrebbe battezzato nel suo classico Ritratto dell’artista da saltimbanco.
Erede di borghesi ricchi, scrittore per vocazione e per diletto, indenne da vincoli di appartenenza letteraria e da osservanze ideologiche, omosessuale con non chalance in tempi di segregazione, Palazzeschi fu non solo un uomo libero ma probabilmente anche un uomo felice per gran parte della vita, cambiassero pure i fondali su cui proiettava la sua mite e sempre un poco ilare fisionomia, dalla Firenze ghiaccia e infeltrita, da stampe di fine Ottocento, alla Venezia in catastrofico e abbagliante tramonto dei suoi anni estremi. Roma, dove visse in prevalenza dal 1941 in un ultimo piano di via dei Redentoristi, fu invece il suo tempo meno felice, il più introverso e recluso, il più opaco anche nella produzione letteraria, interposto tra la fiammata giovanile e una vecchiaia di estri e di intemperanze redivive, laddove non potevano bastargli, in quell’intermezzo, neanche le frequenti sortite a Parigi per trovarsi con gli amici di sempre, Marino Moretti e Filippo de Pisis.
Roma, adorata, non poteva essere da lui amata fino in fondo perché Roma era la città del fascismo e il set elettivo del Duce. Non tutti i lettori rammentano che, per quanto isolato e inattivo, Palazzeschi fu comunque un antifascista implacabile e un nemico personale di Benito Mussolini, da lui valutato come una creazione improvvida del popolo italiano e il fatale beccamorto del suo popolo medesimo. Anticipata in Due imperi… mancati (una memoria scritta in grigioverde ed edita nel ’20, il diario di un furiere che presagisce la catastrofe di una rinnovata Guerra dei Trent’anni) la vena di Palazzeschi libellista oggi riaffiora con Tre imperi… mancati Cronache 1922-1945 (Mondadori, «Oscar», pp. 229, euro 15.00), un pamphlet che mancava dalla fine del ’45 e torna nella attenta e documentata curatela di Gino Tellini.
La sua tesi è molto netta e rinvia, appunto, alla equipollenza fra l’italiano medio e il Duce che ne rappresenta sia lo specchio ustorio (carenza di civismo, teatralità, assenza di etica come di sostanziale serietà, tendenza alla menzogna) sia la più grottesca e rovinosa allucinazione (ebefrenia, megalomania, vocazione inconsciamente suicidaria). Scandito in una cinquantina di brevi paragrafi, redatto con la mano leggera che in effetti è il tocco à la Palazzeschi, Tre imperi… mancati riassume il lessico e la cronologia del ventennio. Così, per esempio, Palazzeschi si esprime riguardo al 25 luglio e alla caduta del regime: «Per quanto l’avanzata putrefazione del Duce e del suo governo appestassero l’aria da molto tempo, pochi erano quelli che mostravano di sentirne il fetore. (…) il naso fu il solo organo che il Duce volle lasciare in uso al suddito italiano, cosa che allora ci stupì moltissimo e che si viene a chiarire ora soltanto: il naso glie lo lasciò perché potesse sentire il puzzo finché voleva, tanto, non avendo più la bocca e non potendo denunciarlo, doveva goderselo tutto».
Scritto alla svelta e senza rivederne il ductus, con l’ansia di pubblicarlo a caldo, il tono del libello è ironico e allude a un trucido Palio dei Buffi. Non è un caso che tra i primi recensori compaia il Carlo Emilio Gadda che ha appena stilato in segreto I miti del Somaro e si accinge a Il primo libro delle Furie, che solo nel ’67 uscirà con il titolo di Eros e Priapo. Ma le loro non potrebbero essere pagine più diametrali. Gadda era un ufficiale della Grande Guerra declassato e frustrato, poi un fascista della prima ora, un uomo d’ordine e un omosessuale inibito, dunque l’opposto dello scrittore fiorentino, agiato ereditiere, soldato fuori tempo massimo e umile fante di fureria nel ’16, sottile come il suo Perelà, un a-fascista prima che un anti-fascista, un essere antropologicamente alieno dalla violenza squadrista come dalla romanità di princisbecco. Palazzeschi analizza un fenomeno per lui disgustoso, la sua arma è l’ironia, viceversa Gadda si autoanalizza per psicoanalizzare una entità di cui si sente colpevolmente complice, tant’è che la sua arma è un sarcasmo velenoso, atrabiliare. (Va da sé che nessuno dei due né può né vuol concedersi le indulgenze e le ambigue palinodie di memoir peraltro allora decisamente più famosi, quali Il buonuomo Mussolini, ’46, di Indro Montanelli e In piedi e seduti, ’48, di Leo Longanesi: ma Longanesi, nonostante tutte le sue arie di anticonformista, rimaneva il fascista che era sempre stato e Montanelli il qualunquista buonsensaio e cinico, in sostanza opportunista, che sarebbe rimasto).
E però quello che davvero eccede ogni stereotipo di Palazzeschi è la vistosa germanofobia di Tre imperi… mancati, un sentimento primordiale di rigetto e di nausea psicofisica che viene reiterato e sublimato a principio metafisico, così riassumibile una volta per sempre: «Il popolo tedesco è il nemico del genere umano. (…) Il popolo tedesco, così barbaro, così primitivo, è poi raffinatissimo nella frode, nell’inganno, nel tradimento, nel mentire. (…) La sua non è la rapina e la strage dell’uomo allo stato selvaggio, ma quella dell’uomo scaltrito ai sentimenti più complessi del mondo attuale. Talora la sua malvagità assurge a opera d’arte, ne ha tutto il pathos, la sorpresa e la rivelazione: una follia sadica che lascia senza parole»; per aggiungere, nei termini di una mostruosa fisiognomica: «Non vi è faccia di tedesco che non ci ricordi quella di una cattiva bestia, non è ancora pervenuto all’umanità né ci perverrà mai». Il più cordiale fra i biografi dello scrittore e cioè Giacinto Spagnoletti (nel suo tardo libro-intervista Palazzeschi, Longanesi 1971) rammenta i giorni della Occupazione di Roma, la ricerca giornaliera del cibo e i traffici di borsa nera, le sortite sommamente perigliose da via dei Redentoristi fino a Colle Oppio per averne un chilo di patate. Potrà stupire qualcheduno ricordarlo oggi, ma nemmeno Aldo Palazzeschi ha dovuto attendere gli studi di Daniel Jonah Goldhagen per sapere chi fossero i volonterosi carnefici di Hitler e dunque per chiamare i nazisti semplicemente «i tedeschi». (L’espressione, una semplice antonomasia, era quella immediatamente invalsa nel senso comune e tale sarebbe rimasta fino agli anni del revisionismo storico, o cosiddetto). Potranno anche stupire, per la loro ingenua levità, le pagine finali del libello in lode dei soldati americani che nel giugno del ’44 sciamano flessuosi, sorridenti e persino insolenti in via del Corso con le cornucopie di carne in scatola, chewingum e Camel, ma sono loro o anche loro, dopo tutto, ad avere liberato il Paese da quei tetri aguzzini e dagli accoliti italiani, i beccamorti con la camicia nera.

Fonte: il manifesto 

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