La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 10 aprile 2016

Tasse basse per i petrolieri, come negli anni Cinquanta

di Lidia Baratta e Luca Rinaldi
Cinquantadue società con un permesso di ricerca e coltivazione di petrolio, cinque per lo stoccaggio di gas naturale, 81 istanze di ricerca. Nonostante il prezzo basso del greggio e la scarsità di risorse sul territorio italiano, le richieste per la ricerca di gas e petrolio in Italia continuano ad aumentare. «Grazie a un sistema di tassazione che facilita le condizioni per le esplorazioni e le trivellazioni come se fossimo ancora negli anni Cinquanta, quando Enrico Mattei creò la grande Eni», dice Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. «È una precisa scelta politica, finalizzata ad attrarre investimenti per estrarre sul nostro territorio».
A partire dalle royalties, ossia le tasse pagate dalle società per poter sfruttare il sottosuolo. Che in Italia sono più basse che altrove. Per la ricerca su terra si paga il10% (ma solo grazie a un incremento del 3% introdotto nel 2009), mentre in mare il contributo è del 7% per il gas e del 4% per il petrolio.
Percentuali che vengono applicate sul valore di vendita delle quantità prodotte. Quindi se il prezzo del petrolio è più basso, cala anche la somma da pagare.
Per fare un confronto, in Norvegia le royalties sono in media del 78% e nel Regno Unito oscillano tra il 68 e l’82 per cento. Mentre in Danimarca, dove non esiste più il sistema delle royalties, il prelievo fiscale arriva fino al 77 per cento. E anche nei Paesi a bassa produzione simili all’Italia, come Irlanda e Francia, le tasse pagate dalle società per produrre gas e petrolio arrivano fino al 50 per cento. Secondo i calcoli di Legambiente, se pure l’Italia avesse portato le royalties al 50%, nel 2015 ci saremmo trovati con un gettito da 1,4 miliardi anziché 352 milioni.
Ma perché in Italia le royalties sono così basse? «Percentuali così basse nascono daun’idea del passato in cui l’Eni era lo Stato e per l’estrazione doveva pagare poco», spiega Zanchini. «Non si poteva far pagare tanto l’Eni. Così si è costruito un sistema di norme che favoriva l’azienda di Stato per la ricerca di idrocarburi». Il problema è che da allora questo sistema di tassazione è rimasto inalterato, «nonostante dagli anni Novanta in poi siano arrivati i primi investimenti privati e anche la proprietà dell’Eni non sia più solo pubblica».
Appena eletto Rosario Crocetta alla presidenza della Sicilia, terza produttrice di idrocarburi in Italia, avendo bisogno dell’appoggio del Movimento cinque stelle per avere la maggioranza e approvare la legge di stabilità 2013, passò la proposta dei grillini di aumentare le royalties nella regione dal 10 al 20 per cento. Provocando forti contestazioni da parte delle società perolifere e di Assomineraria. Tant’è che l’anno dopo, con il M5s all’opposizione, si fece marcia indietro e la percentuale venne tagliata di nuovo dal 20 al 13 per cento.
Tra l’altro, entro una certa soglia, la produzione di gas e petrolio in Italia è completamente esentasse. Sotto le prime 20mila tonnellate di petrolio in terraferma, le prime 50mila tonnellate di petrolio estratte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi di gas estratti in terra e i primi 80 milioni estratti in mare, non si paga nulla. È tutto gratis. «Nel 2015», spiegano da Legambiente, «su un totale di 26 concessioni produttive, solo cinque di quelle a gas e quattro di quelle a petrolio hanno pagato le royalties». Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da restare sotto la soglia di pagamento, senza quindi versare nulla nelle casse pubbliche. «È come se sotto le mille macchine non pagassimo l’autostrada. O come se sotto i 30 ombrelloni non pagassimo il lido», dice Zanchini.
Per la produzione del 2015, il versamento da parte di Eni per le royalties, secondo quanto riporta il ministero dello Sviluppo economico, è stato di 227.534.982 milioni di euro. A seguire, Shell Italia ha pagato poco più di 94 milioni di euro, mentre la Società ionica gas ha versato circa 17 milioni.
E anche i canoni da pagare per l’esplorazione e la produzione sono più bassi che in altri Paesi: 3,65 euro per chilometro quadro per le prospezioni, 7 euro per i permessi di ricerca, fino a 87 per le concessioni di coltivazione in proroga. In Olanda si arriva oltre le 600 euro a chilometro quadro; in Norvegia per la produzione si pagano oltre 3.800 euro a chilometro quadro per il primo anno e negli anni successivi il canone quadruplica.
Non solo. Le spese sostenute dalle imprese per pagare royalties e canoni per l’esercizio delle attività sono interamente deducibili dall’imponibile su cui vengono calcolate le tasse sul reddito d’impresa. Così come si danno gli incentivi per le ristrutturazioni edilizie per favorire la ripresa del settore, la stessa cosa si fa con le estrazioni. «È evidente, davanti a questi privilegi, che nel 2016 si vuole ancora incentivare la ricerca e la produzione di idrocarburi nello stesso modo in cui si faceva negli anni Cinquanta, senza prevedere alcun tipo di transizione verso un modello energetico diverso», dice Zanchini. Tant’è che tra Cassa depositi e prestiti e Sace, i finanziamenti pubblici diretti per l’estrazione di petrolio ammontano a ben246 milioni di euro annui (fonte: Odi, Overseas Development Institute).
Ma dove vanno a finire le – seppur minime – tasse pagate dalle società che fanno ricerca, estrazione e produzione di gas e petrolio? I principali destinatari sono leRegioni: nel 2015 hanno ricevuto oltre 163 milioni di euro, Basilicata in testa. A seguire lo Stato, e solo in coda i comuni. Una somma più alta di quella destinata ai comuni va al Fondo sviluppo economico e social card e all’aliquota ambiente e sicurezza.
Alla Basilicata, il famoso Texas d’Italia, nel 2015 sono arrivati circa 143 milioni di euro dal gettito delle società petrolifere. Nelle casse del Comune di Viggiano, al centro di uno dei filoni d’inchiesta della Procura di Potenza per presunti illeciti nella gestione dei reflui petroliferi e delle emissioni nello stabilimento Eni, nello stesso anno sono finiti poco meno di 16 milioni di euro. «Sono soldi che in questi anni sono stati sprecati soprattutto in spese di tipo clientelare», dice Zanchini. «A partire dalla sanità».

Fonte: Observation on royalties and similar taxes (Deloitte - Settembre 2015)

Cosa che ha confermato anche la Corte dei conti. Del circa 1 miliardo di euro arrivato dal petrolio nella regione tra il 2001 al 2013, oltre l’80% è finito nella spesa corrente e non per lo sviluppo né per la tutela dell’ambiente, denunciano i giudici contabili. A Viggiano, delle royalties ricevute, l’amministrazione ha speso 122 milioni in arredo urbano, fognature e segnaletica stradale. E 25mila euro sono finiti addirittura in un viaggio in Australia tra gli emigranti lucani. Solo il 7% delle royalties regionali è stato investito in ricerca e innovazione. Soprattutto nell’Università della Basilicata, che ogni anno riceve diversi milioni dal petrolio. E tra i tanti seminari e convegni organizzati sulle estrazioni, la stessa Eni dal 2015 finanzia un master in “Idrocarburi e riserve”.
Il risultato è che in quella che doveva essere la Lucania Saudita, «mancano ancora infrastrutture, ferrovie, aeroporti», dice Zanchini. La Basilicata resta una delle regioni più povere d’Europa. E la disoccupazione giovanile, nonostante i milioni trasferiti all’università, supera ancora il 40 per cento.
I soldi del petrolio, pochi, si disperdono. Intanto, le modifiche sul territorio e i presunti danni ambientali restano. «Il petrolio non è infinito», dice Edoardo Zanchini. «O i territori sfruttano questo momento per arricchirsi o resteranno senza niente».

Fonte: Linkiesta 

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