di Dario Ginefra
Il dibattito in corso sul referendum del 17 aprile rischia, in troppe occasioni, di tradursi in scontro ideologico, in arma brandita nei confronti del Governo o, peggio ancora, in pretesto per rimarcare divisioni e distanze all’interno del Partito Democratico.
Ma qui non sono in ballo le prospettive di un Governo o di un singolo partito. Abbiamo piuttosto a che fare con il futuro del Paese. Il nodo, infatti, è quello delle politiche energetiche che possiamo e dobbiamo immaginare, per imprimere all’Italia un nuovo e più efficiente modello di sviluppo.
Ecco perché ci tengo a dichiarare il mio Sì al referendum, e soprattutto avverto l’esigenza di motivare questo voto, lasciando da parte strategie e posizionamenti politicisti, che non hanno nulla a che vedere con le questioni realmente sul tappeto.
Alle nove regioni promotrici del Referendum, sette delle quali a guida PD, va riconociuto il merito di aver già determinato, con l’iniziativa referendaria, una modifica del quadro normativo vigente. La novellata legislazione in materia, da noi introdotta con la Legge di Stabilità 2016, ha già prodotto una vittoria referendaria che, calcisticamente parlando, potremmo rappresentare con il punteggio di 5 a 0. Si tratta ora di capire se si riesce a convincere gli italiani dell’utilità di realizzare il “sesto goal”.
L’oggetto del quesito sopravvissuto è la durata delle concessioni relative alle attività di ricerca e di estrazione già in corso, ed effettuate entro le 12 miglia marine dalle coste italiane. Può sembrare un argomento di natura strettamente tecnica e dalla portata ristretta. E però le sue ricadute e i suoi riflessi sono più ampi di quanto non possa apparire.
Una estensione delle concessioni dalla durata indefinita, infatti, mal si concorda con la direttiva comunitaria sull’antitrust. Le proroghe “sine die” hanno l’effetto di sbarrare la strada ad altri soggetti potenzialmente interessati, negando loro opportunità che invece dovrebbero essere riconosciute in un regime ispirato realmente alla libera concorrenza.
Ma il tema è anche quello della sicurezza degli impianti. Se le concessioni riprendessero a essere soggette a rinnovo, infatti, lo Stato potrebbe consentire la rinegoziazione delle royalties, tornando ad avere maggiori poteri di verifica sull’adeguatezza delle piattaforme e sul loro effettivo impatto.
Soprattutto, una proroga della concessione accordata fino al totale sfruttamento del giacimento rischia di avere effetti perversi. A causa degli alti costi comportati dalle operazioni di smantellamento, c’è il pericolo che, con l’approssimarsi della fase dell’esaurimento dei pozzi, le imprese preferiscano rallentare l’estrazione se non addirittura lasciare inattive le piattaforme, con le gravi e nocive conseguenze che si possono immaginare e che sarebbero prodotte dall’assenza di manutenzioni e dai mancati smantellamenti.
Le preoccupazioni sul fronte ambientale sono supportate anche da un recente dossier del WWF sul tema. In questo dossier viene documentato uno stato delle cose in cui ben il 47,7% delle piattaforme offshore comprese nella fascia delle 12 miglia non è mai stato sottoposto a Valutazione d’Impatto Ambientale, e il 48% delle concessioni ha oltre i 40 anni. Sempre in tale rapporto, emergono seri e fondati campanelli d’allarme dallo screening delle 8 piattaforme non operanti e delle 31 piattaforme non eroganti.
Questo referendum, insomma, ci interroga sugli scenari e sulle prospettive che il Paese si può e si deve dare in tema di ambiente, di politica industriale e di gestione delle risorse.
Ecco perché il mio è un Sì convinto e deciso, ispirato dalla coscienza che magari non basterà questo singolo voto referendario a dipanare, come per magia, questioni intricate e complesse, e che però questo passaggio potrà rappresentare un tassello per iniziare a disegnare uno scenario più ampio e di più lungo respiro.
Ed ecco perché invito chi legge queste righe a votare e a far votare Sì il 17 aprile.
Fonte: l'Unità
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