La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 21 giugno 2016

Con Renzi si perde. E di brutto. Il Pd dovrebbe licenziarlo

di Michele Prospero
Che botta. Ha incassato il duro colpo quando ha fatto il presidente conduttore per tirare la volata a Giachetti, che non c’è stata. E le ha buscate anche quando ha giocato (ma solo giocato) a fare lo statista che si fa riprendere con Putin a discutere sulle grandi cose del mondo. Per Renzi suona la campana, con il rintocco lento che annuncia il commiato: dà fastidio agli elettori con la sua presenza (i candidati sindaco non l’hanno più voluto dalle loro parti in vista del ballottaggio) e viene inseguito dalla rabbia anche quando, per evitare di condividere la sconfitta, si fa notare con la sua plateale assenza. Un dato pare assodato. Non è credibile un uomo di governo che adotta lo stile del comico che non prende nulla sul serio e cavalca l’onda dell’antipolitica pensando così di sbarazzare la concorrenza con riduzioni degli spazi di democrazia giustificate con la finzione di tagliare i costi della politica. Il populismo dall’alto, che mostra un capo di governo che con simulazioni di estraneità si presenta come il becchino della classe politica, viene rigettato come fastidioso.
L’elettore ha compreso una cosa. A Renzi le potenze italiane ed europee hanno affidato un ruolo preciso: tentare, con l’arte della comunicazione via tweet, di costruire strategie di distrazione di massa e così rendere agevole l’approvazione delle misure antisociali imposte dai mercati. Per questo c’è stato il tonfo alle elezioni. 
A Torino crolla un Pd indifferente al disagio sociale, che aveva sposato simboli, valori, strategie di Marchionne, di Impresa San Paolo. Rimane ancora scolpita l’immagine televisiva di un Fassino convertito al verbo della rottamazione che si siede con i posteriori per terra per ascoltare quasi estasiato il nuovo capo Renzi mentre parla. E per terra è rimasto dopo il voto che lo ha sommerso, vittima anche della ribellione di una sinistra che è rimasta sbigottita nel vedere la conversione turbopadronale del suo ultimo segretario. Con Fassino è colpito al cuore non solo il sodalizio Renzi-Marchionne, ma la narrazione ottimistica di regime che vedeva il presidente dell’Anci smarrire ogni briciolo di buon senso per difendere Renzi anche nelle scelte di governo più devastanti per gli enti locali. 
A fatica il Pd conserva Bologna (per l’assenza di un competitore del M5S al ballottaggio) e Milano (per dinamiche esclusivamente locali, che hanno visto convergere la sinistra e la compagnia delle Opere). Nella roccaforte di Serracchiani, Trieste, il Pd viene spazzato via, per la stessa ragione che ha visto le grandi città insorgere contro lo statista di Rignano e la sua continua esibizione di arroganza. Renzi ha costruito la sua breve fortuna sulla base della metafisica del “solo con me si vince”. Le urne dicono (dalle regionali dell’Emilia Romagna in poi: quindi è una costante) una cosa ben diversa. Con lui si perde e anche di brutto. La catastrofe di Roma ha un significato politico generale e censura un ceto politico privo di radicamento sociale. A dispetto del chiacchiericcio sulla democrazia del leader, sotto la Mole o nel Campidoglio vince la poltrona di sindaco una perfetta sconosciuta. La rivolta di popolo contro la narrazione renziana scavalca ogni riferimento al carisma dei candidati ed è un ottimo viatico per il referendum costituzionale. Per non inaugurare l’autunno della repubblica a ottobre una vittoria del no può chiudere l’infausta parentesi renziana che comunque lascerà ferite profonde sul corpo di una sinistra di governo che non si riprenderà agevolmente. Per salvarsi il Pd dovrebbe licenziare Renzi e disinnescare il significato distruttivo del plebiscito di ottobre eliminando l’Italicum. Non lo farà e quindi come ogni partito personale si appresta ad entrare nel baratro con il suo capo.

Articolo scritto per “La Parola”- Cesena
Fonte: pagina Facebook dell'Autore

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