La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 21 giugno 2016

È finita l'aria serena dell'Ovest


di Alessandro Gilioli
Se Aristotele ci diceva che non c'è effetto senza causa, i risultati delle elezioni ci dicono sempre che ogni effetto ha più cause: insomma che è sciocco individuare un unico motivo di una stessa ondata. Il che è tanto più vero quando si tratta di elezioni amministrative, quindi le tendenze nazionali (che pure ci sono) si mescolano a situazioni locali. Però qualche ipotesi si può farla, a iniziare dal confronto con l'onda molto diversa di due anni fa, quella delle europee con il Pd oltre il 40 per cento. Già nei giorni successivi a quel voto chi non era ipnotizzato aveva abbastanza chiaro il fatto che il risultato di Renzi fosse gonfiato da un mix di cause coincidenti: un'assenza di accountability quasi virginale (era premier da soli tre mesi, insomma non doveva ancora render conto di niente); la narrazione ancora fresca del nuovo contro il vecchio (quindi la possibilità di incanalare nei suoi consensi una fetta del desiderio diffuso di cambiamento); la provvisoria chance di assommare questi voti nuovi a tutto il corpaccione storico del Pd (cioè l'abbrivio di provenienza Pci, il 20-25 per cento che votava Pd senza se e senza ma).
Più gli ottanta euro, certo.
Tutte e quattro le concause di cui sopra si sono esaurite, in questi due anni.
Inevitabilmente ora il premier deve rendere conto dell'azione di governo e della situazione economica; l'immagine da rottamatore nuovista si è trasformata in un prevalente percepito di establishment, quindi il contrario di due anni fa; il corpaccione storico del voto Pci-Pds-Ds-Pd si è sfrangiato non solo ai vertici, ma anche in una parte degli elettori; e l'effetto 80 euro è decisamente finito, pure con qualche beffa.
Di tutto questo l'elemento più rilevante è probabilmente lo iato (se non l'abisso) tra narrazione e realtà. Cioè tra l'immagine dell'Italia che il capo del governo brandisce e la vita vera, quotidiana, di milioni di persone, soprattutto quelle più giovani, in questo Paese.
Io capisco l'esigenza di ogni premier di esibire ottimismo e di inoculare fiducia, ma quando il distacco tra gli illusionismi e la realtà diventa troppo ampio, l'effetto è quello opposto. Si insinua cioè il forte dubbio, in molti, di essere presi per i fondelli.
Detta diversamente: se io faccio suonare le trombe per ogni striminzito decimale di Pil in più (a fronte di una crisi dalla quale ad andar bene si uscirà tra 15 anni);
se io utilizzo la mia macchina mediatica per enfatizzare oltre ogni limite accettabile dati sull'occupazione quanto meno altalenanti (e sempre catastrofici per gli under 40) che considerano "occupato" anche chi lavora un'ora al mese nel ristorante di papà;
se io deformo la realtà attribuendo al Jobs Act falsi effetti taumaturgici, gabellando per un effetto della licenziabilità quei posti di lavoro che invece lo Stato ha di fatto comprato con le decontribuzioni, cioè con i soldi di tutti noi;
se io faccio finta che non esista la realtà di una generazione senza speranza, di quaranta-cinquantenni che campano a voucher, di anziani che scoprono di doversi indebitare fino al decesso per non dover lavorare fino al decesso:
beh, se tutto questo accade e io vado in tivù o in rete a fare il brillante, rovesciando solo pernacchie a chi disvela coi numeri questo falso imbellettamento del reale, ecco, prima o dopo il conto arriva.
Ed è arrivato.
Personalmente, con rispetto, mi ero permesso di suggerire inutilmente al Pd e ai suoi comunicatori di andarci molto più piano con la grancassa di balle: «Quando andranno a sbattere contro questa complicata realtà, le radiose aspettative di rapida guarigione vendute sul mercato mediatico dal presidente del Consiglio otterranno l'effetto opposto. Cioè delusione e senso di impotenza, quindi rabbia crescente». Ecco, ci siamo. Non è che ci volesse chissà quale lucidità d'analisi. Bastava un po' di buon senso. E magari qualche frequentazione dei bar, dei giardinetti, dei negozi, degli autobus.
E fin qui le principali cause nazionali, quelle che emergono dal cosiddetto "voto politico" sui partiti e i leader nazionali.
Poi ci sono dinamiche che invece sono internazionali, cioè paneuropee e pure nordamericane: una gigantesca, trasversale e confusa rivolta contro l'establishment politico ed economico. Una guerra alle élite e allo status quo dichiarata dell'ex ceto medio impoverito, dall'ex "aristocrazia operaia" iperprecarizzata, dalle giovani generazioni furiose per il futuro rubato.
Togli alle persone reddito, stabilità, speranza e dagli in cambio la sensazione che la democrazia si stia svuotando perché nel mondo comandano quattro banchieri e tre algoritmi: cosa ne esce, se non un'incazzatura globale?
In questo quadro diffuso, ad esempio, non sembra esattamente un caso che tra le quattro maggiori città italiane il Pd abbia tenuto soltanto in quella dove la crisi c'è, certo, ma il benessere non manca, i servizi pubblici funzionano e il maggior partito anti-establishment non ha saputo organizzarsi.
Le dinamiche di Milano quindi sono state - a questo giro - non metaforiche del resto del Paese, ma eccezionali rispetto a esso.
Essendo il Pd vissuto come partito dell'establishment, non è strano che ce l'abbia fatta laddove il desiderio di rovesciare l'establishment è un po' minore. Come a Milano e più in generale nei centri storici, ad esempio.
Poi entra in gioco, appunto, il terzo gruppo di concause, quelle locali.
Di cui Roma è l'emblema perfetto: qui centrodestra e centrosinistra hanno fatto talmente schifo, che Raggi ieri avrebbe vinto anche se avesse passato il sabato a picchiare passanti a caso con l'ombrello. Di nuovo, non c'era bisogno di raffinate analisi per capirlo, bastava girare per strada, parlare con le persone. Il "sentiment" era di un'evidenza solare.
A tutto ciò si è aggiunta una candidata donna con un'immagine di novità e freschezza - piaccia o non piaccia - più gli errori catastrofici del Pd gestito da Orfini: dal modo in cui ha affrontato Mafia Capitale all'estromissione notarile di Marino, dalla sponsorizzazione dei poteri edilizi di Caltagirone e dintorni fino al delirio dell'ultima settimana, un tentativo di "character assassination" dell'avversario che ha ottenuto esattamente l'effetto opposto a quello voluto.
Di certo, in conclusione, c'è che adesso in Italia sono saltate definitivamente le geometrie politiche che hanno caratterizzato lo scontro politico per oltre un ventennio.
Ce ne sono di nuove, confusamente basate sulla dialettica tra establishment e anti establishment, con quest'ultima area che tuttavia viene interpretata da soggetti diversi in luoghi diversi - principalmente M5S, ma anche De Magistris e le liste civiche che hanno vinto a sorpresa come a Latina e altrove, e Salvini non è affatto morto. Del resto anche negli Stati Uniti il sentimento anti establishment ha creato sia Trump sia Sanders. E in Gran Bretagna sia Farage sia Corbyn.
Quelle nuove sono geometrie provvisorie, probabilmente. Perché essere "anti-establishment", appunto, di per sé non rappresenta un pensiero omogeneo: sicché questa galassia si definirà nelle sue diversità e perfino nei suoi opposti. E adesso è anche un po' al governo, quindi a sua volta passibile di accountability, col tempo.
Siamo in un interregno, insomma. Con nuove chance e nuovi rischi: come sempre, quando finisce un sistema.
Un mix di possibilità e di rischi che va oltre non solo Roma e Torino ma anche oltre l'Italia - e ormai perfino anche oltre l'Europa.
Ci avevano detto che, caduto il comunismo, "la storia era finita": che avremmo sonnecchiato per chissà quanti decenni avvolti dall'"aria serena dell'Ovest".
Che sciocchezza che era.

Fonte: L'Espresso - blog Piovono Rame

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