La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 23 luglio 2016

Vi spiego la frattura che c'è in Francia. Intervista a Marc Augé

Intervista a Marc Augé di Alessandra Bianchi 
«Sì, la Francia è in guerra contro un nemico nuovo. Non è una guerra tradizionale. Certo, ci sono aspetti di un conflitto “classico” in Siria e in Iraq, ma anche delle variabili nuove». Parla Marc Augé, 80 anni, uno dei massimi antropologi francesi, e non ha paura a pronunciare quella parola che ancora, anche dopo la carneficina sulla Promenade des Anglais di Nizza (nel simbolico 14 luglio data della presa della Bastiglia, 85 morti e 302 feriti) spaventa: “Guerra”. Il primo ministro Manuel Valls la dice in continuazione pur se esistono ancora delle resistenze a definire tali gli attentati jihadisti.
Augé, già presidente della Scuola di Alti Studi di Scienze Sociali (EHESS) a Parigi, ora direttore della stessa e fondatore del “Centro d’antropologia dei Mondi contemporanei”, non teme di usare un lessico forte. In questa intervista con “l’Espresso” sostiene che la «guerra», appunto, «si può vincere, ma ci vorrà sicuramente del tempo». Per ora intravede un rischio: «Ed è quello che i francesi possano dividersi sul modo di reagire. È il pericolo maggiore. La classe politica dovrebbe scuotersi e unirsi invece di accentuare le differenze, operazione in cui si distingue l’estrema destra». La lacerazione all’interno della società, sostiene, non è di oggi né di ieri, ma risale agli anni 70 e vedremo perché. Ma partiamo dalle prime misure prese dal governo dopo la strage.
Professor Marc Augé, l’Assemblea nazionale ha deciso a larghissima maggioranza e con voto bipartisan di prolungare lo stato di emergenza avviato con gli attentati del 13 novembre (il Bataclan, per riassumere) di altri sei mesi cioè fino al gennaio del 2017. È giusto, secondo lei?
«Più che giusto mi sembra obbligatorio. Perché bisogna provare a impedire il ripetersi di questi attacchi assassini. E questo non è possibile senza adottare misure estreme. Penso che almeno su questo punto tutti siamo d’accordo, politici compresi».
Ma uno Stato democratico può permettersi di prolungare così a lungo uno stato di emergenza o rischia di venire meno ai suoi valori fondanti?
«Lo Stato democratico ha il diritto di difendersi. Di più: ha il dovere di farlo. Certo, bisogna che le misure eccezionali siano incardinate in un quadro di diritto e sottoposte a una continua vigilanza. Però non deve venire meno la volontà di essere il più efficaci possibili in questa lotta. Anche se è molto difficile poter controllare persone che sono pronte a morire».
Le autorità hanno qualcosa da rimproverarsi per l’ennesimo attentato consumato sul suolo francese?
«Non so se ci sono state delle crepe negli apparati di sicurezza. Non so come mai è stato fatto passare un camion sulla Promenade di Nizza dove c’erano decine di migliaia di persone per la festa della Repubblica, se c’è stato un abbassamento della guardia. Ma questo non cambia la valutazione su cosa fare da ora in avanti. E cioè rafforzare la vigilanza».
C’è chi sostiene che Nizza rappresenta un salto di qualità del terrorismo jihadista per le modalità di questo attacco condotto con un camion, cioè con uno strumento di per sé neutro e usato comunemente per altri scopi. Dunque ancora più difficile da prevenire. Mentre per un attentato classico c’è bisogno di procurarsi armi, esplosivo, oltre che di una logistica. E si possono seminare, durante la preparazione, indizi che l’intelligence, può decrittare.
«Il modo di operare, investire le persone con un automezzo, è stato “consigliato” dallo Stato islamico. La cosa più inquietante è che un individuo, pur se ha avuto dei complici, ha potuto portare a termine l’operazione in solitudine. E questo è difficile da prevenire. Questo è il fattore nuovo. Almeno in Francia. I precedenti attentati erano diversi».
È cambiato il modo di operare.
«Sì. Che poi sia provato o meno che Mohamed Lahouaiej-Bouhlel (l’attentatore, ndr) appartenesse allo Stato islamico cambia poco. Anzi, se non fosse un seguace del califfo sarebbe ancora più terribile perché significa che qualunque islamista può tentare un colpo del genere senza essere sospettato. E questo è spaventoso».
È pertinente il paragone che molti hanno fatto con la terza Intifada palestinese dei coltelli e delle automobili?
«No, questo no. L’Intifada oppone due popoli in guerra in un modo più netto. È opera della resistenza palestinese e qui non vedo chi resiste. Non c’è un affrontarsi tra la popolazione francese e l’altro. Penso che sia un paragone molto delicato e pericoloso perché significherebbe che c’è l’equivalente del popolo palestinese in Francia e questo non è vero. C’è qualche individuo islamista ma non è l’espressione di una collettività. Non siamo a questo livello di contrapposizione».
C’è stata, c’è, in Francia una generazione di immigrati che ha fatto strada. Nella politica, nell’economia, anche nel mondo dello spettacolo e dello sport. Almeno in parte l’ascensore sociale funzionava. Ora invece c’è una generazione di giovani dove si annidano centinaia, forse migliaia di jihadisti. Si considera che siano almeno 1.500 partiti per la Siria e l’Iraq. Perché è avvenuta la frattura?
«Ci sono state crepe nel sistema educativo che non ci sarebbero dovute essere. Abbiamo lasciato che si creasse un vuoto in una parte della popolazione senza renderci conto che andava fatto uno sforzo nell’educazione. Tutti sono andati a scuola ma alcuni lo hanno fatto male, si sono persi, fuorviati. C’è stata una tendenza in Francia a lasciare che i fratelli maggiori si occupassero dei più piccoli. C’è stato un isolamento che andava evitato ed è stato un errore. C’erano genitori che non erano adatti, che avevano origini modeste e che avrebbero dovuto essere più sensibili a questo aspetto»».
E quando è cominciata questa frattura?
«Una prima frattura risale agli anni 70 quando è cominciato il fenomeno della disoccupazione di massa. I luoghi-simbolo della modernizzazione operaia sono diventati rifugi per persone declassate. E quando si trattava di magrebini o di persone di origine araba sono diventati un simbolo di sconfitta. Un problema che si è riflesso anche nelle famiglie, nel rapporto tra genitori e figli. E ha provocato tensioni, a volte disprezzo da parte dei figli verso i genitori. E non si è affrontata la questione con la dovuta attenzione. Tuttavia non dobbiamo esagerare: parliamo pur sempre di qualche migliaio di potenziali jihadisti, non di tutta una generazione».
Quali i rimedi, ora, e che futuro vede per la Francia?
«Solo una politica educativa rafforzata può produrre risultati ma ci vuole tempo e pazienza. Nell’immediato credo che la collera dei francesi faccia ben sperare. I francesi sono più arrabbiati che annientati. Non hanno paura».
E cosa dovrebbe fare la classe politica?
«Non sempre è all’altezza di questi eventi epocali e si divide sulla questione della sicurezza. Il Fronte Nazionale fa la sua politica di esasperazione. L’estrema destra pure. La sinistra non è molto chiara. Il fatto che si avvicini il momento delle elezioni presidenziali complica ancora di più le cose. E il terrorismo punta sulle divisioni. Non c’è un vero spirito di unione nazionale. C’è la destra contro la sinistra, ci si accusa a vicenda di non essere abbastanza energici. E questo è un pericolo».
L’Europa cosa dovrebbe fare?
«L’Europa mostra la sua solidarietà ed è già importante. Abbiamo bisogno di sentire parole di incoraggiamento anche per superare le nostre tensioni interne. Oltre che, in concreto, di rafforzare i servizi di informazione comuni con il resto del Continente».

Fonte: L'Espresso 

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