La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 28 ottobre 2016

Il significato di Theresa May: crisi di leggitimità all'inglese

di Vincenzo Scalia 
Negli anni settanta Jurgen Habermas teorizzava la crisi di legittimità, definendola come il disconoscimento di una classe politica da parte dei suoi governati in seguito ad uno scollamento tra bisogni e aspettative di una società e la politica effettivamente perseguita dagli attori investiti delle prerogative pubbliche. Sin dal primo decennio del 2000, stiamo assistendo esattamente a questo fenomeno in tutto il mondo occidentale: disaffezione dell’elettorato verso i partiti tradizionali, alto tasso di astensione, formazione di movimenti populisti o comunque critici verso la dialettica politica tradizionale, incapacità da parte dei sistemi politici di tradurre in outputs corrispondenti, almeno in larga parte, ai desiderata dell’elettorato, le loro scelte.
Le ragioni di questa crisi di legittimità sono molteplici: in primo luogo, il crollo del muro di Berlino ha sancito, con la fine dell’ultima utopia, la trasformazione della classe politica in amministratrice della contingenza. In secondo luogo, la modifica radicale della composizione di classe intervenuta dalla fine degli anni settanta in poi, pare aver decretato la fine “politica” degli aggregati collettivi - le classi in primis -deviando il conflitto verso direttrici “orizzontali”, come il genere, la razza, gli stili di vita. Definizioni senz’altro legittime, ma prive di respiro a lungo termine e non articolabili in senso di trasformazioni collettive. Infine, l’egemonia della precarietà economica ed esistenziale ha finito per produrre, presso individui e gruppi sociali, un panico morale che si traduce, sul solco di quanto teorizza Zygmunt Baumann, nella creazione di comunità di “complici”, che si compattano per breve tempo attorno allo scopo effimero di individuare e perseguire il capro espiatorio di turno. Ecco i Le Pen, i Salvini, i Grillo alla caccia di politici, immigrati e musulmani. Dalla crisi di legittimità scaturisce un circolo vizioso, che vede i politici inserirsi nella gara di costruzione del capro espiatorio, finendo per esacerbare il clima generale e deteriorando ulteriormente sia le condizioni materiali, sia la convivenza civile.
La parabola di Theresa May si inserisce proprio all’interno delle dinamiche sopra delineate, che hanno interessato il Regno Unito forse prima delle altre società europee in quanto è proprio Oltremanica che il neo-liberismo si è manifestato nella sua esplicitezza più cruda. Sul piano della politica, Margaret Thatcher ha senza dubbio scompigliato le carte. Le sue riforme hanno, infatti, privato a lungo termine i laburisti della loro base tradizionale. La distruzione dell’assetto sociale britannico degli ultimi trent’anni ha, infatti, comportato la disaffezione e l’alienazione di una parte della classe operaia che non si sentiva più garantita dai laburisti, e che ha preferito ritirarsi dalla vita pubblica o spostarsi a destra, o ancora, al limite, votarsi a una trasgressione improntata agli stili di vita (vedi gli squatters) o a proteste mirate, a breve termine, come quelle contro la poll tax dei primi anni Novanta, che non hanno tuttavia generato soggetti politici radicali che potessero incidere in prospettiva sugli equilibri di potere. Dall’altra parte il partito laburista ha scelto di spostarsi al centro, isolando o espungendo le sue appendici più radicali e puntando sulle nuove classi medie, culminando nella terza via blairiana, che si muoveva però sempre dentro l’orizzonte neo-liberista. La recessione del 2008, nonché le prove sempre più schiaccianti che Blair avesse mentito per portare la Gran Bretagna al fianco degli USA nella seconda guerra del Golfo, hanno finito per rovinare i laburisti. La vittoria di Jeremy Corbyn appare come un tentativo disperato di rivitalizzare un partito divorato al suo interno da lotte intestine, anche se la seconda elezione del leader della sinistra laburista lascia prefigurare un orizzonte tutto sommato meno fosco.
Per i Tories la Lady di Ferro si è rivelata, a lungo andare una vera e propria Medea. Il carisma, il piglio decisionale della Thatcher, non ha permesso il rinnovamento di una classe dirigente che, tornata al potere nel 2010 sull’onda della delusione causata dai laburisti, si è trovata ad affrontare la recessione del 2008 senza saper fare altro che riproporre le ricette della Grande Sorella, pensando di vivere di rendita. Ne è invece scaturita la crescita dapprima del British National Front di Nick Griffin, in seguito dell’UKIP di Nigel Farage, alla loro destra. Entrambi sottovalutati. A tal punto che l’ex primo ministro, David Cameron, non soltanto ha deciso di indire un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea con insipienza e superficialità, ma non ha nemmeno svolto una campagna elettorale incisiva per vincerlo. Il dibattito sulla Brexit si è rivelato la cartina di tornasole della classe politica Tory, col partito diviso sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea non per ragioni ideologiche, quanto per motivi strumentali.
Sia Boris Johnson che gli altri membri della maggioranza avevano infatti trascurato il fatto che le elezioni del 2015 avessero conferito ai Conservatori una maggioranza di soli 25.000 voti, dovuta più che altro alla mancanza di una proposta politica incisiva da sinistra, così da spingere molti elettori all’astensione o a votare Farage. Ci si è così ritrovati di fronte ad esponenti di spicco Tory, o addirittura ministri, fare campagna contro il proprio stesso moderno, convinti che il “Remain” avrebbe vinto comunque, e che la questione fosse tutt’al più indebolire e disarcionare Cameron per sostituirlo. I fatti hanno preso una direzione diversa, causando un imbarazzo generale di fronte a scadenze politiche tanto inaspettate quanto serie: come gestire la svalutazione della sterlina del 20%? Il calo del potere d’acquisto di fronte alla fine del mercato unico? La perdita di milioni di posti di lavoro che riguarda anche, se non soprattutto, quella economia dei servizi fortemente voluta da Margaret Thatcher, in nome del quale si è distrutto un patrimonio industriale di trecento anni?
È all’interno di questo dilettantismo politico che si è fatta strada Theresa May, ministro dell’interno sotto Cameron, estranea alle battaglie per la leadership che coinvolgevano Boris Johnson e George Osborne, prontamente defilatisi il giorno dopo il referendum. L’attuale primo ministro, come i suoi colleghi di partito, non è in grado di gestire la Brexit, uno scenario non previsto fino a pochi mesi fa, e, incapace di delineare una strategia propria, soffia sul fuoco dei populismi, puntando sulle corde stantie del sovranismo britannico e sulla frustrazione della precarietà sociale diffusa. La società inglese infatti si presenta sempre più frammentata dopo quasi quarant’anni di neo-liberismo: il settore manifatturiero occupa ormai soltanto l’8,5% della popolazione attiva. Rimangono i lavori del cosiddetto “terziario arretrato”, vale a dire la parte dequalificata dei servizi, dove la vecchia classe operaia bianca deve competere con afro-caraibici e polacchi, rimuginando attitudini razziste, esacerbate dalla presenza di 3.600.000 lavoratori dell’Unione Europea, attivi anche nei settori più qualificati, come l’economia della conoscenza, o remunerativi, come la ristorazione. Una nuova classe lavoratrice, che non si unisce, ma si divide semmai per linee etniche, religiose e di stili di vita. Su cui soffia minaccioso il vento dell’integralismo islamico: il Paese ospita la seconda comunità musulmana dell’Europa Occidentale, ha già subito attentati terroristici e denuncia 600 foreign fighters arruolati nelle file dell’ISIS.
Gli ingredienti per esacerbare le tensioni ci sono tutti, e la May, priva di legittimità e di prospettive, li rimesta per rimanere disperatamente in sella, tralasciando di valutare le conseguenze economiche e sociali dell’Hard Brexit. Jeremy, salvaci, tu...

Fonte: palermo-grad.com 

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