La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 15 ottobre 2016

Necropolitica. Chi può vivere e chi deve morire

di Achille Mbembe 
L’assunto di questo saggio1 è che l’espressione ultima della sovranità consista, in larga misura, nel potere e nella capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire2. Uccidere o permettere di vivere definiscono perciò i limiti della sovranità, i suoi attributi fondamentali. Esercitare la sovranità significa esercitare il controllo sulla mortalità e definire la vita come il dispiegarsi e il manifestarsi del potere. Si potrebbe riassumere in questi termini ciò che Michel Foucault (1975, 213-214) ha indicato come biopotere: quell’ambito della vita sul quale il potere esercita il proprio controllo.
Ma in quali particolari condizioni viene esercitato il diritto di uccidere, lasciar vivere o abbandonare alla morte? Chi è il soggetto di questo diritto? Che cosa ci dice l’attuazione di un tale diritto circa la persona che viene messa a morte e la relazione di ostilità che esiste fra la vittima e il suo assassino? La nozione di biopotere è in grado di dar conto delle contemporanee forme attraverso le quali il politico, nei modi della guerra, della resistenza, o della lotta al terrore, fa dell’uccisione del nemico il suo obiettivo fondamentale e assoluto? La guerra, dopo tutto, è in buona parte un modo per realizzare la sovranità come esercizio del diritto di uccidere. Immaginando la politica come una forma di guerra, dobbiamo chiederci: quale posto è dato alla vita, alla morte e al corpo umano (in particolare al corpo-ferito o al corpo-cadavere)? Come vengono inscritti nell’ordine del potere?
La politica, il lavoro della morte, e il «diventare Soggetto»
Per rispondere a tali domande, il mio lavoro attinge al concetto di biopotere e ne esplora il rapporto con nozioni come quelle di sovranità (imperium) e stato di eccezione3. Una tale analisi pone un certo numero di interrogativi empirici e filosofici ai quali vorrei brevemente rispondere. Come è ben noto, il concetto di stato di eccezione è stato spesso discusso in relazione al nazismo, al totalitarismo, ai campi di concentramento e di sterminio. I campi della morte, in particolare, sono stati interpretati in vario modo come una metafora centrale della violenza sovrana e distruttiva e come segno estremo del potere assoluto del negativo. Scrive Hannah Arendt (1951, 444): “Non ci sono paralleli con la vita nei campi di concentramento. Il suo orrore non può essere mai del tutto compreso con l’immaginazione per la semplice ragione che essa sta al di là della vita e della morte”.
Poiché coloro che vi erano reclusi erano stati privati di ogni status politico e ridotti alla nuda vita, il campo è per Giorgio Agamben (1995a, 50-51) “il luogo nel quale la più assoluta conditio inhumana mai apparsa sulla terra sia stata realizzata”. Nella struttura politico-giuridica del campo, aggiunge Agamben, lo stato di eccezione cessa di essere una sospensione temporanea dello Stato di diritto. Secondo Agamben esso assume un’organizzazione spaziale stabile, che rimane in modo permanente al di fuori dello Stato di diritto. Lo scopo di questo saggio non è discutere la singolarità dello sterminio degli ebrei o assumerlo come un esempio4. Io parto dall’idea che la modernità sia stata all’origine di molteplici nozioni di sovranità – e dunque della nozione di biopolitica.
Trascurando questa molteplicità, la critica politica post-moderna ha purtroppo privilegiato le teorie normative della democrazia e reso il concetto di ragione uno dei più importanti elementi tanto del progetto della modernità, quanto del topos della sovranità. Da questa prospettiva, l’espressione ultima della sovranità è la produzione di norme generali attraverso un corpo (demos) fatto di uomini e donne uguali e liberi. Questi ultimi sono considerati soggetti a pieno titolo, capaci di auto-comprensione, auto-consapevolezza e auto-coscienza. La politica è pertanto definita secondo un duplice profilo: come un progetto di autonomia e come la realizzazione di un accordo collettivo attraverso la comunicazione e il riconoscimento. Questo, ci è stato detto, è ciò che la differenzia dalla guerra (Schmitt 1996). In altre parole, è sulla base di una distinzione tra ragione e irrazionalità (passioni, illusioni) che la critica tardo-moderna è stata in grado di articolare una certa idea del politico, della comunità, del soggetto o, più semplicemente, di ciò che significhi una buona vita, come attuarla, e quale sia il processo per diventare un soggetto morale. All’interno di questo paradigma la ragione è la verità del soggetto, mentre la politica è l’esercizio della ragione nella sfera pubblica.
L’esercizio della ragione è equivalente all’esercizio della libertà: un aspetto chiave dell’autonomia individuale. Il romanzo della sovranità si fonda in questo caso sull’opinione che il soggetto sia il padrone e, al tempo stesso, l’autore in grado di controllare i propri intenti. La sovranità è dunque definita come un doppio processo di auto-istituzione e autolimitazione (fissare da sé i propri limiti). L’esercizio della sovranità consiste, a sua volta, nella capacità di auto-creazione della società attraverso il ricorso a istituzioni ispirate da un comune immaginario e da particolari significati sociali (Castoriadis 1975;1999). La lettura fortemente normativa della politica della sovranità è stata oggetto di numerose critiche, che non starò qui a riesaminare (cfr. in particolare Gilroy 1993, specialmente il secondo capitolo). Il mio interesse è rivolto soprattutto a quelle figure della modernità il cui principale progetto non è la battaglia per l’autonomia, ma il sistematico uso strumentale dell’esistenza umana e la distruzione materiale delle popolazioni e dei corpi. Queste figure della sovranità sono lontane dall’essere una scheggia di inusuale follia o l’espressione di una rottura nell’equilibrio fra gli impulsi e gli interessi della mente e del corpo. In realtà esse sono, come i campi della morte, ciò che costituisce il nomos dello spazio politico nel quale ancora viviamo. Inoltre le contemporanee esperienze di sterminio suggeriscono che è possibile sviluppare una lettura della politica, della sovranità e del soggetto diversa da quella che abbiamo ereditato dal discorso filosofico della modernità.
Invece di considerare la ragione come la verità del soggetto, possiamo guardare ad altre fondamentali categorie che sono meno astratte e più palpabili: come la vita e la morte. Per comprendere un simile progetto è significativo far riferimento all’argomento di Hegel sulla relazione fra la morte e il “diventare soggetto”. La prospettiva hegeliana sulla morte si fonda su un concetto duplice del negativo. Innanzitutto l’essere umano nega la natura (una negazione che si esprime nello sforzo di ridurre la natura ai propri bisogni). L’uomo trasforma gli elementi negati attraverso il lavoro e la lotta. Nel trasformare la natura, l’essere umano crea un mondo, ma nel corso di questo processo egli è esposto alla sua stessa negatività. All’interno del paradigma hegeliano la morte diventa essenzialmente volontaria: è il risultato dei rischi consapevolmente assunti dal soggetto. Secondo Hegel in questi rischi l’animale che costituisce l’essere naturale del soggetto umano viene sconfitto. Detto altrimenti, l’essere umano diventa veramente un soggetto si separa cioè dalla sua parte animale – nella lotta e nel lavoro attraverso i quali si confronta con la morte (intesa qui come violenza del negativo). È attraverso questo confronto con la morte che egli è gettato dentro l’incessante movimento della Storia.
Diventare soggetto presuppone pertanto sostenere il lavoro della morte. Far ciò è proprio quanto Hegel definisce la vita dello Spirito. La vita dello Spirito, afferma Hegel, non è quella vita terrorizzata dalla morte e che nega (prescinde, evita, risparmia) la sua stessa distruzione, ma la vita che accetta la morte e convive con essa. Lo Spirito arriva alla verità solo con il ritrovare se stesso nel totale smembramento5. La politica è la morte che vive una vita umana. Tale è, inoltre, la definizione del sapere e della sovranità assoluti: rischiare la totalità della vita di qualcuno. Anche Georges Bataille offre intuizioni illuminanti per comprendere come la morte strutturi l’idea di sovranità, il politico e il soggetto. Bataille ridefinisce il legame concettuale istituito da Hegel tra morte, sovranità e soggetto in almeno tre modi. In primo luogo egli interpreta la morte e la sovranità come il parossismo dello scambio e della sovrabbondanza – o, per utilizzare la sua terminologia: dell’eccesso. Per Bataille la vita è imperfetta solo quando la morte l’ha presa in ostaggio. La vita stessa esiste soltanto nell’irruzione della morte e nello scambio con essa 6. Egli sostiene che la morte è la putrefazione della vita, il cattivo odore che costituisce a uno stesso tempo l’aspetto repulsivo e la sorgente della vita. Sebbene distrugga ciò che doveva essere, cancella ciò che si supponeva avrebbe continuato a essere, e riduce al nulla l’individuo che ghermisce; la morte non si limita al puro annichilimento dell’essere. Al contrario essa è soprattutto autocoscienza: è la più lussuriosa forma di vita, quella dell’effusione e dell’esuberanza, un potere di proliferazione. In modo ancora più radicale, Bataille fa derivare la morte dall’orizzonte del significato. Questo è in contrasto con la prospettiva di Hegel, per il quale nulla è definitivamente perso nella morte; infatti la morte è vista come dotata di significato, in quanto strumento di verità.
C’è un altro aspetto. Bataille vincola definitivamente la morte al regno dell’eccesso assoluto (dépense), altra caratteristica della sovranità, mentre Hegel prova a mantenere la morte all’interno di un’economia del significato e del sapere. La vita, al di là di quanto essa rappresenta, è il dominio della sovranità, afferma Bataille. Date queste premesse, la morte diventa il punto nel quale la distruzione, la soppressione e il sacrificio costituiscono un eccesso così radicale e irreversibile che esse non possono essere più definite come semplice negatività. La morte è allora il principio stesso dell’eccesso – una forma di anti-economia. Da qui la metafora della lussuria e del carattere lussurioso della morte.
C’è infine la correlazione che Bataille istituisce fra morte, sovranità e sessualità. La sessualità è inestricabilmente connessa alla violenza e alla dissoluzione dei confini del corpo e del Sé, a causa degli impulsi orgiastici o connessi agli escrementi. In virtù di ciò, la sessualità riguarda le due principali forme di impulsi umani polarizzati – quello dell’escrezione e quello dell’appropriazione – così come il regime dei tabù che li circondano (Bataille 1985, 94-96). La verità del sesso e le sue qualità letali risiedono nell’esperienza della dissoluzione dei confini che separano la realtà, gli eventi e gli oggetti immaginari. Per Bataille la sovranità ha dunque molte forme, ma da ultimo può essere definita come il rifiuto di accettare i limiti che la paura della morte dovrebbe indurre il soggetto a tenere in considerazione. Il mondo del sovrano, continua Bataille (ivi, 96),
"[…] è il mondo nel quale il limite della morte è soppresso insieme ad essa. La morte è presente, la sua presenza definisce quel mondo di violenza, ma la morte vi è presente sempre e solo per essere negata, nient’altro che questo. Il sovrano, conclude, è colui che è come se la morte non esistesse […] Egli non ha riguardo per i limiti dell’identità più di quanto non ne abbia per il limite della morte, o meglio, questi limiti sono la stessa cosa. Il sovrano è la trasgressione di tutti questi limiti."
Dal momento che il dominio delle proibizioni naturali include fra l’altro la morte (insieme alla sessualità, ai rifiuti, agli escrementi ecc.), la sovranità esige “la forza di violare la proibizione contro l’assassinio, sebbene è vero che tale volontà sia sottoposta alle condizioni definite dalle tradizioni locali”. Al contrario della subordinazione, che è sempre radicata nella necessità e nel bisogno presunto di evitare la morte, la sovranità reclama il rischio della morte (Botting, Wilson 1997; cfr. anche Bataille 1957; 1988). Trattando la sovranità come violazione delle proibizioni, Bataille riapre la questione dei limiti del politico. In questo caso il politico non è però l’avanzare del movimento dialettico della ragione. La politica può essere pensata soltanto come una trasgressione che cresce vertiginosamente, come quella differenza che disorienta l’idea stessa del limite. Più in particolare è la differenza messa in gioco dalla violazione del tabù (Bataille 1957; 1988).

NOTE

1. ↩ Il testo è il risultato di conversazioni con Arjun Appadurai, Carol Breckenridge e Françis Vergé. Alcune parti sono state presentate in seminari e workshop tenuti a Evanston, Chicago, New York, New Haven e Johannesburg. Preziose critiche mi sono state offerte da Paul Gilroy, Dilip Parameshwar Gaonkar, Beth Povinelli, Ben Lee, Charles Taylor, Crawford Young, Abdoumaliq Simone, Luc Sindjoun, Souleymane Bachir Diane, Carlos Forment, Ato Quayson, Ulrike Kistner, David Theo Goldberg e Deborah Posel. Ulteriori commenti e suggerimenti, oltre a incoraggiamenti e aiuti decisivi, mi sono giunti da Renana Ebr-Vally e Sarah Nuttall. Questo lavoro è dedicato al mio compianto amico Tshikala Kayembe Biaya. [Una prima versione italiana di Necropolitics è apparsa in “Antropologia”, 9-10 (2008), numero monografico sulla “violenza” curato da Roberto Beneduce (N.d.C.)].
2. ↩ Il presente lavoro prende distanza dalle definizioni della sovranità tradizionalmente adottate dalle scienze politiche e dalle scienze delle relazioni internazionali. Tali definizioni situano per lo più la sovranità dentro i confini dello Stato-nazione, all’interno di istituzioni il cui potere è conferito dallo Stato, o all’interno di reti e istituzioni sopranazionali. Si veda ad esempio il numero speciale di “Public Culture” (1999), Sovereignity at the Millennium. Il mio approccio si fonda sulla critica sviluppata da Michel Foucault (1975, 37-55, 75-100, 125-148, 213-244) nei confronti della nozione di sovranità e il rapporto fra questa, la guerra e il bio-potere. Si veda anche Agamben 1995b.
3. ↩ Sullo Stato di eccezione cfr. Schmitt 1921; 2000, 210-228, 235-236, 250-251, 255-256.
4. ↩ Su questo dibattito, cfr. Friedlander 1992 e, più recentemente, Ogilvie 2001.
5. ↩ Hegel 1807. Si veda anche la critica di Alexander Kojève (1947), specialmente l’Appendice, e Bataille 1955 (specialmente i capitoli Hegel, la morte e il sacrificio, pp. 326-348, e Hegel, l’uomo e la storia, pp. 349-369).
6. ↩ Cfr. Baudrillard 1997, in particolare pp. 139-141.

Questo è un un estratto dal saggio Necropolitica di Achille Mbembe in libreria per le edizioni ombre corte (con un saggio di Roberto Beneduce, pp. 107, € 10,00). Dalla deumanizzazione del destino degli schiavi all’abominio dei campi di sterminio, dalle colonie africane – luogo per eccellenza del dominio razziale e modello del genocidio ebraico – alla colonia di oggi, Mbembe traccia la genealogia dei poteri di morte. Questo libro è una tappa fondamentale in un percorso che vuole pensare a come uscire dalla notte di un mondo avvelenato dall’inimicizia.

Fonte: operaviva.info

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