La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 13 aprile 2017

Un volto e un paese, la Turchia di Erdogan tra consenso e polemiche

di Marco Sandi
Non è un segreto che la “Nuova Turchia” del Presidente Recep Tayyip Erdogan, che per cinque lunghi anni è stata salutata come il modello splendente di democrazia islamica, adesso appare molto tetra. Infatti, la Turchia entra nei notiziari oggigiorno non per le sue riforme oppure per l’uso del suo soft power nella regione, ma irrompe per parlare del suo regime apertamente e indubbiamente autoritario e per i, purtroppo, frequenti attacchi terroristici che dissanguano il paese. Ma perché il modello della “Nuova Turchia” ha fallito? In un certo senso, è molto semplice: vi è stata una vera e propria intossicazione di potere. Quando nel 2002 il partito della Giustizia e dello Sviluppo ha vinto le elezioni, era sostanzialmente un partito di islamisti che necessitavano di provare, soprattutto a loro stessi, di essere democratici, ma lo dovevano dimostrare - per arrivare ad un maggiore consenso -anche a tutte le altre parti della società turca, dalla sinistra kemalista e secolarizza ai nazionalisti.
Non meno importante è stato, in qualche forma, convincere anche il resto del mondo. Il partito ed Erdogan hanno trovato molti ostacoli nel loro cammino, soprattutto nel pesante apparato burocratico turco dominato dai tempi della sua creazione dalla componente laica. Ma dopo i primi anni di governo del partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) questi bastioni kemalisti - compreso quello più importante, le Forze Armate - sono state gradualmente penetrate e occupate.
Questo processo potrebbe sembrare un normale processo di democratizzazione agli occhi più disattenti, ma invece si è tradotto in una crescita esponenziale del potere dell’Akp, senza che altri organi costituzionali riuscissero ad arginarla e bilanciarla. Questo picco spropositato ha fatto sì che, insieme al potere, crescessero anche la corruzione, l’arroganza e l’ambizione di Erdogan. Oltretutto, la filosofia di governo di Erdogan è in procinto, o lo è addirittura già, di diventare l’ideologia ufficiale della “Nuova Turchia”, esattamente come lo è stato il kemalismo nel corso di tutto il Novecento. Molti osservatori in Turchia e all’estero lo chiamano semplicemente islamismo, ma non è propriamente esatto: l’ideologia di Erdogan, come quella del suo predecessore Ataturk, è un’ideologia concentrata quasi totalmente attorno al culto della personalità del Presidente. Possiamo quindi chiamarlo Erdoganismo.
Ad oggi, nei fatti, egli è la figura principale e di riferimento del partito di governo, è il governo, controlla la maggioranza del Parlamento, ha uomini di fiducia nelle cariche principali della Magistratura e della Corte Costituzionale, controlla direttamente la quasi totalità dei media turchi e riesce ad estendere il suo controllo sugli affari riuscendo ad assegnare contratti e commesse pubbliche ad una rete di imprenditori a lui vicini.
L’Erdoganismo ha sostanzialmente riscritto le regole della politica turca, inserendo un linguaggio ad hoc, creato per distruggere i buoni e i cattivi. E’ quasi impossibile capire il sistema della “Nuova Turchia” senza capire questi fondamentali concetti, sia nel contesto nazionale che in quello internazionale.
e si pensa all’Erdoganismo come ad una forma di rigetto della democrazia si è sulla strada sbagliata. Quest’idea venera la democrazia e si è creata sfruttando l’apparato democratico, ma come afferma Erdogan stesso, “la democrazia non è altro che elezioni”, appunto elezioni che gli garantiscono il potere. In sostanza, colui che vince le elezioni rappresenta il volere della nazione che in questo tipo di contesto politico, come riportato sopra, viene modellato attorno alla figura del Presidente. Chi detiene il potere interviene automaticamente attraverso una sorta di verità inconfutabile che non può essere limitata da nessuna legge, da nessuna norma internazionale o da qualsiasi valore universale. Facendo questo tipo di gioco, tutti coloro che si oppongono al volere del Presidente si oppongono automaticamente al volere della Nazione. Un esempio? Le proteste di Gezi Park nel 2013 quando i manifestanti vennero bollati come nemici della nazione e aspiranti sovvertitori del volere popolare. Questo tipo di propaganda non ha fatto altro che compattare il fronte pro-Erdogan e giustificare la repressione militare da parte della polizia.
Ma la retorica di Erdogan è, come detto, incentrata sul culto della sua personalità: è l’uomo della nazione, il primo presidente eletto dal popolo grazie ad un emendamento costituzionale voluto da lui stesso nel 2007. Di fatto, incarna la nazione, rappresenta il volere della nazione. La conseguenza di questa scelta sembra essere che le fortune, o le sfortune, personali di Erdogan in politica diventano così le stesse della Turchia nella sua complessità. Il destino della Turchia è quindi inseparabile al destino di Erdogan.
Ma come può succedere tutto ciò? Analizzata in questo modo sembra che in Turchia non vi sia alcun sistema di tutela costituzionale che possa arginare il potere del nuovo Sultano. I sistemi di tutela, siano essi legali o fisici, sono da sempre uno spauracchio di Erdogan e del suo partito, ma non sono mai stati un ostacolo insormontabile, in qualche modo l'ostacolo è sempre stato aggirato. Come è successo nel caso delle Forze Armate, che rappresentavano l’ultimo baluardo da conquistare e c'è riuscito, erodendo il loro potere di controllo dall'interno e garantendosi, quindi, il via libera. Come ben sappiamo la mania di controllo non si è fermata qui, per il Presidente, in Turchia, c'erano ancora molti altri nemici che potevano, in qualsiasi modo, mettere dei freni al suo potere: i giudici, i media e persino il sistema democratico stesso.
Sostanzialmente, ogni decisione dei giudici, una qualsiasi presa di posizione della stampa o una legittima critica all’operato del presidente, o l’uomo della nazione, è stata sempre avvertita dal’Akp come un tentativo illegittimo di stabilire un controllo e un freno al volere della nazione, incarnata da Erdogan stesso.
In Turchia viene molto spesso sfruttata questo tipo di retorica per guadagnare consenso, arrivando addirittura a paragonare la concitata e problematica storia turco-ottomana alla storia personale del Presidente, che infarcisce i suoi discorsi di vittimismo. Nell’Erdoganismo la presenza di un nemico è quindi fondamentale sia perché consente di mantenere alta la tensione tra i suoi seguaci e sia perché così fornisce un punto di riferimento fisso per la sempre più ampia galassia dei suoi oppositori. 
Di conseguenza il tradimento è un tema fondamentale della propaganda dell’Akp e ne esistono di due tipi: uno interno e uno esterno. Il traditore esterno è più semplice da individuare e schedare in quanto non appartenente all’Akp e quindi militante della galassia della sinistra turca, dei liberali, dei kemalisti, dei partiti filo-curdi e di tutte le minoranze religiose che si sentono minacciate dalla politica di Erdogan ovvero aleviti, armeni e sciiti. Poi ci sono traditori interni cioè coloro che militano, o che hanno militato nelle file dell’Akp e che sono stati allontanati per divergenze politiche e personali con la leadership. Tre casi sono esemplari: Abdullah Gul e Bulent Arinc che sono stati accusati di essere dei traditori interni per non essere stati d’accordo con la linea politica intrapresa dal partito. Due figure importanti, infatti sono stati membri fondatori del partito stesso e che hanno ricoperto cariche di assoluto rilievo, come Presidente della Repubblica e speaker del Parlamento. Il terzo è un altro epurato per eccellenza, oltre ad aver ricoperto la carica di Ministro degli Esteri e di Primo Ministro, è il teorico della dottrina di politica estera che ha caratterizzato le scelte dell’Akp e che ha portato la Turchia nell’attuale situazione. Stiamo parlando di Ahmet Davutoglu.
Tra i traditori della nazione, gli appartenenti alla struttura “parallela” sono quelli più attaccati e perseguitati. Il termine parallelo si riferisce al movimento Hizmet del famoso predicatore Fetullah Gulen, il quale risulta essere a capo della più grossa confraternita islamica della Turchia. L’influenza di questo movimento va molto oltre la predicazione: ha rappresentato per molti anni e continua a rappresentare un importante veicolo di influenza nelle istituzioni repubblicane turche.
Quando l’Akp è arrivato al potere nel 2002 ha dovuto affrontare un’impostazione ideologica, figlia del kemalismo, che impediva al nuovo partito qualsiasi tipo di influenza sull’apparato burocratico e sulle Forze armate. Il partito da solo non sarebbe mai potuto riuscire a scalfire questo blocco ideologico e far penetrare le proprie idee e le proprie pratiche nel sistema turco senza l’alleanza con il movimento di Gulen. 
Quest’ultimo è a capo di una confraternita che, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha permesso a fette sempre più ampie della popolazione di accedere a livelli sociali prima impensabili attraverso il suo sistema educativo, con obiettivo principale quello di crescere una generazione che avrebbe poi potuto governare il paese seguendo le linee guida dell’Islam.
L’aumento numerico progressivo della confraternita ha fatto sì che ci fosse una generale crescita culturale dei sui appartenenti e, di conseguenza, una maggiore assunzione di responsabilità sociale degli stessi, anche grazie alla crescente disponibilità finanziaria.
Questa crescita ha quindi permesso una progressiva infiltrazione dei suoi membri all’interno di quelle istituzioni che prima erano refrattarie al discorso religioso, soprattutto esercito e polizia, ma anche la magistratura. E' stato così che l’Akp ha intravisto la possibilità di un’alleanza di scopo con il movimento Hizmet tale da contrastare dall’interno il crescente malcontento dei kemalisti “puri” che miravano ad impedire con tutti i mezzi l’ascesa politica e sociale dell’Akp e di Erdogan. Quest’alleanza è durata fino al biennio 2011-2012, anni in cui il partito raggiunse un potere tale da non aver bisogno di alleati interni che ne potessero modificare l’ideologia. Gulen, con le spalle al muro, appoggiò la già citata rivolta di Gezi Park nel tentativo di far precipitare il paese nel caos senza però riuscirci. Da allora Erdogan ha lanciato una guerra totale al movimento, accusandolo di aver creato uno “Stato Parallelo”. La resa dei conti è avvenuta la notte del 15 luglio scorso quando il sentore di una pesante inchiesta giudiziaria sul movimento ha fatto sì che i militari fedeli al predicatore decidessero di intervenire ed inscenare un colpo di stato, sperando nella risposta popolare, ma fallendo. I militari, infatti, non essendosi mossi in blocco compatto e non trovando sostegno esterno nel golpe, hanno ottenuto l'effetto contrario e il popolo si è ricompattato intorno al suo leader, colui che rappresenta il volere della nazione, Erdogan appunto.
L’islam è quindi una parte fondamentale della filosofia politica di Erdogan, ma l’islamismo è solo una sua sfaccettatura e nemmeno la sua principale. La sua scelta di utilizzare una forma di Islam che si potesse adattare facilmente al contesto turco è stata scintillante perché l’islamismo di Erdogan non è mai stato una necessità, ma una vera e propria scelta politica e culturale. L’islam turco non ha origine nella politica del Presidente ma nel suo retroterra culturale e cioè dal mondo delle confraternite, le vere responsabili della re-islamizzazione delle masse turche, così come delle elites, come dimostra il movimento di Gulen.
Lo sdoganamento dell’Islam nel discorso pubblico, e quindi anche in politica, lo si deve all’idea del Milli Gorus di Nemcettin Erbakan, cioè dall’idea che l’Islam o è politico o non è Islam.
Questo tipo di discorso ha attecchito in Turchia perché lo Stato in sé, e la popolazione di conseguenza, non sono mai stati pienamente laici. Nonostante la rottura storica con l’Impero Ottomano, con Sultanato e Califfato annessi, lo Stato turco non ha mai rinnegato l’Islam ma, anzi, lo ha sempre usato a proprio favore.
La popolazione turca non ha mai temuto l’avanzare dell’Islam politico dell’Akp perché sostanzialmente è stata percepita come un’azione liberatrice, che ha donato una dimensione pubblica ad una pratica che da sempre è stata esclusivamente privata ed intima. E’ stata, in tutti i sensi, una riappropriazione della dimensione fondamentale della propria identità mussulmana. Ed Erdogan, l’uomo della nazione, ne è stato la voce, riuscendo a trasformare un’idea radicale in una serie di pratiche e discorsi che egli stesso gestisce in maniera paternalistica. Ma nulla di tutto ciò toglie che Erdogan sia un idealista radicale che sogna di essere incoronato leader del mondo mussulmano. E tutte queste scelte non hanno fatto altro che polarizzare maggiormente il paese.L’islamismo di Erdogan è strettamente collegato ad un concetto che scalda i cuori dei suoi più ferventi sostenitori e ammiratori: l’ottomanismo, cioè tutta quella serie di miti e riti che mirano a rivivere i fasti dell’Impero Ottomano come potenza islamica. Le scellerate scelte nella politica estera degli ultimi dieci anni ne sono la testimonianza lampante. Resta il fatto che l’uomo della nazione deve essere il perno e il faro di questo nuovo progetto che punta a fare “la Turchia di nuovo grande” (…).
Guardandolo così sembra che l’Erdoganismo faccia parte di quella vasta gamma di autoritarismi che vanno dal Peronismo al Puntinismo. Di fatto Erdogan da anni governa una democrazia illiberale dove avvengono elezioni più o meno libere ma dove i valori liberali languiscono e piano piano decadono. Ma qual’è il futuro dell’Erdoganismo e della Turchia? Non ci sono dubbi che sia ormai un regime presidenziale con un parlamento totalmente asservito, manca solo una formalizzazione ufficiale come regime.
Ma fino dove può spingersi appunto? Parliamo di un politico esperto, di 62 anni, che gode di buona salute, fatto che gli potrebbe permettere di rimanere al timone e al centro della politica turca per altri vent’anni. Tutto quello che gli serve per farlo è il sostegno popolare che al momento non gli difetta per certo. 
Vedremo sempre più giornali chiusi e giornalisti in carcere, vedremo repressione militare del dissenso e la continuazione del sanguinoso conflitto in Kurdistan con il Pkk che gli permetterà di mantenere costante lo stato di emergenza. Vedremo cosa succederà il 16 aprile con il Referendum sul presidenzialismo - un referendum che sta passando abbastanza nel silenzio -, con Erdogan sempre in prima pagina o in tv e i suoi oppositori politici sempre in prigione - un referendum per scegliere tra la democrazia e la dittatura di Erdogan.
Sta nascendo una Nuova Turchia ma non sarà proprio come quella che il Sultano del Levante aveva promesso.

Fonte: globalproject.info 

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