La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 13 febbraio 2016

Leggere la televisione, vedere la storia


Intervista a Vanessa Roghi e Damiano Garofalo di Gianluca Pulsoni
Con la televisione forse vale quello che qualcuno ha cantato a proposito della storia: la televisione siamo noi. Al di là del singolo programma, come invenzione e parte di un «ambiente mediale» la televisione è stata spesso letta come oggetto di studio tra i più interessanti perché in grado di coinvolgere più aspetti della vita quotidiana. Rubbettino ha da poco pubblicato Televisione. Storia, immaginario, memoria, a cura di Damiano Garofalo e Vanessa Roghi. Si tratta di un contributo sullo studio e comprensione della televisione italiana da parte di autori, fra questi gli stessi curatori, provenienti da ambiti diversi.
Ora, la lettura del libro offre l’occasione di individuare alcuni aspetti meritevoli di approfondimento, dalla bibliografia sull’argomento ai temi specifici presenti, dalle possibilità di interpretazioni altre sulla base di studi pionieristici passati a uno sguardo sulla riforma Rai. Per questo abbiamo incontrato gli stessi curatori: Roghi, autrice di documentari di storia per Rai3 e docente a La Sapienza, e Garofalo, docente di Teorie e tecniche del linguaggio radiotelevisivo al Dams di Padova.
Come si colloca il vostro libro nel «panorama» degli studi sulla televisione?
"Innanzitutto dobbiamo specificare che il «nostro» libro è in realtà una raccolta di saggi. Dunque «nostro» nel senso che abbiamo scelto alcuni studiosi e studiose e abbiamo chiesto loro di intervenire su alcuni aspetti relativi alla storia della televisione. La scelta di una curatela invece che di un volume non è stata però dettata dal caso: il primo dato che colpisce volendo affrontare lo studio della televisione in una nuova prospettiva storiografica è la frammentarietà degli studi a lei dedicati. Con questo volume abbiamo cercato di mettere insieme il meglio che gli studi sulla televisione offrono a prescindere dagli ambiti accademici di riferimento dei singoli autori. Quello che è emerso è una ricognizione sullo stato dell’arte: nelle tre sezioni — storia, immaginario e memoria — abbiamo fatto il punto su diverse periodizzazioni della storia della tv non legate alla storia politica come si è sempre fatto, indagato sull’immaginario prodotto dai programmi, ragionato sul rapporto fra pubblico, ricezione e memorie. Crediamo che questo approccio pluridiscilpinare sia davvero riuscito."
Vanessa, nel tuo saggio analizzi due programmi televisivi «storici», «Nascita di una dittatura» e «De Felice Mack Smith: polemica sul fascismo», e tocchi un tema che poi affiora in qualche modo in altri saggi del libro, la memoria condivisa della storia italiana attraverso la televisione. Mi piacerebbe un approfondimento in merito.
"Quella sulla memoria condivisa è una delle retoriche più fastidiose degli ultimi decenni. Retorica nata in seno al dibattito politico, ripresa dalla stampa, trasformata in legge della Repubblica come nel caso della giornata della memoria delle Foibe o delle vittime del terrorismo, due ricorrenze che scimmiottano la ben altrimenti importante giornata del 27 gennaio. La memoria condivisa è un’invenzione bella e buona e certo è stata anche la tv a diffondere l’idea che dovesse esistere un unico punto di vista sulla recente storia italiana che superasse ogni conflitto soprattutto in talk show che hanno usato la storia per fini pubblici. Eppure non è andata sempre così: i programmi che citi e di cui ho parlato nel mio saggio sono due esempi di come la tv pubblica abbia saputo affrontare in modo complesso e niente affatto banale temi laceranti per la storia d’Italia come il fascismo e la sua memoria senza per questo pretendere che gli italiani avessero la stessa sui fatti narrati. La tv è stata spesso e per fortuna il luogo nel quale memorie diverse hanno potuto confrontarsi, Zavoli in questo senso è stato un maestro e non c’è stato solo lui. Ma la tv pubblica, la Rai, è stata anche il luogo nel quale si sono contrapposte diverse visioni della storia: il programma che mise a confronto Renzo De Felice e Denis Mack Smith è solo uno dei tanti che hanno contribuito a portare in tv il dibattito storiografico. Oggi la tv pubblica continua a farlo, anche se potrebbe (potremmo) fare molto di più, per esempio valorizzando meglio le teche sul modello della BBC/BFI o dell’INA francese."
Alla fine del tuo saggio citi «Media Events» di Dayan e Katz, forse uno dei pochi esempi noti di integrazione teorica riuscita tra antropologia, media e storia – l’idea di «evento mediatico» è tra l’altro qualcosa forse già sperimentato dal cinema, si veda la Rivoluzione francese in diretta tv de «La Commune (Paris, 1871)» di Peter Watkins (2000). Secondo te ci sono possibilità che questa ricerca di Dayan e Katz possa essere applicata con successo a futuri studi sui media italiani? Se si, in che modo?
"Ci sono diversi studiosi italiani che a partire da una riflessione sul concetto di evento mediale si sono spinti a ripensare e mettere in crisi ciò che il pensiero postmoderno aveva definito in modo normativo. Per esempio Ruggero Eugeni alla Cattolica di Milano sta conducendo una riflessione che vale la pena di seguire. Così il gruppo che ruota intorno al blog Il lavoro culturale, che sul nesso visibile/evento lavora da tempo. Confidiamo su di loro (e su di noi) per un contributo sempre più articolato su questi temi."
Damiano, gli studi storici sulla televisione hanno tradizionalmente privilegiato la produzione e solo una certa storia culturale. Nel tuo saggio citi Jonathan Rose e il suo importante studio su cultura e classi lavoratrici inglesi. Come si collega la tua prospettiva di ricerca agli studi in relazione al pubblico?
"In realtà l’attenzione nei confronti del pubblico sarebbe stata una prerogativa di uno sguardo culturale sulla storia della televisione, che è quello che secondo noi è effettivamente mancato nella storiografia italiana. Questa, piuttosto, si è concentrata maggiormente sugli aspetti istituzionali, connessi cioè alla storia politica e aziendale, oppure su una prospettiva meramente testuale – tipo l’analisi dei programmi. Quello che abbiamo tentato di fare con questo libro è stato integrare queste due prospettive con uno sguardo storico sui contesti di ricezione, su chi ha fruito e consumato questi testi nella storia, dedicando una sezione specifica alle memorie dei pubblici televisivi. In questo senso gli studi culturali britannici hanno tracciato le linee guida di questa prospettiva di ricerca «dal basso», che potremmo definire gramsciana, già a partire dagli anni settanta, sovvertendo la tradizionale idea, di matrice francofortiana, di un pubblico passivo come massa indistinta."
Vanessa, da autrice di documentari televisivi e docente vorrei chiederti una tua sulla riforma del servizio pubblico.
"Vorrei citare Flavia Barca che recentemente ha scritto: «La mancanza di un’industria dell’immaginario solida è un grosso danno non solo per gli addetti del comparto: ha forti ripercussioni anche su tutta la filiera dell’immaginario e, soprattutto, sulla valorizzazione dei nostri asset culturali materiali e immateriali. Il patrimonio culturale nazionale perde in questo modo un’ennesima chance: non solo stenta a sopravvivere a fronte dei pochi strumenti di tutela, e a farsi driver di crescita – a fronte di progetti di valorizzazione che solo oggi iniziano a rientrare in una strategia pubblica – ma non gode neanche di sufficienti veicoli di racconto e promozione, in patria e all’estero. E quel poco, pochissimo, di cultura italiana che si vede in video è prodotta dal mercato anglosassone, dalle serie americane su Roma ai documentari britannici su Pompei». Quello che dice Barca è centrale: sul ruolo dell’immaginario e degli immaginari in una prospettiva storica il nostro libro insiste molto. Avere coscienza del lungo periodo è fondamentale per chi ragiona oggi sulla funzione pubblica del servizio radiotelevisivo. Come ha scritto Carlo Freccero, la tv deve esercitare il capitale intellettuale dei suoi spettatori, la loro intelligenza. E questo non significa una nuova tv pedagogica, ma una tv più consapevole sì."

Fonte: il manifesto 

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