La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 13 febbraio 2016

Confini di classe nella società della conoscenza

Intervista a Stephane Beaud, Fabien Truong e Paul Pasquali a cura di Carlotta Benvegnù, Simona De Simoni e Davide Gallo Lassere
Da diversi anni siete impegnati in un lavoro di ricerca finalizzato a comprendere le trasformazioni sociali che hanno interessato le aree urbane – e in particolare le periferie – a partire dal processo di de-industrializzazione sino ai giorni nostri. Per cominciare, ci piacerebbe fare una panoramica temporale di queste trasformazioni.
Stephane Beaud: Indubbiamente ogni ragionamento deve prendere le mosse dalle trasformazioni economiche che hanno colpito la Francia (la progressiva chiusura delle fabbriche) e dal profondo disastro generato dal capitalismo finanziario che ha contribuito a sprofondare le classi popolari in una grave crisi sociale e morale. Non bisogna dimenticare questo elemento fondamentale: la disoccupazione di massa! Si è radicata in maniera duratura in Francia, e colpisce in primo luogo le giovani generazioni delle classi subalterne. Krasucki, segretario della CGT, ha detto: “non esiste uno strumento di coercizione in mano alle classi dirigenti più violento che la disoccupazione. Nessuno strumento repressivo fisico, alcun reparto di polizia che manganella, lancia granate, nessun mezzo è tanto potente contro la volontà di affermare la propria dignità”…
Fabien Truong: Oggi, è importante dirlo, siamo ad un bivio. La questione centrale è quale futuro si prospetta per l”“esercito di riserva” in un mondo post-fordista. Qual è lo spazio che rimane, e soprattutto, che lasceremo, alle classi popolari e ai loro figli in un paese che desidera convertirsi all’ “economia della conoscenza”, che svalorizza il lavoro manuale e mette al primo posto il conseguimento di un “diploma”.
Paul Pasquali: Sì, siamo certamente in una fase in cui le classi popolari hanno perso la coesione sociale e il ruolo politico che avevano in passato, ma non bisogna scordarsi di due cambiamenti principali che hanno portato a un’intensificazione delle logiche di classe in Francia. Da un lato, la segregazione urbana che ha subito un’accelerazione senza precedenti durante gli ultimi quindici anni, cosicché certe aree urbane un tempo diversificate, miste, da un punto di vista della composizione sociale, sono state sostituite da quartieri non solo più omogenei (socialmente e etnicamente) ma anche “corrose” dall’interno da forme di micro-segregazione basate sullo status economico (avere un lavoro a tempo indeterminato o meno, vivere o meno grazie ai sussidi dello stato, e così via). D’altra parte, l’acuirsi della crisi economica e della competizione scolastica hanno avuto l’effetto di ridurre al minimo le possibilità di emancipazione sociale per le ultime generazioni dei figli delle classi popolari, anche per coloro che ottengono buoni risultati scolastici. Oramai, solo una minoranza di questi riesce ad accedere agli studi superiori, e ancora meno alle cosiddette “formazioni d’élite”. Queste frontiere di classe, urbane e scolastiche, stanno giocando un ruolo determinante nell’emergenza di forme di settarismo religioso e nella fuga in avanti che costituisce il ricorso alla violenza, nelle sue diverse forme…
Nelle vostre ricerche avete evidenziato come, a partire dalla metà degli anni Ottanta (ormai in pieno regime post-fordista), si sia passati da un’integrazione tramite salario ad un’assimilazione mediata da una molteplicità di fattori (o dispositivi) tra cui, in primis, la scuola. Lo slogan “80% d’une génération au bac” ben rappresenta la promessa sociale di un’epoca di cui, nel vostro lavoro, avete mostrato i limiti effettivi. Potete approfondire questo passaggio in, cui, così ci pare, vada individuato uno snodo fondamentale.
SB: In Francia il destino professionale e sociale degli individui è ancora profondamente legato al livello e al tipo di diploma conseguito. Il fatto di non poter accedere a un certo tipo di maturità e, per fare solo un esempio, di essere indirizzati verso una formazione breve e professionale è per molti una fonte di sofferenza. Ed è vissuto da molti giovani come una sconfitta che vi assegna in maniera precoce un destino subalterno nella società. Nessuna prospettiva per i vinti del sistema scolastico francese.
Questa produzione precoce della gerarchia dei destini scolastici, e quindi sociali, degli individui, resta un tratto fondamentale nella nostra società, nella quale le élites hanno da sempre tendenza a guardare “verso l’alto”, ignorando ciò che avviene nei luoghi della segregazione scolastica e sociale.
FT: Certo, tuttavia rispetto agli anni 1990, in materia di percorsi scolastici, non siamo più in un contesto di “delusione”, ma piuttosto di una sorta di “pragmatismo disilluso”. Gli studenti delle classi popolari infatti hanno oggi molte più risorse e strumenti rispetto a quindici anni fa: i fratelli e le sorelle maggiori hanno già sondato il terreno prima di loro, conoscono i codici, alcuni micro-strumenti esistono per aiutare coloro che sono in grado di riappropriarsene, e le famiglie sono più attente alla questione scolastica. Allo stesso tempo però, dal 2005, lo sguardo sociale su questi giovani si è indurito e i segni delle “origini” sono molto più difficili da portare, tra disprezzo di classe, stigma territoriale, razzismo, e islamofobia. Così, trovare una collocazione nell’universo degli studi superiori diventa sempre più difficile, nonostante questo bagaglio di esperienza collettiva. La conseguenza: sempre più giovani sono attratti dalle formazioni private che, nonostante i prezzi esorbitanti, appaiono come un’ancora di salvezza. Si aggiunga a questo la frammentazione del sistema di insegnamento superiore in Francia, che individualizza le esperienze, continuando a dividere e classificare.
PP: Non dimentichiamo ciò che si nasconde dietro a questo obbiettivo del 80% alla maturità: tra coloro che raggiungono un diploma superiore, solo una minoranza ottiene un diploma “generale” sinonimo di lavoro stabile e di protezione dalla precarietà. Se si guarda la parte di studenti che hanno conseguito un diploma scientifico, il più prestigioso e redditizio in Francia, poiché permette di accedere alle filiere d’élite, la percentuale è vicina a quella degli anni 50-60, epoca in cui la maturità era un privilegio per pochi eletti…
A partire dalle vostre riflessioni emerge un elemento importante che aiuta a decostruire un’immagine stereotipata delle banlieue come spazio marginale, marginalizzato e marginalizzante, al di fuori del tempo e della storia. Come avete mostrato, infatti, la storia delle banlieue è una storia sociale complessa che presenta delle differenze importanti da una generazione all’altra. In questo quadro, potete illustrare gli aspetti che, secondo voi, caratterizzano la fase attuale, quella segnata dalle rivolte del 2005, dalla crisi economica e dalla “radicalizzazione islamica”?
FT: A grandi linee, vi sono due modi di percepire “la banlieue”. Un approccio culturalista dominante dove appare come una sorta di anti-Francia, con il discorso pigro dell’identità che agita dei fantasmi sociali. Al contrario, esiste un approccio storico e relazionale che si interroga sui rapporti quotidiani tra “la banlieue” e “l’esterno” e sul modo in cui questo rapporto si esprime politicamente. “La sinistra” e i “banlieusards” stanno vivendo da quindici anni almeno un lungo divorzio. Le rivolte del 2005, sono l’espressione giovanile, soprattutto dei giovani non diplomati, di un’indicibile “rabbia” malcelata, di un’esasperazione generalizzata che si è cristallizzata attorno a delle relazioni tese e sovente molto dure tra la polizia e la gioventù. Si è trattato, a suo modo, di una rivolta politica di tipo molto particolare: senza porta-parola, di una generazione che si è sentita truffata dal personale politico.
PP: Ciò detto, bisogna fare attenzione a non considerare la Francia come un blocco omogeneo. Come l’Italia, le situazioni variano da regione a regione, in funzione dei contesti sociali locali e delle storie regionali. Per esempio, le rivolte delle banlieue del 2005 non hanno avuto alcun impatto a Marsiglia, città nella quale altri tipi di violenza sono all’ordine del giorno, ma dove la coesistenza di gruppi etnici diversi è relativamente pacifica. Al contrario, in questa città come altrove, vi è chiaramente un fenomeno strutturale che permane nelle diverse fasi: la marginalizzazione materiale e simbolica delle classi popolari e il razzismo ordinario come “destino comune” dei gruppi dominati delle nostre società.
SB: A tal proposito, si può e si deve porre un legame tra la marginalizzazione sociale delle banlieue e la nuova offerta religiosa delle differenti correnti dell’Islam. Facendo bene attenzione anche qui a non omogeneizzare il gruppo dei cosiddetti “Musulmani”. Da un lato, i giovani di banlieue più “disagiati” (senza diploma, senza capitale relazionale, e anche senza vita amorosa) possono trovare delle forme di consolazione/redenzione nella via della radicalizzazione. Dall’altro, una frazione in apparenza in crescita del gruppo maggiormente dominato sta intensificando la propria pratica ostentatoria dell’islam (e la stessa constatazione può valere per il giudaismo o il cattolicesimo in altri quartieri delle grandi città), come se si trattasse di una sorta di distinzione politica capace di restituire dignità sociale. Ci potremmo spingere fino a dire che questi giovani francesi passano dall’islam per sentirsi legittimati, e più sovente per sentirsi “francesi” piuttosto che… “islamisti”!
Seguendo questo ragionamento, si può affermare che la questione sociale sia un elemento insuperabile – se pur, ovviamente, non sufficiente – per la comprensione degli eventi del 13 novembre e di ciò che ne è seguito. Come farne allora un terreno di analisi politica senza cascare nella trappola delle generalizzazioni, le quali, inevitabilmente, rischiano di creare una stigmatizzazione e criminalizzazione preventiva dei “giovani” dei quartieri popolari?
FT: Facendo attenzione a ciò che dicono le inchieste empiriche e articolando un discorso ponderato e contestualizzato. Il fantasma totalitario dei terroristi è quello di un mondo senza problemi in quanto senza sfumature; evitiamo dunque di cadere collettivamente in tale trappola. Per esempio, la pratica dell’islam presso i giovani è plastica e differenziata: dipende dalle traiettorie e dalle configurazioni ed è relativa, come per le altre religioni, a una sorta di bricolage molto contemporaneo. I terroristi che minacciano la Francia non sono il prodotto della banlieue ma di una storia francese nella quale la banlieue è un sintomo prima di essere un problema. L’islam svolge un ruolo cosmetico in questa vicenda e bisogna distinguere accuratamente la questione dell’intolleranza religiosa e quella del terrorismo. Su quest’ultima questione, nella tentazione della Jihad vi sono degli elementi generazionali che oltrepassano le separazioni tra classi e degli elementi legati a una violenza di classe che non si è per nulla attenuata da dieci anni a questa parte. Sono i prodotti di una storia collettiva. La sfida consiste nella nostra capacità di pensarla collettivamente.
PP: Bisognerebbe che i sociologi intervenissero maggiormente nello spazio pubblico per disfare le semplificazioni sicuritarie che circolano liberamente in seguito ad eventi drammatici come questi attentati: da una parte, si dovrebbero ricordare sistematicamente gli effetti delle politiche d’austerità sulle condizioni d’esistenza dei quartieri nei quali il settarismo religioso pare trovare le proprie origini; per altro verso, sarebbe utile ribadire l’importanza capitale del sapere empirico e del dibattito argomentato come strumento di liberazione individuale e collettiva. L’insegnamento obbligatorio delle scienze sociali a partire dalle medie inferiori costituirebbe una prima risposta per aiutare i cittadini, qualsiasi cittadino, a ragionare con lucidità…
SB: Sono d’accordo con tutto quanto è appena stato detto. Ciò che è più drammatico, secondo me, è la pigrizia intellettuale del Partito Socialista (Parti Socialiste): il ripiegamento nel loro proprio mondo da parte dei professionisti della politica, il loro rifiuto di vedere il mondo per quello che è, la loro ossessione dei sondaggi a breve termine, il loro rifiuto patetico di prendere in considerazione i risultati dei lavori delle scienze sociali. Che un primo ministro “socialista” squalifichi, dopo gli attentati del 13 novembre, la ricerca sociologica con questo ritornello delle “scuse sociologiche” è penoso e rivela la mediocrità del personaggio, così come il fallimento di un modo di fare politica che pretende illusoriamente di superare le divisioni politiche.

Fonte: Effimera

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