La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 25 marzo 2016

Bernie Sanders: il Medio Oriente. Parte prima

di Bernie Sanders
Sono stato invitato a essere presente alla Conferenza dell’AIPAC a Washington, insieme ad altri candidati alla presidenza, ma ovviamente non sono potuto andare perché siamo qui. I problemi di cui si sta occupando l’AIPAC, sono molto importanti e voglio fare qui lo stesso discorso che avrei fatto se fossimo stati a quella conferenza. Permettetemi di cominciare dicendo che penso che sono probabilmente l’unico candidato alla presidenza che ha legami personali con Israele. Vi ho passato molti mesi in un kibbutz, quando ero giovane e quindi conosco un poco Israele.
Chiaramente, gli Stati Uniti e Israele sono uniti da vincoli storici. Siamo uniti dalla Cultura. Siamo uniti dai nostri valori, compreso un profondo impegno nei principi democratici, nei diritti civili, e nello stato di diritto. Israele è uno dei più stretti alleati dell’America, e noi – come nazione – siamo impegnati non soltanto a garantire la sopravvivenza di Israele, ma anche a verificare che la sua gente abbia il diritto a vivere in pace e in sicurezza.
Secondo me, in quanto amici – amici di lunga data di Israele – siamo obbligati a dire la verità come la vediamo. Questo richiede la vera amicizia, specialmente in tempi difficili.
I nostri disaccordi andranno e verranno, e dobbiamo superarli in maniera costruttiva. Ma, tra amici, è importante essere onesti e sinceri circa le differenze che possiamo avere.
L’America e Israele hanno affrontato insieme grandi sfide. Ci siamo aiutati reciprocamente e continueremo a farlo proprio quando affronteremo una sfida molto spaventosa: il conflitto israelo-palestinese.
Sono qui per dire al popolo americano che, se sarò eletto presidente, lavorerò instancabilmente per portare avanti la causa della pace come partner e amico di Israele.
Per riuscirci, però, dobbiamo essere anche amici non soltanto di Israele, ma anche del popolo palestinese, ora che ha Gaza la disoccupazione è al 44% e il tasso di povertà è quasi altrettanto alto.
Quindi, quando parliamo delle zone di Israele e della Palestina, è importante comprendere che oggi c’è molto al riguardo tra i palestinesi e questo non può essere ignorato. Non si può avere una buona politica che abbia come risultato la pace, se si ignora una parte.
La strada verso la pace sarà difficile. Gente meravigliosa, gente con buone intenzioni ha tentato decennio dopo decennio di ottenerla e non sarà facile. Non so dirvi esattamente come sarà – non credo che qualcuno possa dirlo – ma credo fermamente che l’unica prospettiva di pace sia la trattativa di successo per una soluzione dei due stati.
Il primo passo sulla strada che abbiamo davanti sia di gettare le basi per riprendere il processo di pace per mezzo di negoziati diretti.
Non si fanno mai progressi a meno che le persone non siano preparate a sedersi e a parlare insieme. Non è una cosa da poco. Significa costruire fiducia da entrambe le parti, offrendo dei degni di buona fede, e poi procedere ai colloqui quando le condizioni permettono loro di essere costruttivi. Ripeto, non è facile, ma è la direzione che dobbiamo seguire.
Questo richiederà compromessi da entrambe la parti, ma credo che si possa fare. Credo che Israele, i palestinesi e la comunità internazionale possono, devono e saranno all’altezza e faranno ciò che va fatto per raggiungere una pace durevole in una regione del mondo che ha visto così tanta guerra, così tanta lotta e così tanta sofferenza.
La pace richiederà il riconoscimento incondizionato da parte di tutti del diritto di Israele a esistere. Richiederà la fine degli attacchi di ogni genere contro Israele.
La pace richiederà che organizzazioni come Hamas ed Hezbollah rinuncino ai loro tentativi di minare la sicurezza di Israele. Sarà necessaria che il mondo intero riconosca Israele.
La pace deve significare sicurezza dalla violenza e dal terrorismo per ogni israeliano.
La pace, però, significa sicurezza per ogni palestinese. Significa ottenere auto-determinazione, diritti civili e benessere economico per il popolo palestinese.
La pace significherà mettere fine all’occupazione del territorio palestinese, stabilendo confini sui quali ci sia un accordo comune, e ritirare gli insediamenti in Cisgiordania, proprio come Israele ha fatto Gaza – che una volta era considerata una mossa impensabile da parte di Israele.
Questo è il motivo per cui mi unisco a gran parte della comunità internazionale, compreso il Dipartimento di Stato americano e l’Unione Europea nell’esprimere la mia preoccupazione che la recente espropriazione da parte di Israele di altri 579 acri di terra in Cisgiordania, indebolisce il processo di pace e, fondamentalmente, anche la sicurezza di Israele.
E’ assurdo che degli elementi all’interno dell’governo di Netanyahu suggeriscano che costruire altri insediamenti in Cisgiordania sia la risposta immediata da dare alle più recenti violenze. Non è neanche accettabile che il governo di Netanyahu abbia deciso di tenersi centinaia di milioni di Shekel di entrate fiscali avute dai palestinesi che si suppone raccolga a loro nome.
Allo stesso modo, però, è inaccettabile che anche il Presidente Abbas chieda l’abrogazione dell’Accordo di Oslo mentre lo scopo dovrebbe essere quello di porre fine alla violenza.
La pace significherà anche mettere fine al blocco economico di Gaza. E significherà una distribuzione sostenibile ed equa di preziose risorse idriche in modo che Israele e la Palestina possano entrambi prosperare come vicini. Proprio adesso Israele controlla l’80% delle riserve idriche in Cisgiordania. Un’inadeguata fornitura di acqua ha contribuito al degrado e alla desertificazione della terra palestinese. Una pace durevole dovrà riconoscere che i palestinesi hanno il diritto di controllare la loro vita, e non c’è nulla di cui la vita umana abbia più bisogno che l’acqua.
La pace richiederà che entrambe le parti aderiscano ai fondamenti della legge umanitaria internazionale. Questo comprende il fatto che Israele metta fine alla sue reazioni sproporzionate a quando viene attaccato – anche se qualsiasi attacco a Israele è inaccettabile.
Di recente abbiamo visto un esempio drammatico di quanto sia importante questo concetto. Nel 2014, il conflitto che durava da decenni è aumentato ancora una volta quando Israele ha dato il via una grande campagna militare contro Hamas nella Striscia di Gaza. L’offensiva israeliana è arrivata dopo settimane di lancio indiscriminato di missili nel suo territorio e di rapimenti di cittadini israeliani.
Naturalmente io mi oppongo fortemente alla posizione tenuta da lungo tempo da Hamas che Israele non ha il diritto di esistere – è inaccettabile. Naturalmente condanno energicamente il lancio indiscriminato di razzi nel territorio israeliano, e l’uso di quartieri con civili per lanciare quegli attacchi. Condanno il fatto che Hamas abbia dirottato finanziamenti e materiali destinati a progetti molto necessari, designati a migliorare la qualità di vita dei palestinesi e che abbia usato tali fondi per costruire una rete di tunnel per scopi militari.
Permettetemi, tuttavia, di essere molto chiaro: io, insieme a molti sostenitori di Israele abbiamo energicamente contro i contrattacchi di Israele che uccisero 1500 civili e ne ferirono altre migliaia. Ho condannato i bombardamenti degli ospedali, delle scuole e dei campi profughi.
Oggi Gaza è in gran parte in rovine. La comunità internazionale deve unirsi per aiutare Gaza a guarire. Questo non significa ricostruire le fabbriche che producono bombe e missili – ma significa ricostruire scuole, case e ospedali che sono fondamentali per il futuro del popolo palestinese.
Questi sono argomenti difficili dei quali è arduo parlare sia per molti americani che per gli israeliani. Riconosco che il sentiero verso la pace richiederà entrare nella nostra comune umanità per prendere decisioni difficili ma giuste.

Nessuno è in grado di dirci quando si raggiungerà la pace tra Israele e i palestinesi. Nessuno conosce l’esatto ordine in cui quei compromessi dovranno essere fatti per raggiungere una fattibile soluzione con due stati. Ma dato che intraprendiamo insieme questa opera, gli Stati Uniti continueranno il loro impegno risoluto per la salvezza dei cittadini israeliani e per la nazione di Israele.
Permettete che dica una parola sull’agenda totale per il Medio Oriente. Naturalmente, oltre il problema palestinese, Israele si trova nel mezzo di una regione dove ci sono gravi disordini. Per prima cosa, il cosiddetto Stato Islamico –ISIS – minaccia la sicurezza dell’intera regione e oltre, compreso il nostro stesso paese e i nostri alleati. Il Segretario di Stato
Kerry aveva ragione di dire che l’ISIS sta commettendo un genocidio e non c’è alcun dubbio nella mia mente che gli Stati Uniti debbano continuare a partecipare a una coalizione internazionale per distruggere questa organizzazione barbara.
Mentre, ovviamente, c’è molto da fare, finora i nostro sforzi hanno fatto qualche importante progresso, dato che gli attacchi aerei hanno umiliato la capacità militare dell’ISIS e il gruppo ha perduto più del 20% del suo territorio lo scorso anno.
Stiamo quindi facendo dei progressi.
Stiamo però entrando in un periodo difficile nella campagna contro l’ISIS.
Il governo di Baghdad deve ancora raggiungere un ordine politico sostenibile che unisca le varie fazioni etniche e delle sette religiose, che ha limitato la sua capacità di sostenere vittorie militari contro l’ISIS. Se non ci sarà un governo unito, sarà difficile essere efficaci nel distruggere l’ISIS.
Una amministrazione più inclusiva e stabile in Iraq sarà fondamentale per infliggere una sconfitta durevole all’ISIS. Altrimenti l’ISIS potrebbe riguadagnare la sua influenza, oppure un’organizzazione analoga potrebbe spuntare al suo posto.
In Siria le sfide sono ancora difficili. La natura spezzata della guerra civile in quel paese, ha spesso affievolito la lotta contro l’ISIS – esemplificata dagli attacchi aerei russi che hanno dato la priorità a colpire i combattenti anti-Assad piuttosto che l’ISIS. E, proprio come in Iraq, l’ISIS non può essere sconfitta fino a quando i gruppi che sottraggono territorio all’ISIS possono governare responsabilmente le aree che si riprendono. In sostanza, questo richiederà una struttura politica per tutta la Siria.
Gli Stati Uniti devono svolgere anche un ruolo maggiore nell’interrompere i finanziamenti per l’ISIS e i tentativi su Internet di trasformare i giovani delusi in una nuova generazione di terroristi.
Mentre gli Stati Uniti hanno un importante ruolo da svolgere nelle sconfitta dell’ISIS, la lotta deve essere guidata dagli stessi paesi musulmani sul terreno. Sono d’accordo con Re Abdullah di Giordania che molti mesi fa ha detto che quello che accade adesso non è altro che una battaglia per l’anima dell’Islam e che le uniche persone che là potranno effettivamente distruggere l’ISIS saranno truppe musulmane.
E quindi quello di cui abbiamo bisogno è una coalizione di quei paesi.
Non sto suggerendo che l’Arabia Saudita o qualsiasi altro stato nella regione invada altri paesi, né che intervenga in maniera unilaterale in conflitti in parte spinti da tensioni settarie.
Quello che dico è che le maggiori potenze della regione – specialmente gli stati del Golfo – devono assumersi maggiore responsabilità per il futuro del Medio Oriente e la sconfitta dell’ISIS.
Voglio dire che un paese come il Qatar che intende spendere fino a 200 miliardi di dollari per ospitare la Coppa del Mondo nel 2022 – il Qatar che è la più ricca nazione del mondo – il Qatar può fare di più per contribuire alla lotta contro l’ISIS. Se sono pronti a spendere 200 miliardi di dollari per un torneo di calcio, allora devono spendere molto di più contro un’organizzazione barbara.
Quello che dico è che anche altri paesi nella regione, come l’Arabia Saudita che ha il quarto più grande bilancio militare del mondo, si deve dedicare più completamente alla distruzione dell’ISIS invece che ad altre avventure militari come quella che sta perseguendo adesso in Yemen.
E tenete bene a mente che, mentre l’ISIS è ovviamente un nemico pericoloso e formidabile, l’ISIS ha soltanto 30.000 combattenti. Quindi, quando chiediamo alle nazioni nella regione di scendere in campo per fare di più contro l’ISIS – nazioni che hanno milioni di uomini e donne sotto le armi – sappiamo che è certamente nelle loro possibilità distruggere l’ISIS.
Ora gli Stati Uniti hanno ogni diritto al mondo di insistere su questi punti. Ricordate – voglio che ognuno lo ricordi – che non molti anni fa furono gli Stati Uniti e le loro truppe che installarono di nuovo la famiglia reale nel Kuwait dopo l’invasione di Saddam Hussein nel 1990. Abbiamo rimesso sul trono queste persone che ora hanno l’obbligo di lavorare con noi e con altri paesi per distruggere l’ISIS.
Alcuni di questi paesi sono straordinariamente ricchi di denaro ricavato dal petrolio o dal gas – queste nazioni ricchissime e potentissime nella regione non possono aspettarsi più che gli Stati Uniti facciano il lavoro per loro. Lo Zio Sam non può e non dovrebbe fare tutto. Non siamo i poliziotti del mondo.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: The Real News
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.