La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 26 marzo 2016

Fare politica (a sinistra) in tempi difficili

di Marco Revelli 
Negli ultimi mesi abbiamo sperimentato che cosa vuol dire fare politica in tempi difficili. 
E temo - sono un gufo, si sa - che a fare politica in tempi difficili dovremo abituarci. 
Quando dico “tempi difficili” non intendo solo quando l’avversario contro cui lottiamo è infinitamente più forte di noi. A questo, in fondo, eravamo abituati: è almeno un quarto di secolo che il rapporto di forze è tremendamente squilibrato. Intendo, piuttosto, quando il quadro politico e sociale – persino culturale, e potremmo dire “antropologico” - in cui ci muoviamo si decompone e si sfarina. Quando il campo in cui si svolge la lotta, e i fronti lungo i quali ci si schiera e si definiscono gli amici e i nemici mutano rapidamente, si spezzano e ricompongono. Quando la nostra stessa comunità rischia di decomporsi e sfarinarsi, i rapporti di fiducia rischiano di logorarsi e spezzarsi, e si stenta a riconoscere gli alleati e i compagni di strada. E si finisce per non riconoscersi più… l’un l’altro!
Questo è uno di quei momenti lì. Quando nemmeno le cose più elementari e semplici – quelle che per decidere di farle non dovrebbero richiedere neppure un minuto di riflessione, che si dovrebbero realizzare in uno schiocco di dita – non si riescono a fare. Quelle che ci dovrebbero portare all’azione d’istinto, a riempire le piazze, a chiamare a raccolta – pensiamo a Idomeni, a Lesbo, a Lampedusa, all’orrore dei morti in mare, alla vergogna dei muri sulla terra -, e che invece si posano leggere sulle coscienze, come vecchie pagine di giornale voltate.
Appena ieri si è chiuso il summit dei 28 Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea. Non più solo l’ennesimo vertice inconcludente. Un’ipocrisia e un’infamia conclamate. “Un ulteriore passo verso l’abisso della disumanità”, come l’ha definito la direttrice di Oxfam Italia. Una finzione, “inattuabile” nelle procedure previste sulla carta per non incorrere nell’accusa di violazione dei diritti umani, che comporterà di fatto la deportazione per decine di migliaia di profughi dalla Grecia alla Turchia – uno dei peggiori regimi, feroce e dispotico, a cui sono regalati i miliardi di euro che a luglio dello scorso anno erano stati negati alla Grecia coll’acqua alla gola… Sancirà la chiusura della “rotta balcanica”. Segnerà la vittoria degli innalzatori di muri e di barriere di filo spinato. Slovacchia e Ungheria hanno già messo nero su bianco che non accetteranno le quote previste. Molti altri non lo scrivono ma lo pensano. E lo faranno.
Intanto l’Europa che chiude i propri confini e sigilla le proprie frontiere, in silenzio, sotto traccia, come si fa per le pratiche inconfessabili, prepara la guerra. La Libia è scomparsa dalle prime pagine dei giornali ma non dalle note riservate delle Cancellerie, e prima o poi si andrà lì, a sparare. Senza progetti strategici, senza sapere cosa si troverà e come se ne potrà uscire, senza un vero coordinamento di forze- anzi ognuno gioca già la propria partita per sé -, con i peggiori alleati che si possa immaginare, Arabia Saudita, Quatar – i foraggiatori dell’Isis che si dice di voler combattere - e quello stesso Al Sisi il cui regime ha torturato e assassinato il nostro Giulio Regeni… Si andrà, per sigillare un’altra frontiera. Per stendere altro filo spinato contro la marea di disperati che sale da sud. Ripristinando fuori tempo lo stile coloniale che ha prodotto le catastrofi del Novecento, tirando nuove linee sulla sabbia, vaneggiando di futuri Protettorati.
Questo è il contesto nel quale siamo entrati, quasi senza accorgercene, nell’ultima fase. E in cui s’inquadrano le nostre vicende, i nostri progetti, le nostre difficoltà (e anche, diciamolo, le nostre miserie). Un passaggio da quella che Gramsci avrebbe chiamato una “guerra di posizione” – in cui si confrontano blocchi ancora strutturati (neoliberismo contro resistenza sociale), forme organizzate (Stati, Partiti) ancora relativamente stabili in lotta per l’egemonia – a una situazione da “lotta manovrata” o “di movimento”, in cui le egemonie – tutte! – si sfaldano, e – appunto – i fronti si frammentano, diventano a geometria variabile, mutano repentinamente lungo linee rapide di crisi. Così è, con tutta evidenza, per l’Italia – su cui vorrei tornare tra poco -, ma così è anche, e forse soprattutto, per l’Europa – che noi abbiamo assunto, giustamente, come spazio politico prioritario e privilegiato di riferimento, e dove la “crisi di egemonia” è ogni giorno più evidente.
I risultati delle recenti elezioni amministrative in tre lander tedeschi – Baden-Württemberg, Sassonia e Renania-Palatinato, 13 milioni di elettori – ci dicono che nel Paese che è stato finora, a tutti gli effetti, il baricentro dell’architettura europea qualcosa si è spezzato. Finora in Germania – forse ultima tra i paesi europei – resisteva un relativo controllo delle èlites politiche e culturali sui sentimenti popolari. Una sorta di egemonia dei gruppi dirigenti democratico-cristiano e social-democratico (e delle rispettive culture, in qualche modo “politicamente corrette”). Il successo – senza precedenti nel dopoguerra – di Alternative fur Deutschland, formazione bifronte, ultraliberista ma colta a ovest, virulentemente populista e xenofoba a est (che ha preso il 24% in Sassonia e il 15% nel Baden-Württemberg…), mostra che quella capacità di controllo è saltata. Che l’onda populista anche lì ha travolto le élites (o le oligarchie) politiche. La parola prevalente, nei commenti sulla stampa tedesca, è Wut, che in tedesco vuol dire “rabbia”. E Wutbürger, cioè “cittadino arrabbiato”. E Wutdenker o “filosofo della rabbia”, qual è appunto l’ideologo di Afd. La Merkel ha perso le elezioni in casa, sull’onda lunga dei fatti di Colonia, e del default della macchina organizzativa tedesca nel gestire la massa di profughi. Ma la sua sconfitta invita a riflettere sul più generale fenomeno della crisi del ceto medio in tutto l’Occidente (si pensi al fenomeno Trump negli stati Uniti), per effetto del modo con cui il liberismo ha lavorato sul corpo di quella gigantesca classe media che l’estenuazione del fordismo aveva fatto emergere, in cui era stata assorbita buona parte della precedente classe operaia, e che nella crisi finanziaria successiva è stata dissanguata e spinta verso forme disordinate di radicalizzazione.
Certo è, comunque, che la sconfitta di Angela Merkel in Germania, si riflette in Europa, dove la sua egemonia si è spezzata tanto sul fronte del soft power (non è riuscita a convincere nessuno dei Paesi più recalcitranti ad accettare la sua filosofia dell’accoglienza selettiva) quanto su quello dell’hard power (non è riuscita a costringere i paesi a lei più vicini, a cominciare da Ungheria e Slovacchia ad accettare le quote europee). E dato che l’Europa è costruita su un unico baricentro, che è la Germania, il cedimento dell’egemonia tedesca apre la strada a una serie infinita di spinte centrifughe, di cui è difficile immaginare tempi e limiti, ma che sicuramente ci mettono di fronte a un quadro inedito d’instabilità, come se la maledizione di luglio – quando in una notte si consumò la mattanza del popolo greco e la fine del principio di solidarietà tra membri della Comunità -, non possa aver fine, e continui a colpire i responsabili di quell’infamia.
In questo quadro europeo scomposto e deragliato spicca l’eccezione greca, l’unico Paese che pur subendo l’impatto più forte non ha chiuso le proprie frontiere, e nonostante versi in condizioni sociali al limite della sopportabilità – il più vessato dall’austerità europea - ha continuato a mettere in campo politiche di accoglienza generose, a difendere di fronte a tutti il diritto di accesso alla “fortezza Europa”, a denunciare gli egoismi nazionali e la violazione dei diritti umani. Non possiamo dimenticare le parole di Tsipras, la settimana scorsa, a Parigi, ai leader di un socialismo europeo ormai vuoto ed esanime, segnati da una crisi che appare terminale, quando ha ricordato loro l’assurdità – e l’inaccettabilità – di un’Europa che “tiene i suoi confini chiusi ai perseguitati dalle guerre e ha le sue porte aperte alle politiche dell’austerità estrema”, sottolineando come "L'Europa oggi sta affrontando le conseguenze delle sue scelte", riferendosi “alle guerre come in Iraq, in Libia, in Siria…, mentre da quaranta anni si è dimostrata incapace di risolvere la questione palestinese”.
E’ ad Atene, oggi – non a Berlino, né a Parigi, né a Bruxelles, men che meno a Roma -, che si riunisce e si confronta la nuova sinistra europea, nell’incontro che questo pomeriggio avrà il suo momento finale, con la presenza di Alexis Tsipras e Jeremy Corbyn per il Regno Unito, di Pablo Iglesias per la Spagna e di Declan Kearney (del Sinn Fein dell’Irlanda), di Ska Keller per i verdi tedeschi e di Marisa Matias per il Portogallo, oltre a Pierre Laurent del Partito della sinistra europea… Le forze della possibile alternativa su scala continentale. E non può non colpire, su quel palco, l’assenza, fragorosa, del nostro Paese. Come assente era, l’Italia, sul palco del 23 gennaio 2015, quando si chiuse la campagna elettorale vincente di Syriza. E non per uno sgarbo degli organizzatori. Per il fatto, inconfutabile, che una sinistra italiana anche solo avvicinabile a quelle, non esiste. Potremmo dire “ancora non esiste”. Ma sappiamo quanto puramente augurale sia una simile frase. Quanto lontana, e difficile, sia oggi quell’obbiettivo.
L’ho detto all’assemblea romana di Sinistra Italiana che non ci sono, tra noi, INNOCENTI. E lo ripeto qui. Nessuno è senza colpa rispetto al fatto che non siamo stati capaci di fare quello che andava fatto ad ogni costo, e cioè costruire quello che in tanti si aspettavano da noi: “la forza autorevole, credibile, grande in grado di riempire il cratere lasciato aperto dalla mutazione genetica del Partito democratico”. Dalla sua irreversibile trasformazione in partito della nazione e in partito del capo. In partito delle lobbies e degli affari, minaccia al nostro assetto democratico costituzionale, luogo d’incontro e convergenza delle peggiori anime della politica italiana. In alternativa a questo naufragio di quello che restava delle culture politiche della vecchia sinistra avevamo promesso di costruire quella che avevamo chiamato la “Casa comune della sinistra e dei democratici” e che avrebbe dovuto riallineare il nostro Paese alle altre significative realtà – Mediterranee e non solo – in cui la sinistra rinasce nuova. 
Abbiamo finora fallito. Per tante ragioni. Perché ci eravamo illusi che quell’obbiettivo apparisse come essenziale e prioritario a tutti, per la sua auto-evidenza. E che se non altro per istinto di conservazione quel che resta delle forze organizzate di una sinistra vicina all’irrilevanza si sarebbero messe a disposizione. Avrebbero accettato quantomeno di non mettersi di traverso. Perché avevamo sottovalutato la determinazione dei piccoli gruppi dirigenti delle piccole formazioni residue a sopravvivere e perpetuarsi sia pure nel vuoto di proposta e di progetto. E non c’eravamo accorti del ruolo crescente del narcisismo come vero e proprio male del secolo, che porta ogni comunità, per piccola che sia, a considerarsi unica e irripetibile, e ogni individuo nella comunità a identificare il tutto con se stesso. Né del modo con cui la frammentazione neoliberista penetra nella nostra stessa antropologia, e la mina alla radice facendo di ognuno di noi un atomo autoreferenziale, tanto più aggressivo quanto più vicino gli è l’altro. Rivelando inattese fragilità personali, indisponibilità al l'etica della responsabilità verso il proprio collettivo... Per non parlare del ruolo degli “altri”, di ciò contro cui ci battiamo, che non si limita a mutare se stesso, a conquistare pezzi di stato e di società, mezzi d’informazione e anime, a usare ogni mezzo per manipolare, disinformare, corrompere, ma lavora anche extra moenia, nel nostro stesso campo, per blandire, minacciare, dividere. Il caso delle amministrative di Milano è esemplare: una sequela di possibili candidati a riempire il vuoto lasciato dal fallimento dell’”eredità Pisapia”, e a offrire a un elettorato orfano un’alternativa alla proposta indecente dei manager, tutti ritirati prima ancora di scendere in campo, tanto forte è stata la pressione, diretta e indiretta, su di essi. Il ricatto morale. La moral dissuasion potremmo dire, perché qui, si sa, si gioca la partita decisiva. Il renzismo o vince o muore. E Beppe Sala deve vincere, ad ogni costo.
Ebbene, noi, nonostante tutto, non ci arrendiamo. Anche per noi le Amministrative sono e restano il più immediato banco di prova per una verifica immediata dei poteri e dei valori: per dire, a noi stessi e a tutti, se in Italia sia ancora possibile un’alternativa dignitosa alla degenerazione in corso. Se si potrà lasciare il segno sulla corazza apparentemente dura di un regime in costruzione. Se a Torino – la grande città in cui il processo costituente dell’alternativa è stato per così dire “virtuoso”, all’insegna di un’immediata unità d’intenti di tutti i partecipanti al progetto – si otterrà un risultato all’altezza delle aspettative; se a Napoli si darà quella prova di orgoglio e di resistenza che si profila; se a Roma intorno alla candidatura di Stefano Fassina si consoliderà una linea di opposizione chiara e pulita; se a Bologna, e in tutte le altre città chiamate al voto sapremo alzare la testa, allora potremo dire che “si può”. Per questo noi, qui, oggi, chiamiamo tutti i candidati sindaci ad altri incontri, per mostrare anche fisicamente la presenza in campo di un’alternativa unitaria e nazionale.
Per questo, d'altra parte, facciamo delle campagne referendarie un punto focale del nostro impegno: di quella, ormai vicinissima, sulla difesa delle nostre acque contro la lobbie degli affari e i nuovi qualunquisti di "tutti al mare". Della battaglia per la difesa della Costituzione, ormai spartiacque tra testardi democratici ereazionari vecchi e nuovi. E della raccolta delle firme per i referendum sociali. Ambiente. Democrazia. Lavoro. Si torna ai fondamentali. Lì si verificherà sul campo quanto sia vivo e quanto sia morto del sogno che abbiamo coltivato fine alla nostra origine: la rinascita di una sinistra di livello dimensione europea nel nostro Paese, all'altezza delle sfide. Direzione in cui va anche l'idea di un'iscrizione individuale e di massa al Partito della sinistra europea, come segno prognostico di una nuova soggettivitá politica compiutamente transnazionale.
Non abbandoniamo il nostro progetto per il fatto che dobbiamo perseguirlo "in tempi difficili". Cerchiamo piuttosto di far tesoro dell'esperienza fatta. Sappiamo, l'abbiamo dovuto imparare, che non si potrà avanzare come prima, come se nulla fosse successo, attraverso il lavoro comune e la trattativa "diplomatica" con questi gruppi dirigenti. La rottura di quel "tavolo" ha rivelato un sottostante tenace, di particolarismi, resistenze, miopie, autolesionismi... E ha aperto un vaso di Pandora, fatto di conflittualitá intraspecifico e di cui Milano e Roma sono esempio preoccupante. Ma continuiamo a credere che l'idea di un progetto costituente unico continuerá a parlare ancora a molti, di tutte le diverse sinistre, e a quanti, già fuori, non vogliono arrendersi all'irrilevanza e al silenzio, anche sul terreno impervio della Rapresentanza. A loro guardiamo e vogliamo continuare a parlare, tenendo aperto il nostro cantiere politico e sociale.
Lasciatemi però concludere con una citazione, di un "grande tedesco", non dei"nostri": Max Weber - pronunciata anche questa in tempi difficili. Un passaggio, conclusivo, della celebre conferenza sulla Politica come vocazione: " solo chi è sicuro di non venire mai meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido è volgare per ciò che egli vuole, e di poter ancora dire di fronte a ciò 'Non importa, continuiamo!', solo un uomo siffatto ha una vocazione per la politica".

Fonte: Listatsipras.eu

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