La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 26 marzo 2016

Primarie: ma quale democrazia?

di Alessandro Stoppoloni
La settimana scorsa, intervenendo alla scuola di formazione politica del Partito Democratico, Matteo Renzi ha sostenuto che le primarie sono “il miglior strumento per la selezione della classe dirigente” oltre a essere “un presidio di garanzia democratica” in quanto strumento che l’elettore usa per determinare chi sarà il candidato o la candidata per una determinata carica anziché lasciare questa scelta in mano a un gruppo ristretto.
Il Presidente del Consiglio ha inoltre detto che chi mette in discussione il concetto delle primarie offende “l’idea stessa della democrazia”. Partendo da queste perentorie affermazioni proviamo a ribaltare la questione facendo un ragionamento per assurdo: sono le primarie a svilire la democrazia, non chi le critica.
Probabilmente la parola chiave del nostro discorso è partecipazione, un’idea fondamentale per una democrazia. D’accordo, ma che significa partecipazione? Si può definire partecipazione l’andare a votare? Certamente, ma è solo una delle tante forme possibili. Peccato che l’introduzione delle primarie abbia portato questa forma a diventare la principale, tanto che una valutazione del successo delle consultazioni si misura esclusivamente sul numero di votanti ed evita di affrontare nel merito la qualità del dibattito espresso nel periodo che ha preceduto il voto. Conta solo il vincitore. In questo modo la democrazia perde la sua ragion d’essere e il l’atto del voto si riduce a un’abitudine da portare avanti perché si è sempre fatto così. Si crede quindi di aver fatto il proprio “dovere” con uno sforzo minimo. Purtroppo però far funzionare la democrazia nel senso più pieno del termine è faticosissimo e non tutti sono disposti a metterci l’impegno necessario. Le conseguenze possono però essere spiacevoli.
Negli ultimi mesi la parola “populismo” è stata usata sempre più spesso fino a diventare uno dei termini più ricorrenti nel linguaggio politico attuale. All’interno di questa categoria sono finiti tanti personaggi anche molto diversi fra loro: populisti sono stati considerati infatti fra gli altri Bernie Sanders e Donald Trump, Alexis Tsipras e Marine Le Pen, Beppe Grillo e Matteo Salvini. Occorre però anche in questo caso fare chiarezza sulla definizione: per populismo intendiamo la distruzione dei corpi intermedi che dovrebbero fungere da collegamento fra il “capo” e le “masse”. In un partito “pesante” come erano quelli della cosiddetta prima repubblica tali strutture organizzative erano fondamentali per la sopravvivenza dell’intero organismo partitico e democratico. La vita di sezione, ad esempio, legava inevitabilmente il partito all’ambiente in cui si trovava a partecipare e permetteva lo sviluppo di relazioni interpersonali che andassero al di là di dibattiti sempre più virtuali e meno concreti. Non era necessario mettere delle urne in piazza affinché la politica incontrasse la gente.
Nella situazione attuale però tali strutture sono state o accantonate o superate proprio in virtù di una scelta del personale politico attraverso “primarie democratiche” o attraverso decisioni prese dall’alto e ciò ha comportato un sensibile impoverimento della vita democratica all’interno dei partiti. Il Partito Democratico è in questo senso un esempio lampante: fa quasi tenerezza la richiesta di Roberto Speranza e della minoranza PD di ottenere un congresso per poter discutere con Renzi dell’andamento del partito e dell’ingresso del gruppo di Denis Verdini nella maggioranza che sostiene il governo. Una cosa del genere sarebbe stata forse ovvia in un partito tradizionale, non in uno in cui le primarie sono diventate la base della legittimazione del gruppo dirigente. Lo sconfitto viene regolarmente messo da parte e ha pochissime possibilità di far sentire la propria voce visto che il vincitore ha buon gioco nel ricordargli di aver ricevuto un’investitura popolare che all’altro è stata negata. Di conseguenza anziché fare squadra si finisce sempre più spesso per non accettare il risultato, approfondendo così spaccature già esistenti.
Il pesante e costante calo degli iscritti al Partito Democratico non fa che sostenere la nostra interpretazione: che senso ha rimanere iscritti a un partito nel quale all’elezione del segretario può partecipare la prima persona che capita? In questo senso il voto, il depositare un foglio in un’urna, sembra lontano dall’essere uno strumento democratico e pare anzi contribuire alla diffusione del temuto, ma forse anche da qualcuno ben accetto, populismo.
Si potrebbe obiettare sostenendo che senza le primarie non ci sarebbero state, ad esempio, le esperienze di Pisapia a Milano e quella Vendola in Puglia. Ammesso che ciò sia vero la critica a questo strumento non appare scalfita: le criticità delle primarie rimangono, sia che si vinca sia che si perda.
Non si tratta qui di fare l’elogio di un modo di fare politica che è stato travolto dai tempi e che forse oggi si può correre il rischio di idealizzare. Sembra però opportuno mettere in discussione un’interpretazione che usa la parola democrazia per giustificare qualcosa che di democratico ha in realtà molto poco. Non bastano cento urne in cento piazze per ricostruire un tessuto ormai logoro. Non basta un piccolo atto di partecipazione ripetuto a scadenze più o meno regolari per impedire che la democrazia si svuoti progressivamente e perda sostanza, mantenendo solo una facciata. Per giunta sempre più scolorita.

Fonte: Sinistra in Europa

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