La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 1 aprile 2016

Per una critica del “cervellone in fuga”

di Alberto Prunetti
A partire dal nuovo millennio si è diffusa una narrativa del precariato che ha raccontato le difficoltà esistenziali di una classe di lavoratori forse troppo generosamente definiti cognitivi. Era una narrativa che enfatizzava il disorientamento esistenziale di una nuova generazione di lavoratori, perlopiù definiti come “lavoratori precari”, ovvero lavoratori con contratti a breve termine, pochissime tutele, alta ricattabilità, bassa copertura sanitaria e pensionistica. Questa retorica tendeva a definire i precari come giovani, laureati, abituati a fare “lavoretti”. Era in parte fumo negli occhi. Negli anni si è visto che quei lavoratori non erano solo giovani e che i lavoretti erano diventati il lavoro di una vita. La questione generazionale, ormai, non c’entrava più nulla.
La narrativa del precariato descrive i figli del ceto medio in veloce fase di precarizzazione.
Racconta anche la fine del mito dell’ascesa sociale per i figli della classe operaia, un mito diffuso negli anni del boom economico. A ragione, queste retoriche denunciano alcune banalità di base: che i figli sono più poveri dei genitori, o che i lavoratori sono working poors che non riescono a comprarsi casa o a mettere su famiglia. Spesso il lavoro di questi precari non è altro che una ricerca del lavoro: là dove c’è il lavoro, si va; quando non si lavora, non si è disoccupati ma si lavora a cercare un lavoro (ad esempio, nella progettazione o nella ricerca di borse internazionali). Ne consegue una tendenza a vivere e a lavorare soggiornando temporaneamente in città sempre diverse, spesso in nazioni diverse, alla ricerca di una borsa universitaria, un contratto di docenza di 39 ore da spalmare su tre mesi, un tirocinio semiretribuito, un voucher e così via. Se vogliamo, questa condizione esistenziale è l’esempio di come il miraggio della flessibilità e del postmodernismo si sia trasmutato in un incubo. È l’eterno ritorno del Capitale alle condizioni di lavoro che nel dopoguerra l’estensione della produttività e delle lotte operaie sembravano aver destinato al dustbin della storia: il cottimo, il lavoro nero legalizzato, i lavori non retribuiti.
Uno dei punti di debolezza di questa narrazione (non faccio volutamente nomi di autori e di titoli, cercateveli da voi) è la difficoltà a storicizzare. Storicizzare significa creare una cornice storica di relazioni in cui si comprende la genealogia di un evento. Se non storicizzo, il precariato è un evento che da un giorno all’altro cade sulle spalle del povero lavoratore precario come una meteora, incomprensibilmente. Se storicizzo, esso assume un senso: si inscrive nel corso delle relazioni tra capitale e forza lavoro, laddove il boom economico, la crisi petrolifera dei primi anni Settanta, la sconfitta dei movimenti dopo il ‘78, il riflusso degli anni Ottanta, il tentativo di divisione della classe operaia con la “cetomedizzazione” degli anni Novanta… tutto questo converge a dare un significato comprensibile al precariato, che diventa leggibile e interpretabile nella trama delle trasformazioni economiche e sociali della nostra società.
La “fuga dei cervelli” è una delle “narrazioni tossiche” sulle emigrazioni dei giovani italiani (emigrazioni “italiane” che ormai superano gli arrivi dei migranti stranieri nello stivale, creando un saldo demografico negativo che si associa a un invecchiamento della popolazione residente). È una narrazione tranquillizzante e compiacente, alternativa a quella più disforica dei “bamboccioni”, che è stata subito stigmatizzata. “Bamboccione” era chi rimaneva, “cervello in fuga” chi partiva. Il cervello in fuga è in realtà una grossolana rappresentazione caricaturale: la caricatura enfatizza un elemento, in questo caso “il cervello”, per dare l’idea di un’emigrazione nobile di lavoratori cognitivi, da opporre agli emigrati stranieri (perlopiù definiti disperati o poveracci, se non criminali o terroristi). In realtà può anche capitare che la casa del genitore sia il punto di ritorno del cervello in fuga da un periodo di lavoro all’estero. Si può essere quindi allo stesso tempo “cervelli in fuga” e “bamboccioni”. O nulla di tutto questo, respingendo le etichette al mittente, o parodiandole con l’accrescitivo “cervellone”, come sto facendo adesso io, o cercando definizioni e forme d’essere più dinamiche e relazionali, più dense e conflittuali.
Tra le etichette semplificatorie del giornalismo, che cerca di affrontare in chiave generazionale un fenomeno che andrebbe inquadrato con gli strumenti dell’economia politica, c’è quella della cosiddetta “generazione erasmus”, termine-ombrello usato indistintamente per il caso Regeni (un ricercatore già laureato, torturato e ucciso in Egitto), la morte di Valeria Solesin durante i recenti attentati di Parigi e quella di un gruppo di studentesse in un recente incidente stradale in Spagna. Si tratta di una facile scorciatoia emotiva che non spiega ovviamente nulla dei fenomeni a cui si applica. La realtà è più complessa.
Da sempre l’economia spinge l’umanità a processi di sedentarizzazione e/o di traslocazione, in rapporto alle proprie esigenze di manodopera. Quando non è la guerra, è in genere il lavoro (o meglio: l’estrazione di forza lavoro) il principio che governa la mobilità dei flussi migratori. Questi spostamenti talvolta si scontrano con esigenze personali, sentimentali, familiari. Non è insomma tutto oro quel che luccica sotto la metafora del viaggio esistenziale perpetuo. E il lavoro culturale non è poi così diverso dal lavoro tout court. Nel conto bisogna inserire percorsi emotivi, estrattivismo, auto-sfruttamento, basse retribuzioni, difficoltà a distinguere tra le sovrapposizioni dei tempi del lavoro culturale (spesso domestico) e i tempi della vita familiare e relazionale. Tutto questo per dire che le formulette sintetiche non servono a nulla se non a fare confusione e che si rende necessaria una visione d’insieme per descrivere i processi di migrazione del lavoro culturale, le pratiche di sfruttamento, l’intrecciarsi di problematiche attorno a nessi di estrazione sociale e di provenienza geografica di questi lavoratori. Che poi sono lavoratori culturali che spesso vengono costretti dal basso reddito a fare anche lavori non culturali. Insomma, i confini sono tenui. Quel che rimane per assodata è la dipendenza dal salario e l’incapacità dei lavoratori a fare rete, a connettersi, a sentirsi classe, a tutelare collettivamente i propri interessi di parte.
Sullo sfondo si agitano poi i processi di globalizzazione e di localizzazione, spesso isterici, e le pratiche di deterritorializzazione e riterritorializzazione. La stessa globalizzazione che ci spinge a giro per il pianeta, permettendo di apprendere lingue e conoscere culture diverse, produce al suo interno una spinta livellatrice verso l’esterno e una spinta autoritaria verso l’interno. La globalizzazione sta creando come effetto di rimbalzo nuovi nazionalismi e fascio-leghismi: mentre appiattisce le differenze tra Buenos Aires e Mumbai alimenta il culto delle radici e l’invenzione delle tradizioni. Per opporsi al livellamento, non bisogna costruirsi un io-corazza che si fa scudo di un’ideologia farlocca dell’autoctonismo (vedi i fascioleghismi). Bisogna concepirsi con uno sguardo d’insieme, sulla lunga distanza, inventando un nuovo internazionalismo dei subalterni, lottando contro i nuovi colonialismi, estendendo la solidarietà e le prassi di costruzione di nuovi percorsi di liberazione.
Dopo tutto questo, perché parlare ancora di Luciano Bianciardi? L’autore de Il lavoro culturale anticipa il lavoratore cognitivo dei nostri giorni, sulla carta e nella biografia. Anche perché i traduttori sono stati i primi, nel mondo dell’editoria, a essere esternalizzati. Il loro destino, via via che il neocapitalismo si è trasformato, terziarizzato, informatizzato e ristrutturato in rete, è stato seguito da una classe ingente di lavoratori. Quindi arriviamo a Bianciardi perché l’autore de La vita agra ci insegna a raccontare e storicizzare. A tessere fili. A legare relazioni di solidarietà di classe. Ti dice: quando sei a Bombay, cerca di parlare con gli operai indiani. Cerca i risciò wallah, i lavoratori delle cooperative che portano il cibo alla stazione di Churchgate, i contadini costretti all’emigrazione coatta. Come faceva lui, che a Milano aveva in cuore i minatori di Ribolla e ne cercava il volto tra gli operai di Sesto San Giovanni. Quando vai in Inghilterra, i tuoi alleati siano i nuovi operai, la nuova classe di proletari di un’industria di servizi terzializzati. Gli inglesi hanno un termine perfetto: working class, che noi traduciamo come classe operaia.
Ma quel termine è più significativo, ha un campo di denotazione più ampio del suo omologo italiano. Gli operai di oggi non lavorano solo nell’industria pesante o sempre meno, come ci insegnano il declino di città industriali come Taranto o Piombino. La nuova working class inglese è costituita da cleaner e da kitchen assistant. Tra di loro ci sono anche i lavoratori stranieri, molti dei quali laureati in fuga da università che non hanno offerto loro alcuna chance, spesso costretti a integrare le misere borse di studio con qualche ora da interinali, finendo a pulire gli ospedali o a servire un caffè da Starbucks o preparare una pizza da Pizza Hut. Fare il pizzaiolo in Inghilterra non ha niente a che vedere con lo pseudo-artigianato gastronomico 2.0 decantato da Farinetti e soci (e anche qui ci sarebbe tanto da smontare e discutere). È roba da nastro trasportatore, da operaio-massa di un tempo: devi assemblare delle unità congelate su una teglia (una base di pasta decongelata e spianata da una macchina), spalmare sulla pasta un cucchiaio di passata cinese, aggiungere della mozzarella italiana di dubbia qualità già tritata e congelata, qualcheslice di prosciutto cotto olandese e un pezzo di ananas indiano messo in lattina a Shangai. Così fai una pizza inglese. Poi ti compri un tabloid che ti parla male dei lavoratori stranieri e dell’Europa ma non te ne accorgi perché leggi solo la pagina 3, da buon inglese.
Ecco, Luciano Bianciardi ci spinge a pensare il lavoro culturale come parte di un conflitto tra capitale e classe operaia. Dove la classe operaia di oggi è una working class che spesso lavora nei servizi e fa anche un lavoro culturale. Mentre il neocapitalismo è stato globalizzato e finanzializzato, ma sembra sempre più in cattiva salute. Bianciardi con le sue opere ci invita a raccontare quel conflitto con parole nuove, andando oltre le metafore logore del giornalismo banalizzante. Tipo quella dei “cervelli in fuga”.
In chiusura di questo contributo, allego 5 piccoli consigli preparatori a un soggiorno di lavoro/emigrazione/fuga:
_Calca il suolo delle periferie delle metropoli, che sono i luoghi per cui vale oggi quello che Luciano Bianciardi diceva un tempo delle province, ovvero che è qui che i fenomeni di trasformazione sociale si colgono in maniera più lampante.
_Chiediti perché gli europei sono definiti “ex patriate” e i migranti del cosiddetto terzo mondo vengono etichettati come “emigrati”, “poveracci in fuga dalla miseria”, etc etc. Non definirti “expatriate”, non considerarti in “diaspora” fino a quando qualcuno attorno a te stigmatizza i migranti. Siamo tutti parte di un esodo in corso nel divenire della specie umana. Non abboccare a chi divide tra erasmus vs migranti;locals vs foraigners; primo vs terzo mondo.
_Leggi la realtà e il viaggio con uno sguardo obliquo. Passa dalle porte strette (lo so, è un po’ evangelico), diffida dalle scorciatoie. Dopo aver preso una scorciatoia ad alta velocità, chiediti cosa ti stai perdendo rispetto al cammino irto di una passeggiata nel lungovalle.
_Entra nei panni degli altri ma conserva un po’ scetticismo libertario. Fai esercizio di relativismo eppure diffida dagli eccessi di culture, il culturalismo estremo è una nuova variante di razzismo.
_Frequenta le subculture popolari, qualsiasi sia la tua latitudine. L’internazionalismo working class è l’unica globalizzazione che non fa vittime ma scopre compagni di strada, dalle Ande a Oxford, da Grosseto all’Himalaya.
Infine, tieni a mente che viaggiare lavorando (e lo studio è una forma di lavoro) è una delle forme di osservazione partecipante più forte, è il sogno di ogni antropologo. Il viaggio di puro intrattenimento è un’esperienza che si diluisce nel tempo. Viaggiare per piacere distrae e diverte. Al contrario, il viaggio di lavoro trasforma le coscienze.

Foto in apertura di Ferruccio Malandrini

Fonte: lavoroculturale.org

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