La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 1 aprile 2016

Figure dell'altro: fratello, vicino, straniero, nemico

di Sergio Benvenuto
Sono sicuro che gli organizzatori sapessero bene che le varie figure dell’altro o dell’Altro di solito tendono a convergere sulla stessa persona. Il fratello o sorella è il primo dei nostri vicini, ma a un certo punto della vita può essere lo straniero o la straniera, e talvolta un nemico o una nemica. All’inverso, possiamo finire col renderci conto che il nostro acerrimo nemico non era altri che… nostro fratello.
Ora, dall’amico fraterno al nemico più acerrimo si dipana tutta una serie di vicinanze e lontananze che, almeno nella cultura occidentale, mi sembrano catalizzate da un significante assillante: il sangue. Diciamo che il fratello e la sorella sono persone del mio stesso sangue; il vicino o amico è quello con cui posso mescolare il mio sangue; lo straniero è quello che ha un sangue diverso dal mio; il nemico è sanguinario, occorre quindi versare il suo sangue.

In quanto sangue altro, il sangue del nemico è impuro. Si ricordi la Marsigliese:
« ...qu’un sang impur abreuve nos sillons »,
« che un sangue impuro abbevera i nostri solchi ».
Cosa vuol dire che il sangue impuro – quello degli invasori, dei nemici della Francia – abbevera i solchi? Evidentemente allude a una sorta di inquinamento, diremmo oggi, dei propri alimenti: abbeverando i campi arati da cui si estrae il cibo che a sua volta diventa sangue, lo straniero invasore infiltra il proprio sangue nel nostro stesso sangue. Si rischia una contaminazione ematica. Questa contaminazione è eguale e opposta ai riti di mescolamento del sangue che suggellano una fraternità non biologica tra due persone. In molte società si diventa fratelli incidendosi un dito o il palmo della mano o altro, e mescolando il proprio sangue che sgorga con quello dell’altro.
Ma allora sorge la domanda più delicata, sia per i filosofi che per gli analisti: abbiamo un qualche rapporto, direi una possibilità di contatto, con qualcuno che sia altro dal fratello-vicino-straniero-nemico? Un altro che, nel linguaggio comune, chiamiamo “un altro soggetto”, un soggetto assoluto (absolutus), sciolto dalla relazione con me, l’altro in quanto sarebbe soggetto come me, anche quando non ha alcun rapporto con me come soggetto? E’ quel che vedremo nella seconda parte di questo seminario.
2.
Il fatto che le varie figure dell’altro si condensino nello stesso individuo è già pienamente enunciato nel testo del Genesi, a proposito di Caino e Abele. Abele, per Caino, incarna le quattro alterità del nostro titolo. Per Caino, Abele è a un tempo suo fratello, il suo vicino, uno straniero – dato che Caino è agricoltore mentre Abele è pastore, Caino resta fermo e Abele si sposta sempre – e finisce per diventare il suo nemico. Ma questo gioco non si riduce a loro due: il terzo incomodo, per così dire, è Dio, ovvero l’Altro con la grande A. E’ nella misura in cui Dio è testimone dell’eccidio fraterno che il fratricidio assume tutto il suo senso “sublime”: che due individui, rivali o meno, possano dirsi fratelli non solo perché vengono dallo stesso utero e dal seme della stessa persona, ma perché grazie a questo essi sono uniti da Fratellanza, ovvero ciascuno è Altro – grande A – per l’altro. Intervenendo direttamente nell’eccidio, Dio fa di un confronto tra due individui un delitto direi inaugurale, costitutivo, del rapporto politico.
(Freud creò un mito alternativo a quello del Genesi in Totem e tabù per spiegare il passaggio dalla famiglia alla polis: il mito dell’uccisione del Padre dell’orda. Per lui il delitto costitutivo della società è piuttosto l’uccisione del padre da parte dei fratelli coalizzati, non l’uccisione tra fratelli).
Ora, Dio denuncia Caino evocando proprio il significante-chiave del sangue. Dice all’assassino: “La voce del sangue di tuo fratello gridava a me dal suolo”[1]. Il sangue nella tradizione occidentale “parla”, genera significanti.
Sorprende che il fratricida Caino sia in fondo blandamente punito da Dio. Questi gli dice: «Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra»[2]. Da notare che il suolo, che Caino coltiva, ha bevuto il sangue di Abele, e quindi non può più nutrire l’assassino. Subito dopo Dio proibisce che Caino venga ucciso da chicchessia; Caino gode di una sorta di immunità divina. In sostanza, Dio condanna Caino all’esilio. Ma la Bibbia aggiunge subito dopo che questo vagare senza patria fu provvisorio: ben presto Caino si stabilì nel paese di Nod, si sposò, ed ebbe una progenie che il testo biblico ci illustra.
Che senso dare a questa punizione relativamente lieve di quello che appare un delitto atroce? Probabilmente si illustra qui il fatto appunto che il fratricidio ha qualcosa di costitutivo della società (della Kultur, si diceva al tempo di Freud) stessa: uccidendo il fratello, viene a crearsi una pluralità etnica. La discendenza di Caino sarà diversa, in effetti, da quella di Set, l’altro figlio che Eva ebbe da Adamo, in sostituzione di Abele. In sostanza, la diversità etnica – di cui il conflitto e la guerra sono sottoprodotti – è inaugurata da un fratricidio iniziale storicamente fondativo, così come la torre di Babele sarà fondativa della diversità tra le lingue. La diversità e la differenza, e quindi il conflitto, si originano da due trasgressioni: nell’un caso l’uccisione del fratello, nell’altro il voler raggiungere i Cieli dalla terra.
Oggi non diciamo più “essere dello stesso sangue” ma diciamo che i fratelli hanno in comune il 50% dei loro geni. Sulla linea della genetica, la psicologia evoluzionista afferma che le varie culture spingono fratelli e sorelle ad amarsi tra loro perché sono portatori di una dote genetica in gran parte comune; le norme etiche e culturali farebbero il gioco del “gene egoista”, come lo chiamano i darwinisti. Per costoro, l’amore e l’odio, la cooperazione e il conflitto, sono esclusivamente meccanismi adattativi[3].
In realtà, fratellanza genetica e fratellanza culturale non sempre coincidono. In certe culture si nega che padri e figli biologici siano dello “stesso sangue” (è il caso degli abitanti delle isole Trobriand, studiati da Bronislav Malinowski). In altre culture si nega che madri e figli siano dello “stesso sangue”. Pare che fosse così, ad esempio, nell’antica Sparta. In effetti, era permesso a un uomo spartano di sposare la sorella uterina, ovvero la sorella per parte di madre e non di padre. Invece gli era proibito – era incesto – sposare la sorella germana, ovvero la sorella per parte di padre. Questo significa che per gli spartani la propria madre non era una consanguinea, e così nemmeno la sorella uterina. Questo scarto tra parentela biologica e parentela culturale – se vogliamo, tra parentela naturale e parentela simbolica – è molto importante per il pensiero filosofico che si ispira alla psicoanalisi, in quanto punta proprio su questo scarto: non c’è isomorfismo tra il biologico e il simbolico.
3.
In effetti, si è sempre saputo che l’amore fraterno è una prescrizione ideale, ma che all’origine si constata piuttosto un odio fraterno (il che confuta la psicologia evoluzionista).
Lacan cita spesso un passo delle Confessioni di S. Agostino, in una sezione chiamata non a caso “Le miserie dell’infanzia” (Libro I, cap. VII):
“Io stesso ho veduto, e l’ho osservato bene, un bimbo geloso (zelantem) che non ancora parlava, eppure mirava pallido e con occhio torvo il suo compagno di latte.”
Agostino dice che il bebé è geloso (zelantem) non invidioso, perché egli stesso ha già usufruito del latte materno, ma non ammette che un altro bambino bisognoso – il fratellino – possa averne. Il lattante è spietato. Agostino, e i cristiani dei primi secoli, non avevano affatto l’immagine edulcorata che noi - malgrado Freud – abbiamo dell’infanzia. Non credevano nell’amore fraterno, per loro l’essere umano è malvagio, grazie agli effetti del peccato originale.
Il fratello e la sorella sono quindi i primi rivali, gli oggetti originari dell’odio che Lacan vedrà su base immaginaria, perché è l’odio spontaneo che portiamo per chi ci è simile, che è o dovrebbe essere come noi – fratello, cugino, collega…
Un professore universitario strofina casualmente una vecchia bottiglia, e salta fuori da essa un genietto. Questi gli dice di avere il potere di soddisfare un desiderio, e soltanto uno. “C’è un codicillo però – aggiunge – che qualsiasi tuo desiderio venga esaudito, il tuo collega e amico, quello dell’ufficio accanto, avrà il doppio di quello che avrai tu. Se per esempio chiederai il premio Nobel, lo otterrai, ma il tuo collega avrà due premi Nobel”. Il professore ci pensa un po’ perplesso, e poi dice: “Va bene: accecami un occhio”.
Si tratta solo di una barzelletta, ma essa ci aiuta a capire atti ben più tragici, come ad esempio il terrorismo suicida. Quando mi faccio esplodere per uccidere i miei vicini nemici, dire che così andrò diritto in Paradiso mi sembra quel che in psicoanalisi si chiama una razionalizzazione. Il vero “paradiso” è morire della propria gelosia, è rinunciare alla propria vita perché la perda l’altro. La storia e la clinica insegnano che l’uccisione del proprio fratello è anche suicidaria. E’ quel che nella letteratura e cinema fantastici è sviluppato come tema del sosia o del doppio, del Doppelgänger, che spesso è un persecutore, su cui Otto Rank scrisse un saggio. Uccidere il proprio doppio implica l’uccisione anche di se stessi: è per uccidere se stessi che si uccide l’altro, e l’uccisione dell’altro fa precipitare la propria morte.
4.
Significa questo che l’odio per l’altro come doppio invidiato o persecutorio è immaginario, mentre l’amore fraterno per l’altro è simbolico? Le cose non sono così semplici. Perché tutto il campo dell’odio e dell’amore – sentimenti comuni a tutti gli animali – è profondamente strutturato, modulato, dal significante. La politica, dimensione umana di azione, è penetrata dal significante, nel senso che è esso per lo più a costruire amici e nemici.
Questo significa che nel mondo delle relazioni politiche non ci sono identità, ma solo identificazioni. Ovvero, non esiste per esempio un’identità italiana, ma solo un’identificazione al significante “essere italiano”. E questo vale per qualsiasi cosiddetta “identità etnica”, che è sempre un’illusione. E in effetti l’Italia, “un’espressione geografica”, è stata un’invenzione storica. Quando nacque il Regno d’Italia nel 1861, solo una minoranza parlava il toscano, in cui consiste l’italiano. Un contadino piemontese e uno siciliano non si capivano, perché ciascuno parlava il proprio dialetto. L’italiano è divenuto lingua nazionale effettiva solo grazie al cinema e alla radio. Oggi possiamo credere di essere italiani perché parliamo una stessa lingua, ma che dire del significante Belgio o Svizzera o India o Canada?[4] In Belgio i valloni si rifiutano di imparare il fiammingo e i fiamminghi si rifiutano di parlare il francese, tra loro parlano inglese; eppure il Belgio è un’unità politica rispettabile, con un re bilingue. Un significante vuoto, ma funzionante.
Dire che quelle che prendiamo per identità sono identificazioni, è dire che sono alienazioni: la nostra pretesa identità registra la nostra alienazione nel significante. Ad esempio, identificarsi come sci’ita o sunnita: se “sono” (ovvero: mi identifico come) sci’ita devo amare tutti gli altri sci’iti in quanto sci’iti, e odiare i sunniti. E viceversa. Ma quali sono le basi della differenza tra sci’iti e sunniti? Sono questioni dinastiche che risalgono al VII° secolo di cui non si occupa più nessuno, e che pure oggi polarizzano il campo islamico, da qui conflitti politici, guerre, massacri terroristici. Un kamikaze sunnita che si fa esplodere in una piazza uccidendo decine di shi’iti pensa al fatto che costoro sostengano Alì, cugino e cognato di Maometto, come legittimo califfo, piuttosto che suo suocero Abu Bakr? Mi pare del tutto improbabile. L’importante è che ci sia una differenza tra sci’iti e sunniti, e questa differenza assegna i protagonisti di un odio fraterno.
In effetti, se abbiamo preferito il termine “significante” a quello più sublime di “simbolo”, è perché il primo è ripreso dal signifiant di Ferdinand de Saussure, e questi definì il significante come arbitrario. Questo significa che gran parte dei conflitti umani, in tutti i tempi, non hanno ragioni profonde, ma sono meri effetti di significanti. Ovvero, hanno basi arbitrarie. Questo va detto e ripetuto, con buona pace delle interpretazioni neo-marxiste, nietzscheane e foucaultiane, secondo le quali alla base di tutti i conflitti c’è la lotta di classe, oppure la volontà di potenza politica, o entrambe le cose. No, i conflitti economici e di potenza spiegano la storia solo in parte, alla base c’è l’arbitrarietà del significante.
E’ evidente con la Shoah. Oggi i biologi sono concordi nel dire che la razza ebraica non esiste, perché non c’è una relazione diretta tra le “razze” come prodotti culturali, ovvero come significanti, e le “razze“ come certe distribuzioni di caratteri genetici. Perché allora perseguitare gli ebrei, sterminarli? Personalmente penso che il biologismo hitleriano – la credenza in una razza ebraica e in una razza ariana – fosse una razionalizzazione, un modo di dare un’oggettività scientifica a un’operazione squisitamente significante, ovvero arbitraria. A un certo punto milioni di esseri umani sono stati polarizzati da un’opposizione significante, ebrei versus ariani.
Una polarizzazione simile divide e oppone palestinesi e israeliani, ad esempio. Non si tratta in effetti di un’opposizione religiosa, perché molti palestinesi e molti ebrei sono atei, eppure si combattono. L’amore e l’odio che ne derivano sono effetti del successo storico di questa opposizione significante. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Certo ciascuno di noi ha interessi economici e ciascuno di noi anela più o meno di altri ad esercitare un certo potere. Ma il punto è che nell’essere umano il desiderio di avere denaro e di esercitare un potere – come il desiderio di verità o il desiderio di amore – sono profondamente modellati dal gioco insensato, arbitrario, dei significanti. I quattro tipi di desideri che Niklas Luhmann considera i quattro “mezzi di comunicazione” fondamentali nella società – di denaro, di potere, di amore e di verità – sono strutturati dalle opposizioni significanti. E’ quel che rende i conflitti politici e sociali in gran parte “idealisti”, e perciò così micidiali: si combatte e si muore quasi sempre per degli “ideali”, ovvero per dei significanti. Il nazismo è stato orrendo non perché era volgarmente biologico, materialista, ma perché era uno smisurato idealismo, come del resto la sua simbologia esoterica (a cominciare dalla svastica) dimostra. I conflitti puramente materiali si risolvono per lo più con compromessi, quelli simbolici possono portare a olocausti.
Se odio i rom, ad esempio, non è perché temo che mi rubino il portafoglio in autobus. Mi sarebbe facile pensare che non tutti i rom rubino, e che del resto non siano solo i rom a rubare portafogli. E’ l’identificazione significante tra il rom e il ladro, o tra il rom e chi rapisce bambini (vecchia leggenda tuttora non del tutto tramontata), a scatenare in me paura e odio. Si dice che si è razzisti o xenofobi quando si generalizza. I benpensanti bacchettano i razzisti sulle mani e dicono “Non bisogna generalizzare!” Ma la generalizzazione è la faccia quantitativa, l’alibi universalizzante, dell’identificazione significante. Nella misura in cui parliamo, siamo tutti a rischio di fondamentalismo.
Perciò è così facile per noi tutti dire sciocchezze non appena esprimiamo un’opinione. Perché bisogna ammettere che anche chi non generalizza, evitando di essere razzista o xenofobo, non può sfuggire al potere del significante.
5.
Per alcune teorie – e sembrerebbe che quella psicoanalitica sia tra esse – l’altro-in-sé-e-per-sé non entra in gioco: ciascuno per l’altro è oggetto, non è altro soggetto, ogni soggetto è solo se stesso. Se amiamo qualcuno, è il nostro oggetto d’amore. E io stesso sarò il suo oggetto d’amore se questo mi corrisponde, oppure un oggetto rompiscatole nel caso non mi corrisponda. I cosiddetti “altri” sono l’insieme attuale o potenziale dei miei oggetti. E’ questo l’approccio della teoria neo-darwiniana: l’altro è amato od odiato in funzione adattativa. Tendo ad amare chi facilita la riproduzione dei miei geni, non amo o addirittura odio chi impedisce questa riproduzione.
Alla teoria scientifica per cui ciascuno è oggetto per l’altro si oppone la filosofia fenomenologica. Per la fenomenologia abbiamo un rapporto diretto con l’altro in quanto soggetto, percepiamo la sua soggettività: l’altro, oltre a essere oggetto – dei miei affetti, delle mie aspettative, delle mie azioni – si relaziona a me soggetto come soggetto-altro-da-me. Ho un accesso diretto all’altro in quanto soggetto “altro”, perché intenziono l’altrui soggettività. Da qui la promozione del concetto di empatia: il fatto di soffrire in qualche modo quel che soffre l’altro, o di godere ciò di cui l’altro gode, sono prove affettive del fatto che reagisco all’altro non come a un oggetto, più o meno amato od odiato, ma come a un altro soggetto, a qualcosa che non è altro da un soggetto. In qualche modo io sono l’altro. Ovvero, come dice la fenomenologia, il Dasein (l’esserci, la soggettività) è un Mit-sein, un essere-con (gli altri).
Ma è vero che abbiamo un contatto immediato con la soggettività dell’altro? Se questo contatto viene analizzato, ovvero se ne scindiamo le componenti, vedremo che esso si riduce a una serie di oggetti. Prova ne sia che possiamo creare dei soggetti finti, ad esempio dipinti, o cartoni animati: i disegnatori sanno imitare le espressioni che ci fanno scattare affetto, antipatia, odio, ecc. Le nostre reazioni all’altro in quanto soggetto dipendono da stimoli disinibitori che possono essere del tutto inanimati.
Nel film Cast Away di Zemeckis si parla di un uomo, interpretato da Tom Hanks, che riesce a sopravvivere da solo per quattro anni in un’isola completamente deserta del Pacifico – non c’è nemmeno il Venerdì di Robinson Crusoe. Egli riesce comunque a costruirsi un amico, un buon selvaggio: una palla di volley su cui disegna un volto umano stilizzato. E quando la palla cade nell’oceano e si perde, per lui è un trauma. Si tratta di fiction, ma sappiamo che situazioni del genere possono prodursi anche nella realtà. Si possono amare cose, e non particolarmente belle, come se fossero persone. La palla disegnata non è un soggetto, ma porta i segnali della soggettività. Per il naufrago è un soggetto, anche se è una cosa. Perché per il pensiero analitico (ovvero scientifico) tutti i soggetti diversi da me sono decostruibili come cose.
Eppure molti analisti (non lacaniani) dicono che la terapia si risolve essenzialmente nel rendere il paziente capace di amare altri, di investirli insomma non come propri oggetti pulsionali, ma come soggetti. E’ la zuccherosa fenomenologia a cui si rifanno molti analisti. Ma in realtà questa impostazione era stata suggerita da Freud stesso in Al di là del principio di piacere, quando athanatos o pulsioni di morte contrappone eros o pulsioni di vita. Freud stesso si rifà all’eros platonico, e lo descrive come tendenza verso l’altro, tendenza a unirsi all’altro, facendo di due Uno. E come in Platone eros mira non a qualcosa di soggettivo ma all’ousía (la realtà vera), analogamente l’eros freudiano non investe oggetti ma l’altro da sé. E siccome la vita è sempre un conflitto tra eros ethanatos, l’analista non può essere che un militante di eros, si oppone alla tendenza della vita psichica all’entropia[5].
Anche se Lacan sembra evitare questa edulcorazione, vedremo poi che, anche se in modo più sofisticato, anch’egli intende superare il presupposto “oggettivista” da cui Freud era partito.
Da qui l’importanza data al concetto di “narcisismo”, di cui la psicoanalisi si vuole di fatto un superamento o una cura. Il narcisismo non sarebbe tanto amare se stessi e non gli altri, interessarsi solo a sé e disinteressarsi degli altri, perché la psicoanalisi ha descritto amori narcisistici, ovvero idealizzazioni narcisistiche dell’altro. Il narcisismo sarebbe soprattutto ridurre l’altro a un miooggetto di amore o di odio, nella misura in cui questo altro riflette me stesso ridotto a oggetto di amore o di odio. Perché se riduco l’altro a mio oggetto pulsionale, l’altro sarà sempre “cosa mia”, una sorta di proiezione o prolungamento di me stesso. Se l’altro è sempre e solo mio oggetto, è sul mio che l’accento va posto: perché l’oggetto è per costituzione oggetto-per-me-soggetto. Il concetto di oggetto (Objekt in Freud) è un termine di correlazione: se c’è un oggetto, c’è un soggetto di cui il primo è oggetto.
La domanda cruciale è allora: se il fine dell’analisi è far prevalere eros, se è aumentare la capacità di amare dell’individuo, il punto è “amare chi?” Che cosasi ama quando si ama qualcuno – una palla di volley, un cane, un gatto, un essere umano che soffre e gode? Ovvero, l’altro che amiamo od odiamo si ridurrà sempre a essere o un fratello, o un vicino, o uno straniero, o un nemico? L’altro sarà sempre e solo una relazione oggettuale? Eppure – come abbiamo detto - la psicoanalisi afferma di farsi promotrice di un’apertura all’alterità.
Quindi, la psicoanalisi si situa in modo ambiguo rispetto all’alternativa che abbiamo riassunto, nel neo-darwinismo da una parte e nella fenomenologia dall’altra. E dico questo non per criticarla, ma per leggere la sua ambiguità come una linea di fuga dal dilemma.
Da una parte, almeno nella teoria freudiana originaria, l’altro è prima di tutto un mio oggetto – anche se l’altro è il mio ideale, è pur sempre un oggetto ideale. D’altra parte però la psicoanalisi – in quanto pratica clinica - indica un continente di cui essa non dice nulla, ma che potrebbe essere preso come la Terra promessa della cura analitica: il superamento del narcisismo, vale a dire aprirsi agli altri come soggetti altri da me. C’è allora una discrasia tra teoria e pratica dell’analisi?
Vediamo come Lacan affronta questa questione.
6.
Lacan ha distinto tre “altri” secondo le direttrici dei tre registri, immaginario simbolico e reale. L’altro immaginario è l’immagine speculare, ed è l’altro essere umano come me stesso in quanto immagine per l’altro. L’Altro simbolico, con A maiuscola, è un luogo che di per sé non esiste: è come la linea dell’orizzonte, che non esiste in quanto linea concreta, ma è relazione tra due spazi visivi. Quanto all’altro reale, lo chiama oggetto a (a è iniziale di “autre”, altro), che non è l’oggetto che le pulsioni investono secondo il modello originario di Freud, ma è piuttosto la causa del desiderio, ciò che scatena le pulsioni[6].
Ma altri possono mettersi nella posizione di Altro. La madre e l’analista, ad esempio, sono due esseri umani concreti che prendono la posizione di Altro per un soggetto, figlio o analizzante che sia. Ma sull’attualità di questi due esseri la teoria di Lacan non ha nulla da dire? Si tratta di contingenze pure? Eppure chi occupa la posizione di Altro – sia esso padre, madre, analista, ecc. - non è irrilevante, perché si tratta sempre di soggetti con loro propri desideri che impregnano il desiderio dell’Altro. Le posizioni simboliche che certi altri occupano, di volta in volta, sono marcate dai desideri e dai godimenti di questi altri. Se un padre, ad esempio, non riesce a detenere la posizione di legislatore in una famiglia, il figlio o la figlia verrà interamente requisito dal desiderio materno che non avrà quindi più alcun limite paterno con cui confrontarsi. Insomma, anche nella teoria e pratica lacaniane padre, madri, fratelli, analisti… non sono solo posizioni, ma soggetti con loro specifici desideri e atti che orientano in modi diversi queste posizioni.
Certo gli “altri” lacaniani non sono mai l’altro soggetto così come lo intendiamo nel discorso comune, discorso che la fenomenologia legittima: il fatto di trovarci in un mondo realmente abitato da tanti soggetti. Eppure i soggetti come reali entrano in relazione con ciascun soggetto che noi siamo nella misura in cui mancano o meno la posizione simbolica che dovrebbero detenere, o addirittura la determinano in relazione a quel che essi sono e desiderano. L’intersoggettività cacciata dai lacaniani dalla porta rientra così dalla finestra: è essenziale come certi altri occupino la posizione di Altro.
Questa ambiguità spiega forse perché Lacan, in un seminario specifico – L’etica della psicoanalisi (Il Seminario VII) – ha lavorato su un concetto non riducibile ad “altro” simbolico e immaginario, e forse nemmeno reale: das Ding, la chose, la cosa. Trovo molto sintomatico il fatto che Lacan abbia sviluppato questo concetto in un solo seminario, abbandonando poi di fatto questo significante. Suole dirsi che in seguito Lacan avrebbe identificato la Cosa all’oggetto a tout court, che, come abbiamo detto, è causa del mio desiderio, ovvero è qualcosa fuori della mia soggettività, ma non è esso stesso soggettivo. Eppure la Cosa così come Lacan la posiziona ha avuto un grande successo nella cultura non solo analitica: Lacan ha abbandonato la Cosa, ma altri l’hanno ripresa a piene mani. Forse Lacan ha perso il concetto di Cosa perché, in un certo senso, la psicoanalisi, almeno come teoria, deve sempre perderla. E’ un suo limite e, come ogni limite, è a un tempo deprimente e rassicurante: la Cosa relativizza, umilia la psicoanalisi, ma allo stesso tempo la delimita, le dà un contorno, impedisce che straripi.
Ora, per Lacan la Cosa designa la relazione a un godimento primario, inaugurale, che fa corpo con qual Cosa, e che come tale non può essere ripetuto, e che quindi resta fuori da ogni trafila possibile di oggetti (Sache, Objekte) che ci possono far godere, o soffrire. E, in modo molto significativo, Lacan vede la Cosa apparire nella nostra esperienza essenzialmente come vocazione etica, come “io devo fare, devo…” Ora, ogni richiamo etico a un dover fare o dover essere deve per forza trascendere gli altri “sé” come miei oggetti. Se è etico fare del bene, questo non è perché amo il beneficiato. Altrimenti, Kant direbbe che questa beneficenza sarebbe “patologica”, legata al pathos, al mio amore per questa persona e non all’imperativo etico.
Che nell’etica l’altro non sia più investito come oggetto è dimostrato dal rilievo che Lacan dà alla figura di Antigone. Costei si sacrifica non per amore, ma direi per dovere, per pietas nei confronti del fratello Polinice morto in quanto – questo Lacan lo sottolinea – Polinice per lei è unico. La Cosa è tale, orienta il nostro agire, in quanto non è sostituibile, non è replicabile, ma è qualcosa di unico.
Ora, l’unicità è essenzialmente contingente. Gli oggetti possono essere sostituiti da altri oggetti, ma l’altro in quanto unico – in quanto in sé e per sé - è insostituibile. E perché un soggetto in quanto soggetto-per-se-stesso è insostituibile? In effetti, mi percepisco come soggetto unico perché nessuno può vivere o morire al posto mio. Attraverso questa unicità della Cosa Lacan sembra aprire la psicoanalisi a qualcosa di trans-oggettuale, ma senza ridursi all’intersoggettività fenomenologica, al fatto cioè che l’altro soggetto mi è immediatamente dato come soggetto.
Ma la psicoanalisi può pensare davvero un rapporto con l’altro come trans-oggettuale? Non tradisce così la sua vocazione analitica? ‘Analitico’ significa dividere, separare, frammentare. Gli altri vengono analizzati, ovvero divisi, in oggetti.
La Cosa – un’alterità assoluta, in quanto non è mio oggetto – è come uno stretto canyon che Lacan intravvede tra due montagne nelle quali tutti, oggi, ci accasiamo: da una parte la montagna dell’oggettività scientifica (illustrata dalla psicologia evoluzionista e dalle teorie cognitiviste) dall’altra la montagna dell’intersoggettività fenomenologica. Un passaggio davvero stretto, fino al punto che Lacan stesso sembra finire col non percorrerlo.
In effetti la Cosa di Lacan, anche se assomiglia all’unicità di ogni soggetto, non è un soggetto. Ma non è nemmeno semplicemente un altro da me. E se fosse la Cosa l’altro nel registro del reale? Dico la Cosa come singolarità, nel senso che questo termine assume in matematica e in fisica, come una sorta di buco nel tessuto di ogni spiegazione e calcolo razionali. Il singolo è una singolarità, ovvero un’eccezione del “tutti”.
L’unicità, fuori della mia percezione soggettiva di essere unico, ha questa specificità: che è qualcosa di impensabile. Alfred Jarry voleva fondare la patafisica, una paradossale scienza del particolare, quindi dell’unico; ma sappiamo bene che ogni sapere generalizza. Ogni cosa pensabile, proprio perché pensabile, è replicabile. Gli scolastici medievali dicevano che abbiamo a che fare sempre con universalia, anche se sono solo nomina, nomi. Posso dire che c’è un solo sole, ma una volta definito il sole lo si può trovare altrove, e difatti l’astronomia ci parla di miliardi di soli. Possiamo quindi dire che l’unico, l’altro come singolare, sia il solo a sottrarsi all’alterità del sangue, a quel sangue che ci unisce e ci divide, che ci affratella e ci dilania. Perché se il sangue è il nome mitico della relazione tra umani, allora questa Cosa unica è al di là di ogni relazione. L’altro assolutamente altro non è in effetti un soggetto che si relaziona a me come mio oggetto, ma qualcosa che amo indipendentemente dalla relazione con me. Lo amo anche da morto, quando non è più possibile nessuna relazione con lei o lui. Anzi, più è morto, più lo amo.
Ma come dire qualcosa fuori di ogni relazione? Ogni dire si basa su proposizioni, che sono di per sé relazioni. Una proposizione, ad esempio, “Io mangio”, stabilisce una relazione tra un soggetto (io) e il mangiare. Come il linguaggio può mai dire qualcosa di definito dal suo non essere in relazione, dal suo sottrarsi al sangue? L’analisi porta di solito a un venire a patti con la propria singolarità.

NOTE

[1] Genesi, 4, 10.

[2] Genesi, 4, 12.

[3] Per il darwinismo, un organismo è più adatto di un altro quando ottimizza, più di questo altro, la probabilità di riprodurre i propri geni.

[4] Nazioni in cui si parlano diverse lingue.

[5] Alcuni lacaniani respingono questa mia conclusione, perché Lacan non l’articola in questi termini. L’analista non sarebbe un militante di eros, ma solo un oggetto che scatena il desiderio di analizzarsi. Eppure Lacan stesso ha descritto il discorso dell’analista come uno dei quattro (per lui) fondamentali legami sociali (gli altri tre sono il discorso universitario, del padrone-maestro e dell’isterica), e ogni legame sociale – per Freud – è eros in atto. Nella misura in cui l’analista crea o catalizza un legame sociale, milita per eros. Il transfert è sempre erotico, anche se la sua faccia ripetitiva ne fa anche qualcosa di mortifero.

[6] In un primo tempo, Lacan fa dell’oggetto a una sorta di luogo i cui bordi sono immaginario, simbolico e reale. Ma è proprio questa eccentricità dell’oggetto arispetto ai tre registri lacaniani a farne sempre più qualcosa di eminentemente reale, dato che il Reale è proprio ciò che è eccentrico a ogni posizione definibile.

Dal 4 al 9 aprile si terrà a Genova la nuova edizione della Genoa School of Humanities, dedicata all'indagine delle diverse forme di manifestazione dell'altro. Questo testo, per gentile concessione dell'autore e degli organizzatori, è l'anticipazione della relazione dello psicanalista Sergio Benvenuto.

Fonte: MicroMega online - Il Rasoio di Occam

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