di Mimmo Cortese
Un aspetto non secondario e piuttosto inquinante, relativamente al referendum sulle trivelle del 17 aprile, a mio parere riguarda il linguaggio. Tra l’astensione e il boicottaggio c’è una distanza enorme. In nessun vocabolario qualificato si potrebbero sovrapporre le due definizioni. Ma nemmeno nessun serio dizionario di sinonimi e contrari potrebbe metterli nello stesso ambito.
Astenersi da una competizione elettorale è sempre un manifestazione di passività, un atto di “estraneità, di disinteressamento“(1). Letteratura e sociologia sul tema sono piuttosto estese e approfondite. Si tratta di un gesto che non ha nulla a che vedere con l’espressione del voto sottola forma dell’astensione – quando si sceglie di stare all’interno di un contesto elettivo o assembleare – come accade dall’attivo sindacale fino al Senato della Repubblica.
Queste sono “manifestazioni di voto“, che esprimono posizioni precise “dentro” quei contesti, non scelte di apatia o indifferenza. Men che meno sono scelte “contro” l’atto del votare.
Il boicottaggio invece esprime una scelta attiva, un’azione organizzata. È una forma di lotta politica di grande importanza e serietà. Molti grandi e radicali cambiamenti della storia dell’ultimo secolo sono passati attraverso boicottaggi. Sia all’interno di stati sovrani, sia a livello internazionale. Tra questi ultimi, di rilevanza planetaria, si può citare la svolta democratica e anti-apartheid in Sudafrica, che probabilmente non sarebbe mai avvenuta senza il contributo non lieve del boicottaggio internazionale di quel paese.
Ma, nello specifico, da Gandhi ad Aung San Suu Kyi, nella storia recente abbiamo precise scelte di boicottaggio elettorale. Si tratta di una delle forme più praticate di lotta nonviolenta, in particolare in situazioni di regimi autoritari o in stato di gravi restrizioni democratiche.
La grande leader birmana nel 2010, nonostante fosse stata liberata dagli uomini del regime, diede l’indicazione di boicottare le elezioni appena promosse dalla giunta militare in segno di apertura. Fu investita allora da una pioggia di critiche, sia interne che internazionali. I fatti, proprio nelle settimane scorse, le stanno dando ragione.
Chi afferma allora, e dà indicazione, di non partecipare a un confronto di natura elettorale sceglie, con una proposta politica attiva, di “boicottare” quell’evento. Su questo non possono esserci dubbi.
Il premier afferma che la sua scelta è legittima. Come dargli torto. Ma usa una parola e un linguaggio non solo sbagliati ma gravidi di conseguenze. E questa non è una sottigliezza formale. Qualcosa che a che vedere con la bella calligrafia.
Chi confonde le due parole – ma questo vale in generale – intorbidisce ed inquina il dibattito politico, a prescindere dalla posizione sul tema.
Il linguaggio, nel bene e nel male, contraddistingue sempre sia un’epoca politica sia, anzi ancor di più, le sue cesure storiche. Dal risorgimento al fascismo, e poi dal dopoguerra fino ad oggi, la lingua e le sue innovazioni, le sue involuzioni, ci dicono cosa sta succedendo. Soprattutto ci indicano verso quale futuro si sta procedendo. Per chi vuole vederlo, s’intende!
Primo Levi in alcune cristalline pagine dei “Sommersi e i salvati” spiega bene questo processo anche sullo stravolgimento, sulla torsione miserabile, della bellissima lingua tedesca. Degradazione iniziata prima del suo avvento e poi dispiegatasi durante tutto il terzo Reich.
Dall’altro lato se, attraverso un lungo e contrastato processo, non fossimo arrivati a definire quella lingua che ha portato e accompagnato, fin dall’inizio, la lotta per l’unificazione del paese; se non avessimo avuto delle figure altissime, come Alessandro Manzoni, con la sua lingua indirizzata verso la chiarezza più ampia possibile, aperta alla comprensione e al dialogo; se proprio quell’idioma non fosse stato un elemento fondativo e ingrediente essenziale per cementare il paese tra le due guerre, nonostante la pur fondata critica gramsciana (2), forse oggi non saremmo qui.
Ora, tornando al referendum, solo uno sprovveduto può pensare che la scelta di Renzi sull’uso della parola “astensione” sia casuale. Il premier ha fatto della lingua uno dei suoi principali e fondamentali nuclei di forza per presentarsi agli italiani come il portatore di una politica nuova, di rottura col passato, indirizzato verso la modernità e un futuro prospero.
Nel suo idioma ogni parola – soprattutto quelle insistite, ripetute a lungo, come i vari “rottamazione”, “ci metto la faccia”, “2-0 netto”, “chissenefrega” e via di seguito – non solo è scelta con cura e consapevolezza ma vuole sempre aggiungere e sottolineare, all’oggetto del suo discorso, la sua precisa “filosofia”, il suo peculiare modo d’agire, la sua onnipresente volontà di manifestare una cesura con il passato (3).
Il fatto davvero singolare è che, tranne poche eccezioni, sia all’interno del suo partito, sia fuori di esso davvero pochi hanno rilevato questa forte tensione,questa evidente e stridente divergenza semantica, le cui conseguenze politiche non potranno non farsi sentire.
Non so quante volte sia accaduto che un governo in carica, direttamente per bocca del suo premier, in un paese democratico abbia – di fatto – invitato al boicottaggio di un passaggio elettorale o referendario nel proprio Stato. Non so nemmeno se ciò sia mai accaduto “azzardando” così platealmente sul significato delle parole e sui diversi e discordanti messaggi ad esse sottesi.
So che nel nostro paese qualcosa di simile è già successo. Erano anni bui, precipitati malamente nel caos. Anni di cui oggi non sentiremmo proprio nessuna nostalgia. C’è solo da augurarsi che il futuro non appaia dietro queste suggestioni.
Per quanto riguarda il merito, e la mia personale posizione, credo che non ci troviamo davanti a un referendum propriamente epocale. Voterò “si” senza particolare enfasi, giusto per dare il mio circoscritto contributo alla limitazione del danno. Mi sembra chiaro che, quale che sia l’esito, non scaturirà da esso né una direttiva fondata e convincente sulla politica energetica, né tantomeno una scelta significativa di salvaguardia dei nostri mari e delle nostre coste.
Note:
(1) dal vocabolario dell’enciclopedia Treccani, alla voce “Astensione”:http://www.treccani.it/vocabolario/astensione/
(2) Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 29, § 3)
(3) sul tema, relativamente al premier, una mia considerazione di un anno e mezzo fa all’interno di un lungo post:
Articolo tratto dal blog di Mimmo Cortese
Fonte: comune-info.net
Originale: http://comune-info.net/2016/04/355934/
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