La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 29 luglio 2016

Come Goldman Sachs aiuta l'Africa a casa sua

di Riccardo Barlaam
Un banchiere d’affari di Goldman Sachs sotto processo a Londra per 1,2 miliardi di dollari pagati dal fondo sovrano libico, che ora li chiede indietro. E per i suoi metodi, per così dire, poco ortodossi. Con spese gonfiate, viaggi e suite miliardarie per giustificare i compensi della sua consulenza. Con i giustificativi, rimborsati dalla banca d’affari, anche per due prostitute a notte: 600 dollari in nota spese. Un fatto di cronaca giudiziaria che la dice lunga sui metodi adottati dai colletti bianchi del mondo occidentali per fare affari in Africa. Nel peggiore stile neocoloniale.
Con il peggio del consumismo e del materialismo traslato, in giacca e cravatta, in terra d’Africa, grazie anche alla complicità di élite africane impreparate, con scarsa autostima, e con il miraggio dell’Occidente sviluppato, che poi a ben vedere, così sviluppato non è.
Youssef Kabbaj, ex manager esecutivo di Goldman Sachs, è al centro di una causa civile in corso a Londra, intentata dal fondo sovrano libico Lia, che chiede il risarcimento per 1,2 miliardi di dollari persi grazie all’attività e per le spese pazze dei consulenti della potente banca d’affari americana. Il manager nega tutte le accuse che gli sono state mosse, tra cui quella di aver pagato per “impropri intrattenimenti” per lui e il suo giovane fratello, durante un viaggio d’affari nei paesi arabi, non giustificato dal suo incarico professionale.
Il fondo sovrano libico Lia – potente cassaforte ai tempi di Gheddafi con 67 miliardi di dollari in cassa, e ora in cerca di una direzione nel caos libico attuale – sta cercando di rimettere a posto un contenzioso che risale al 2008 con Goldman Sachs e che riguarda, in particolare, l’attività di nove manager della banca pagati, secondo i libici, a super caro prezzo. Goldman Sachs ovviamente nega tutte le accuse. Ma i legali dei libici hanno tutte le pezze d’appoggio.
Tra i documenti presentati durante la causa, ce n’è uno del febbraio 2008 che riguarda un viaggio del manager incriminato, assieme al fratello, dal Marocco a Dubai, a spese di Goldman, per partecipare a una conferenza. L’avvocato della Lia ha presentato le note spese dell’albergo a cinque stelle Carlton e copie degli sms dal Blackberry con i quali il signor Kabbai si metteva d’accordo con una donna di nome Michella, ascoltata dalla corte londinese, per il prezzo per passare una serata in compagnia di due prostitute, costate alla banca 600 dollari, documentate sul foglio viaggio come spese extra, e rigirate quindi al cliente, il fondo sovrano libico. L’avvocato sostiene che era perfettamente chiaro al manager bancario che Michella fosse una prostituta e che lui con quei messaggi si stava assicurando i suoi servigi per lui e per suo fratello. Questo il testo di uno dei messaggi “inequivocabili” del colletto bianco in missione, appena atterrato: «Ciao cara, ti ricordi di me? Sono Youssef da Londra. Appena arrivato a Dubai. Sei disponibile stanotte, con un amico?».
Il manager, nella relazione successiva al suo viaggio, aveva presentato al suo responsabile in Goldman Sachs una relazione inappuntabile in cui parlava di «grande successo» della missione e di essere «riuscito a creare dei rapporti molto stretti» con un funzionario del fondo sovrano libico presente alla conferenza a Dubai.
Nel momento in cui Nigrizia va in stampa non è dato sapere come finirà la battaglia legale tra libici e banca americana. Certo è che da questa vicenda esce un quadretto davvero penoso dei metodi adottati dai colletti bianchi occidentali per fare affari in Africa. Peggio dei peggiori colonialisti. Considerano le controparti alla pari di schiavi, anche se gli stringono la mano e mostrano un sorriso a 30 denti. Sotto la cravatta: niente.
È significativo che l’attuale dirigenza del fondo sovrano libico abbia deciso di contestare i metodi della banca americana. Purtroppo non si tratta di una storia isolata, di un’eccezione. Ma è parte di una mancanza di etica e di una cultura aziendale sbagliata di cui siamo circondati, dove c’è sempre il miraggio del tornaconto, del profitto a tutti costi e – ahimè – la logica dello sfruttamento del continente nero. Aiutata quanto volete da élite africane corrotte, da clan e clientele, che però a volte, come in questo caso, cominciano ad alzare la testa e dire che non ci stanno. Mediando, il titolo di un celebre libro di Gino e Michele, di qualche anno fa si potrebbe dire così: «Anche gli africani nel loro piccolo a volte s’i…». Per fortuna, aggiungo io.

Fonte: Nigrizia 

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