La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 30 luglio 2016

Alla conquista della Casa Bianca

di Felice Mometti
Le elezioni presidenziali americane del prossimo novembre non saranno uguali alle due precedenti. Hillary Clinton non sarà la continuazione di Obama, e Trump per diventare candidato ha sconquassato il partito repubblicano. Quello che si sta vedendo è quasi un gioco di specchi. Le convention repubblicana e democratica, per nominare i due principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti, hanno avuto entrambe come veri protagonisti non il candidato del proprio partito ma quello/a del partito concorrente.
La demolizione dell’immagine di Hillary Clinton è stata al centro in quella repubblicana e la paura di una vittoria di Donald Trump in quella democratica. Due vere e proprie rappresentazioni di spettacoli multimediali in cui politica, retorica, economia, storytelling, social media, marketing sentimentale, terrorismo, guerra, dirette televisive non-stop, lotte intestine e baracconate da circo sono collocate tutte sullo stesso piano. Sbaglierebbe chi pensasse ad una rigida divisione di importanza e a un diverso valore tra una facciata ad uso pubblico e un dietro le quinte in cui si decidono le sorti di un partito e di una presidenza. Parafrasando un’acuta affermazione di Franco Fortini a proposito della vita, si potrebbe dire che le due convention hanno mostrato che “non si dà politica vera se non nella falsa”.
Populista e autoritario
Il compito sicuramente più difficile è stato quello di Trump. Ha dovuto gestire la Convention solo con il suo staff e la sua famiglia allargata, avendo contro gran parte dell’apparato repubblicano o di quello che ne rimane. Perché il punto sta proprio qui: oggi nessuno può dire con sicurezza che esista ancora un partito repubblicano con organismi e strutture riconosciute e legittimate a prendere decisioni ed elaborare strategie. Trump ha svuotato l’ala del Tea Party ed ha stabilito una diversa sintonia con settori consistenti dell’elettorato popolare bianco che ha subito gli effetti della crisi. Ha fatto leva su un populismo autoritario che mette insieme legge e ordine, contrasto militare dell’immigrazione, astio verso i politicanti di Washington e una visione dell’America che per tornare ad essere “grande” deve rinegoziare il proprio ruolo internazionale dal punto di vista militare, economico, commerciale. E gli interlocutori sono la Russia, la Cina e, perché no?, anche la Corea del Nord. Con i quali aprire dei negoziati che devono però avvenire al di fuori dalle organizzazioni internazionali come la Nato, il Fondo Monetario e il Wto.
Quello di Trump non è un nuovo isolazionismo americano, è il tentativo di ridefinire la potenza statunitense azzerando gli attuali trattati internazionali per stipularne di nuovi. Se si prende sul serio il suo discorso finale di accettazione della candidatura alla convention, non guardando per un momento i tweet mediaticamente provocatori e le frasi ad effetto, si scopre che esiste un minimo di progetto per accumulare forza politica ed elettorale attraverso un discorso rivolto essenzialmente alla componente bianca dei lavoratori che stanno pagando la crisi ed a una classe media impoverita. Due settori sociali che Trump vuole utilizzare come dei cunei per scardinare il fronte avversario. E intanto gioca mediaticamente a tutto campo accentuando al tempo stesso sia l’aspetto populista che quello autoritario. Siamo lontani dalla classica, e da otto anni perdente, strategia repubblicana di alleanza tra una mitica classe media stabile e il mondo imprenditoriale e finanziario. Le schermaglie iniziali, per cambiare le regole della convention, da parte di alcune decine di delegati fedeli al vecchio gruppo dirigente repubblicano sono state vanificate velocemente dall’intervento diretto dello stesso Trump. Per ora ciò che tiene insieme Trump con i suoi sostenitori è il contrasto a tutto ciò che rappresenta Hillary Clinton. I prossimi mesi diranno se il tycoon newyorchese riuscirà a fare breccia nelle gerarchie militari che contano, nei media mainstream e tra i brokers di Wall Street.
L’immagine del potere
L’aspetto che probabilmente preoccupa maggiormente l’establishment democratico è avere di fronte un avversario politicamente poco riconoscibile e del tutto imprevedibile. Lo dimostra l’organizzazione e la gestione della convention democratica. Con una candidata al limite dell’impresentabilità, visti i suoi trascorsi da Segretario di Stato e con una debolezza intrinseca dell’immagine che veicola, tutta interna ai poteri forti, la scelta è stata quella di ampliare quasi a dismisura la spettacolarizzazione di sensibilità politiche e culturali, condizioni sociali, convinzioni religiose, collocazioni di genere, presidenti ed ex presidenti, first lady ed ex Segretari di Stato. Dal palco si sono alternati senza soluzione di continuità grandi manager e segretari dei maggiori sindacati, madri di giovani afroamericani uccisi dalla polizia e poliziotti inneggianti la “sicurezza”, esponenti Lgbt e religiosi in odore di omofobia, generali dell’esercito e pacifisti e via di questo passo. All’attacco di Trump si è risposto con la rappresentazione della società americana di cui la presidenza di Hillary Clinton sarà contemporaneamente mediatrice e sintesi. Più sintesi dall’alto a prescindere che mediazione tra interessi contrapposti. Lo si è visto nella discussione sulla piattaforma politica che dovrebbe essere il punto di riferimento della campagna elettorale e sulle proposte di cambiamento delle regole di funzionamento del partito democratico.
Fatte alcune concessioni al programma di Sanders sul salario minimo a 15 dollari l’ora e sulla gratuità del sistema educativo per famiglie con redditi bassi, il resto sono promesse vaghe e fumose. D’altra parte non si è mai vista una campagna presidenziale democratica che si sia attenuta alla piattaforma politica votata in una convention. Più di sostanza è stato il blocco dell’apparato a qualsiasi cambiamento delle regole. I contestatissimi super delegati delle primarie, quelli che non sono eletti, sono rimasti. Le prossime primarie avranno la stessa formula e non saranno completamente aperte alla partecipazione. L’azione di lobbying dei grandi gruppi industriali e finanziari attraverso i milioni di dollari che arrivano con i super-Pac non è intaccata. Ed infatti i multimiliardari Soros, Bloomberg e i fratelli Koch hanno annunciato che investiranno, nelle prossime elezioni, centinaia di milioni di dollari per sostenere Hillary Clinton e i candidati democratici al Senato ed alla Camera dei rappresentanti. Il discorso finale di Hillary Clinton, dopo alcune concessioni al programma di Sanders, è stato un misto di decisionismo e appelli all’unità contro Trump. L’unità del partito democratico è vista come propedeutica all’unità della società e il presidente, con il potere che esercita, ne è l’incarnazione simbolica e l’interprete.
Il vicolo cieco
Cambiare dall’interno la struttura e il profilo politico del partito democratico. Questo è stato l’obiettivo fin dall’inizio dichiarato della “rivoluzione politica” di Bernie Sanders durante le primarie. Un obiettivo che progressivamente è stato stravolto dalla partecipazione imprevista di decine di migliaia di volontari che hanno visto nelle primarie di Sanders la possibilità di un cambiamento del sistema, di centinaia di gruppi di base – rimasti in attività dopo la fine del movimento Occupy – portatori di istanze politiche e sociali non riassorbibili nel partito democratico. Sanders, nonostante lui, è stato percepito come l’alternativa politica alla gabbia del bipartitismo. Un’investitura troppo pesante e ingombrante per il senatore socialdemocratico del Vermont. Ed infatti le aspettative di molti "sanderistas" sono state deluse.
Dapprima, già pochi giorni dopo la conclusione delle primarie, con la proposta di Sanders e del suo staff di indirizzare la “rivoluzione politica” verso la conquista di cariche politiche, amministrative e istituzionali soprattutto a livello locale con il solito e poco originale discorso che i “movimenti” non hanno sbocchi senza una rappresentanza politica. Poi, nelle giornate della convention, con un’operazione di contenimento dei delegati "sanderistas" più radicali agitando lo spettro di Trump e quindi facendo passare Hillary Clinton come il meno peggio. Il risultato è stato il disorientamento e la frammentazione dei 1900 delegati di Sanders che a questo punto prenderanno strade diverse. Una parte guarderà alla candidatura della verde Jill Stein, un’altra proseguirà il percorso nel partito democratico e una terza, probabilmente la più grossa, andrà semplicemente a casa. È vero che la storia non si ripete mai alla stesso modo ma le similitudini con il fallimento della Coalizione Arcobaleno di Jesse Jackson all’interno del partito democratico, negli anni ’80, sono state preoccupanti.
Attorno alle convention
A Cleveland e a Filadelfia, le sedi delle due convention, non ci sono state le grandi contestazioni più volte evocate. Le due città, soprattutto Cleveland dove c’era Trump che è stato oggetto solo di una contestazione simbolica, sono state letteralmente militarizzate con decine di migliaia di agenti di polizia e l’istituzione di “zone rosse”. Tuttavia questo spiega solo in parte la scarsa mobilitazione. Dopo un più di un mese di discussioni rimpallate sui social media tra sostenitori di Sanders, senza un momento collettivo di discussione politica prima della convention, la manifestazione che doveva essere una prova di forza dei "sanderistas" ha raccolto meno della metà dei partecipanti che si attendevano. Una ventina di organizzazioni e gruppi della sinistra radicale e dei verdi hanno organizzato a Filadelfia, parallelamente alla convention democratica, una quattro giorni di discussione su una molteplicità di temi, dal socialismo al femminismo passando per il futuro del “movimento”, che però non ha prodotto le convergenze sperate. Le manifestazioni promosse dalla Philadelphia Coalition for Real Justice potevano costituire un momento di coagulo delle proteste, contro le uccisioni di afroamericani da parte della polizia che hanno attraversato gli Stati Uniti nell’ultimo mese. Ma dopo le sparatorie di Dallas e Baton Rouge in cui sono morti otto agenti di polizia, e la violenta campagna che ne è seguita contro Black Lives Matter con l'associazione del movimento a quei fatti, sono emerse tutte le difficoltà a mettere in campo mobilitazioni antirazziste conflittuali. Un’occasione persa? Probabilmente sì. Tuttavia si pone una questione che, a questo punto, non è possibile aggirare: sono le convention e la prossima campagna presidenziale insieme al loro indotto politico il terreno più favorevole per produrre conflitto sociale? È una discussione che sta affiorando in una serie di ambiti che si riconoscono in Black Lives Matter.

Fonte: communianet.org

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