La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 30 luglio 2016

White cop, black man. La lunga guerra che avvelena l’America

di Enrico Beltramini
Tanto tuonò che piovve. In questi giorni è facile associare i fatti di Dallas a qualche movimento globale di disunione, come se la faglia che divide bianchi e neri in America fosse espressione di un terremoto sociale recente. Se vogliamo capire Dallas e tutto il resto dobbiamo invece tornare agli anni Novanta, quando per la prima volta si cominciò a notare che ad andare in prigione erano (quasi) soltanto gli afroamericani. Le percentuali disegnavano un quadro razziale incontestabile: i maschi neri erano dieci volte più delinquenti di quelli bianchi. Non solo: i neri andavano in prigione più spesso e ci stavano più a lungo.
L’immagine della comunità afroamericana che emergeva dai primi studi su razza e giustizia era impressionante: famiglie composte da ragazze madri, i mariti spacciatori che andavano in prigione da giovani e poi ancora da adulti. Una comunità letteralmente sfasciata dal punto di vista sociale, degradata da quello morale. Negli anni Duemila, però, iniziò ad emergere un quadro diverso, un quadro altrettanto inquietante: una serie di leggi introdotte durante l’Amministrazione Reagan che colpivano reati minori e li trasformavano in reati maggiori si accoppiava ad una diffusa pratica di profiling.
Il profiling è l’attività di prevenzione che le forze dell’ordine svolgono sulla base di statistiche. Per esempio, se le statistiche mostrano che una certa zona della città è diventata il centro dello spaccio di droga da parte di maschi neri, i poliziotti concentrano la loro attenzione in quella zona sui maschi neri. È l’istituzione della macchina perpetua: alcune leggi trasformano certi reati minori in reati maggiori; questi reati sono quelli commessi soprattutto da membri della comunità nera. A poco a poco si costruisce una statistica che certifica la comunità nera come particolarmente delinquente. A questo punto, la polizia concentra i suoi sforzi preventivi su quella comunità.
Per chi ama le storie di complotti, ci sono gli articoli scritti da Gary Webb nel 1996 sul San Jose Mercury Journal che descrivono una connessione tra la droga venduta nei ghetti neri di Los Angeles e San Francisco dal cartello dei narcotrafficanti e il finanziamento dei Contras – il movimento sostenuto dagli Stati Uniti per abbattere il regime sandinista — in Nicaragua, il tutto sotto lo sguardo benevolente della Cia. La storia raccontata da Gary Webb, recentemente portata sugli schermi dal film Killing the Messager, non è mai stata confermata da prove inconfutabili. La storia ha comunque impresso nell’immaginario collettivo, soprattutto afroamericano, l’idea che il governo lavora contro i neri.
Non ci volle molto, prima che dalla comunità afroamericana si sollevassero voci che identificano la giustizia e la polizia come le componenti di una nuova forma di segregazione. Per la verità, queste voci recuperano problemi antichi e mai risolti. La polizia ha sempre avuto un ruolo ambiguo nella storia delle relazioni razziali in America. Teoricamente, la polizia è neutrale rispetto alla razza e fa rispettare la legge a tutti. Ma già più di mezzo secolo fa divenne chiaro ai leader neri del movimento dei diritti civili che una polizia bianca è parte integrante di un potere bianco.
Leader moderati come Martin Luther King, Jr. non mancavano mai,nelle loro richieste a livello locale o nazionale, di introdurre la proposta di poliziotti neri. Leader meno moderati di King come Stokely Carmichael puntavano il dito sul rapporto tra una polizia bianca e un sistema di leggi che discrimina i neri. La polizia era interpretata come la cinghia di trasmissione di un potere razziale, quello bianco, esercitato da una polizia composta interamente da bianchi. Di questa polizia era legittimo dubitare e ad essa era accettabile ribellarsi. Era, di fatto, una forza di occupazione razziale. Negli anni Sessanta e soprattutto nel decennio successivo, poliziotti neri cominciarono ad apparire ovunque, a dimostrazione che le porte della polizia erano aperte veramente a tutti.
Ancora oggi, la differenza tra leader neri moderati e radicali non è tanto sulla neutralità della polizia: per entrambi la polizia non è imparziale. La differenza sta nel giudizio sulla neutralità della legge: i primi sono ancora propensi a considerare la legge come espressione di una giustizia “giusta”, i secondi sono convinti che anche la legge – così come altre istituzioni sociali – è espressione del potere di una razza sull’altra. A Dallas e in Missouri e Louisiana abbiamo tutto questo coacervo di pensieri e sospetti (la polizia non è neutrale, la polizia lavora a favore dei bianchi, la polizia difende una legge che discrimina tra bianchi e neri) che avvelena le relazioni razziali.

Fonte: Pagina99 

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