La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 17 agosto 2016

Dopo le rotture politiche: Iran, Egitto, Turchia

di Richard Falk 
Una rottura politica è una sequenza di eventi che colpiscono le relazioni tra stato e società e il suo verificarsi non è né ampiamente previsto né correttamente interpretato dopo che accade. Dopo una rottura ha luogo una revisione della realtà politica che comporta una ricalibrazione delle relazioni stato/società in modi che restano occasioni di duratura memoria storica. Spesso queste occasioni sono eventi negativi, come sono Pearl Harbor e l’11 settembre per gli Stati Uniti, ma a volte incarnano punti di luce nel passato come nel caso del 4 luglio che commemora la promulgazione della Dichiarazione d’Indipendenza.
L’11 settembre è stato l’esperienza statunitense più recente di una rottura politica. Ha ri-militarizzato le relazioni stato/società all’interno del paese e trasformato la politica estera. Ha marginalizzato dibattiti sulla globalizzazione economica è ampliato il paradigma bellico oltre conflitti tra stati sovrani e al loro interno. Nel farlo ha evidenziato nuove caratteristiche dei conflitti interni, trattato il mondo intero come un campo di battaglia contro il terrorismo e riscritto la legge internazionale dell’autodifesa. Invece di reagire agli attacchi, l’autodifesa nazionale, interpretata come politica anziché come diritto, è stata spettacolarmente ampliata a includere minacce remote percepite e persino forze potenziali latenti.
Un’altra caratteristica innovativa del presente contesto globale è la preminenza di attori non statali come principali antagonisti. Tale preminenza assume la duplice forma degli Stati Uniti come ‘stato globale’ e di ISIS, al-Qaeda e altri come attori politici non territoriali, o al massimo semi-territoriali, ma sicuramente non stati vestfaliani come intesi dalle norme di appartenenza all’ONU. Gli Stati Uniti in molti dei loro ruoli e delle loro attività operano come uno stato vestfaliano che accetta limiti ai suoi diritti di sovranità basati su confini internazionalmente riconosciuti e sul territorio incluso al loro interno e rispetta la sovranità di altri stati. Ciò che rende gli Stati Uniti uno stato post-vestfaliano o globale è la sua proiezione della forza militare nel mondo intero, rafforzata da piani non territoriali di pretese di sicurezza assieme a estese reti globali di influenza diplomatica, economica e culturale.
Ciò che tutto questo significa è complesso, in evoluzione e controverso. Significa in effetti che la guerra è divenuta di nuovo, come prima dell’Accordo di Pace di Parigi del 1928, un dominio largamente discrezionale della politica, almeno per gli attori geopolitici. Stiamo vivendo, nella straordinaria formulazione di Mary Kaldor, un’era di ‘nuove guerre’. La riscrittura della legge internazionale è condotta, mediante pratiche statali autoritarie e in larga misura non contestate, principalmente dagli Stati Uniti. Ai margini persiste un’interpretazione subordinata della legge internazionale di guerra che indugia su ciò che è scritto nei libri, iscritto nella politicamente non revisionabile Carta dell’ONU e plasmato da pratiche autoritarie molto divergenti che offrono un utile riassunto delle aspettative riguardo agli usi della forza. I giuristi devono ancora chiarire, per non parlare di codificare, queste nuove realtà in una giurisprudenza riformulata che per essere utilmente descrittiva deve rispondere concettualmente e normativamente al carattere sempre più non vestfaliano dell’ordine mondiale.
Ci sono anche rotture politiche più contenute che hanno il loro centro principale nella natura interna delle relazioni stato/società e sembrano essere eventi territoriali o regionali che possono avere ripercussioni globali ma non contestano i quadri preesistenti della legge e della sicurezza che modellano l’ordine mondiale. Io ho un interesse particolare, indubbiamente riflettente la mia prossimità per esperienza, a tre rotture politiche che hanno avuto luogo in Medio Oriente: Iran, 1979; Egitto, 2011/2013; Turchia, 2016. In ciascuno di questi casi i problemi sorti hanno toccato non solo il controllo e la riforma delle strutture statali, ma anche gli equilibri stato/società relativi a sicurezza e libertà, le relazioni tra religione e politica, il contestato protagonismo di forze sociali popolari e l’ampliamento o la contrazione della democrazia costituzionale. In ciascuno di questi scenari nazionali la controversa responsabilità degli Stati Uniti come attori influenti introduce il ruolo spesso problematico di uno stato globale come attore cruciale nell’interazione di forze politiche nazionali contendenti.
Confrontare queste rotture politiche è istruttivo per afferrare che cosa funziona e che cosa fallisce quando si tratta di politiche trasformative che sono variamente condotte dal basso, dall’altro, dall’esterno e dall’interno per realizzare cambiamenti fondamentali o per opporvisi. In alcuni casi ci sono coalizioni di forze che confondono queste distinzioni e l’interazione è dialettica anziché collaborativa o antagonistica. Specialmente l’immaginata o dimostrata rilevanza di coinvolgimenti esterni dà spazio a spiegazioni complottistiche, che sono negate o celate fino a quando le rivelazioni di WikiLeaks e dei suoi vari collaboratori non denunciano una parte maggiore della verità, anche se non necessariamente con una contro-narrazione coerente o diffusamente accettata. La diplomazia formale dell’ordine mondiale è tuttora largamente basata sull’autonomia e la legittimità degli stati sovrani, la principale premessa normativa dell’invenzione europea del sistema stato-centrico di Wesftalia, ma ciò è stato sempre caratterizzato a vari livelli da ambizioni e realtà geopolitiche e, nonostante il crollo del colonialismo, questo ruolo di ordinamento gerarchico resta una caratteristica definitoria del mondo contemporaneo, ma tende a essere divenuto più coperto e difficile da stabilire sulla base di fonti pubbliche. Diversamente dal passato imperiale in cui le gerarchie geopolitiche erano pubbliche e trasparenti, i modelli d’intervento e di governo extra-territoriale post-vestfaliani sono tenuti in larga misura il più celati possibile al controllo pubblico.
La mia intenzione è di citare molto brevemente le esperienze di Iran ed Egitto e di concentrarmi sulla situazione in svolgimento in Turchia dopo il fallito tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016. Poiché questi sviluppi in Turchia devono ancora assumere una forma definitiva o finale, la fluidità della situazione è esemplificativa delle forze in contesa e l’esito influenzerà per il meglio o il peggio il futuro della democrazia turca ed eserciterà anche un forte impatto sugli allineamenti regionali e globali.
Iran 1979: Dall’ottica del 2016 è difficile comprendere l’intensità della rottura politica attuata dalla straordinaria rivolta popolare in Iran che pose fine al governo dinastico della Dinastia Pahlevi con l’abdicazione dello Scià. Ciò che fu straordinario, al di là della manifestazione dell’impatto trasformativo di un popolo mobilitato, preparato a rischiare la morte affrontando i violenti guardiani del potere statale per esprimere la sua opposizione all’ordine costituito, fu il ruolo dell’Ayatollah (o Imam) Ruhollah Khomeini nel guidare il movimento anti Scià. Nella loro mancata percezione della minaccia allo Scià fino a quando non fu troppo tardi, gli Stati Uniti furono presi alla sprovvista dall’emergere dell’Islam politico come fonte di opposizione alla loro grandiosa strategia in Medio Oriente, costruita attorno ai presupposti ideologici della Guerra Fredda, cioè, antisovietica riguardo agli allineamenti internazionali e antimarxista, filo-capitalista riguardo alla vita politica interna. L’Islam era trattato come un alleato irrilevante oppure importante.
L’Iran fu un grande teatro di contestazione durante tutta la Guerra Fredda. Andrebbe ricordato che gli Stati Uniti hanno in una certa misura ammesso il ruolo della CIA nel colpo di stato del 1953 contro il governo democraticamente eletto di Mohammed Mossadeq. Era affermato che Mossadeq stava aprendo l’Iran all’influenza sovietica, ma le mosse contro di lui sembrano principalmente motivate dalla sua stridente forma di nazionalismo economico, giunto all’apice con la nazionalizzazione della Anglo-Iranian Oil Company. E’ degno di nota che, dopo che lo Scià fu rimesso sul trono, una prima iniziativa fu di ri-privatizzare l’industria petrolifera, dividendone la proprietà tra giganti del petrolio europei e statunitensi, soppiantando in tal modo il dominio industriale britannico della produzione petrolifera iraniana.
La rottura del 1979 fu notevole per molti aspetti: l’emergere dell’Islam politico come sfida formidabile gli interessi occidentali in tutto il Medio Oriente post-coloniale; la trasformazione rivoluzionaria dello stato iraniano, con la creazione di una Repubblica Islamica che governava un quadro costituzionale riformato teocraticamente e una struttura statale accompagnatoria; l’identificazione degli Stati Uniti come “il grande dragone”, il principale nemico dell’Iran e dell’Islam, una situazione ulteriormente aggravata dalla crisi degli ostaggi dopo l’occupazione dell’Ambasciata statunitense di Teheran durata più di un anno; l’incendiario impatto del fallito tentativo a guida statunitense di conseguire obiettivi contro-rivoluzionari incoraggiando l’attacco iracheno del 1980 e mediante varie operazioni clandestine mirate a destabilizzare il paese dall’interno.
Nei suoi effetti durevoli la rottura del 1979 ha prodotto uno stato islamico teocratico che ha creato una forma limitata di governo democratico, un prolungato scontro con l’occidente e con i rivali regionali, specialmente Arabia Saudita e Israele; alti e bassi di minacce militari, sanzioni e sfide dirette alla dirigenza in Iran e iniziative diplomatiche alla ricerca di un certo grado di normalizzazione, più notevolmente l’Accordo sul Nucleare Iraniano del 2015.
Egitto 2011 e 2013: Senza alcun riconoscimento diretto all’Iran, ciò che ha avuto luogo in Egitto, dopo una rottura simile in Tunisia, è stato una rivolta riuscita che ha indotto Hosni Mubarak, la cui presenza dittatoriale aveva dominato la politica egiziana per trent’anni, a cedere il potere politico. La duratura importanza della rivolta popolare è consistita nell’esibire la forza politica di una popolazione mobilitata nel mondo arabo, e anche nel dimostrare che i media sociali potevano servire come arma potente di resistenza politica, se utilizzati correttamente. Tuttavia, a posteriori, il movimento associato a Piazza Tahrir mancava di una comprensione politica o della politica dell’Egitto o della misura in cui l’ordine costituito abbracciava le forze armate ed era deciso a mantenere il controllo dello stato dopo aver sacrificato il suo leader di lungo corso. L’assenza di consapevolezza del vero equilibrio di forze politiche in Egitto si è manifestata presto attraverso un successo elettorale di partiti politici islamici, specialmente del partito associato alla Fratellanza Mussulmana, ben oltre quanto previsto. La mancata comprensione, da parte dei militanti di Piazza Tahrir, del pericolo contro-rivoluzionario è stata manifestata specialmente dalla loro disponibilità a lasciare intatta la precedente burocrazia governativa e a considerare le forze armate esecutrici affidabili della volontà popolare piuttosto che in debito con le loro affiliazioni al vecchio ordine politico ed economico costituito come operava nell’era Mubarak e beneficiando degli stretti collegamenti politici e professionali con gli Stati Uniti.
Per tutti questi motivi gli sviluppi politici in Egitto dopo che il candidato della Fratellanza Mussulmana, Mohamed Morsi, era stato eletto presidente ci aiutano ad afferrare la forza della reazione contro-rivoluzionaria culminata nel colpo di stato guidato dal generale Abdul Fattah al-Sisi, con un enorme sostegno populista all’insegna dello slogan “le forze armate e il popolo sono una cosa sola” (oppure “dita della stessa mano”). Il risultato del colpo di stato del 2013 è stato la restaurazione del governo autoritario, più sanguinario nelle sue tattiche oppressive che sotto Mubarak, una repressione diretta contro dimostranti pacifici ed estesa alla dirigenza eletta del paese della Fratellanza Mussulmana e, significativamente, un’immediata risistemazione delle relazioni con gli Stati Uniti, l’Unione Europea e Israele, oltre a essere destinatario di una grande infusione di assistenza economica da parte di numerosi governi di paesi del Golfo.
Quella che questi eventi egiziani rivelano è l’acuta vulnerabilità di una sfida extra-legale all’ordine costituito che non prende il controllo di istituzioni statali chiave dopo essere riuscita a eliminare il governo dittatoriale. E inoltre che lo scontento popolare può essere ritorto contro il riformismo politico facendo tornare indietro l’orologio del progresso, specialmente se le forze armate continuano a rispondere a rilevanti priorità geopolitiche e la nuova dirigenza non assicura progressi economici alla popolazione, specialmente ai poveri urbani. Forse l’effetto più duraturo degli eventi del 2011 e 2013 consiste nel superare la prima impressione della passività profondamente radicata delle masse arabe e nella relativa idea che il populismo può operare a favore o contro programmi laici o islamici in dipendenza del contesto interno e del suo mutevole rapporto di forze.
Turchia 2016: Il tentato colpo di stato arrivato prossimo alla riuscita, ma fallito, la notte del 15 luglio è stato immediatamente convertito dal governo turco in un’istantanea festività in commemorazione di quelli che avevano dato la vita per salvare la repubblica turca dai suoi nemici. Ci sono pochi dubbi in Turchia, indipendentemente da idee divergenti su altri temi, che il movimento Hizmet guidato da Fetullah Gulen abbia la responsabilità principale del tentativo di colpo di stato. E, di nuovo, c’è una diffusa accettazione da parte dei turchi della relativa percezione che il governo degli Stati Uniti abbia aiutato e favorito il tentativo di golpe e sia anche stato profondamente coinvolto per molti anni nel prestare varie misure di sostegno al movimento Gulen. In quale misura e a quale fine è molto dibattuto, ma con scarse prove concrete, tuttavia molti collegamenti sospetti tra la CIA e Fetullah Gulen sono stati rivelati, compresa persino la sponsorizzazione della carta verde di residenza di Gulen negli Stati Uniti da notabili della CIA quali Graham Fuller.
E’ troppo presto per riordinare i fatti a sufficienza per proporre un resoconto chiaro del tentativo di colpo di stato, della sua peculiare tempistica, della sua esecuzione raffazzonata e delle sue intenzioni politiche. Quello che è chiaro a questo punto è che il fallimento del golpe è una rottura politica diversa sia dalla Rivoluzione Iraniana, sia dalla rivolta egiziana rovesciata da un colpo di stato militare populista. Le reazioni del governo turco guidato da Erdogan si sono concentrate sul cogliere l’occasione del seguito come opportunità di forgiare unità e riconciliazione nazionale e questo ha sinora prodotto risultati impressionanti nella forma principale della creazione di un fronte comune tra i tre principali partiti politici del paese, culminato nella manifestazione di Yenikapi che ha riunito diversi milioni di persone il 7 agosto a Istanbul ad ascoltare i discorsi dei capi del governo e dei capi dei due principali partiti d’opposizione. Ulteriori segnali di quello che è chiamato lo Spirito di Yenikapi sono stati giganteschi ritratti di Erdogan e Kemal Ataturk sulla parete dietro il podio usato dagli oratori e, notevole, una lunga citazione di Ataturk nel mezzo del discorso di Erdogan. Questa inclusione positiva di Ataturk è una forte indicazione che il partito di governo sta facendo un gesto di accettazione ai kemalisti e ad altri oppositori laici che erano considerati i critici più fermi dello stile e della sostanza di Erdogan e offre una riassicurazione che lo stato turco non abbandonerà il suo orientamento laicista mentre si avvia alla riforma costituzionale e alla peculiare sfida, post tentativo di golpe, di eliminare la penetrazione gulenista dalle istituzioni dello stato e della società che a lungo aveva coltivato intenzioni sovversive tra i quadri della sua dirigenza segreta fingendo contemporaneamente, persino nei confronti dei suoi aderenti fedeli, di promuovere la moderazione nonviolenta, i diritti umani e un Islam moderato e flessibile.
Dopo un così lungo periodo di polarizzazione i laicisti anti-Erdogan, anche se almeno profondamente grati che il golpe sia fallito e intensamente critici del piano gulenista, nonché convinti che gli Stati Uniti abbiano le mani sporche, restano diffidenti e sospettosi dei motivi di Erdogan. Segnalano che il ritratto di Ataturk era presente, e delle stesse dimensioni di quello di Erdogan, solo perché Kemal Kilicdaroglu, capo del CHP (Partito Popolare Repubblicano) ne aveva fatto una condizione della sua partecipazione e presenza. Segnalano anche che Erdogan nel suo discorso si è riferito ad Ataturk come a ‘Mustafa Kemal’, evitando il nome onorifico conferitogli dal parlamento turco [Ataturk significa ‘padre dei turchi’ e fu conferito a Mustafa Kemal per decreto – n.d.t.]. Gli avversari di Erdogan sostengono che egli sta sfruttando l’atmosfera di rafforzato patriottismo per attuare una purga governativa, incarcerando e allontanando migliaia di persone, dichiarando lo stato di emergenza, montando il sostegno popolare al ripristino della pena di morte e facendo procedere piani per un referendum che avalli la sua forte promozione di una riforma costituzionale che comprende la creazione di una presidenza esecutiva con pesi e contrappesi minimi.
A temperare questo scetticismo dei laicisti anti-Erdogan ci sono diverse considerazioni che conducono a una valutazione complessiva della situazione attuale più ottimista. Innanzitutto, e soprattutto, ha puntato il suo futuro politico su un approccio basato sulla riconciliazione e sul fatto che lavorare in futuro comporta un impegno a una democrazia più partecipativa e più inclusiva. Questo può apparire strumentale, ma era lontano dall’essere prevedibile prima del 15 luglio. Sarebbe stato molto fattibile per Erdogan, nell’infiammata atmosfera post-golpe, riaffermare con forza la democrazia maggioritaria, affermando di aver ricevuto un mandato dal popolo turco per governare senza limitazioni e per ricostruire lo stato sulle linee preferite dall’AKP. L’approccio riconciliativo può non durare, e dipende dalla reciprocità, ma fintanto che dura l’accento sulla democrazia inclusiva implica una volontà di giungere a compromessi, compresa la riaffermazione di fondamenta laiciste per la nuova costituzione proposta. Vero, Kilicdaroglu ha negoziato per ottenere che l’immagine di Ataturk apparisse alla manifestazione, ma la disponibilità di Erdogan a cedere terreno e mostrare flessibilità è ciò che dà fondamento alla fiducia riguardo al futuro.
Per quanto riguarda le sospensioni di massa, specialmente quelle riguardanti giornalisti, media e istituzioni di istruzione, ci sono motivi di preoccupazione. Ci sono anche motivi contestuali per esitare a dar voce a critiche dimenticando che minacce alla sicurezza sono tuttora presenti e difficili da valutare e identificare. Dopotutto lo stato turco è ha malapena sopravvissuto a un colpo di stato organizzato dall’interno ed evidentemente rafforzato da elaborate reti di sostenitori di Gulen infiltrati cosi diffusamente da rendere virtualmente impossibile distinguere l’amico dal nemico. Parte della strategia di Gulen consisteva nel guadagnare e diffondere la sua influenza attraverso il suo esteso sistema scolastico e le scuole superiori militari gestite dal governo. Ci sono numerose notizie, apparentemente credibili, che le domande per l’esame di ammissione erano fornite in anticipo a studenti successivamente sottoposti alla disciplina a livello di culto del movimento Hizmet. Quello che resta da vedere è se sarà compiuto un tentativo coscienzioso di distinguere tra l’innocenza e la colpevolezza in conformità al giusto processo e al primato della legge. Lo stato è autorizzato ad adottare misure ragionevoli per difendersi e ciò comprende la dichiarazione di uno ‘stato d’emergenza’ di 90 giorni, ma una pretesa di autorità straordinaria resta un momento in cui accertare se i diritti dei cittadini sono rispettati e sono operate le distinzioni tra i colpevoli e gli innocenti. Di nuovo, se Erdogan vuole sostenere lo Spirito di Yenikapi, ha un forte incentivo a evitare di scatenare una caccia alle streghe e a frenare rapidamente gli eccessi ogni volta che siano individuati.
La rottura politica in Turchia, fino a questo punto, riguarda il nucleo centrale delle relazioni stato/società. Il fatto che il fallimento del tentativo di colpo di stato sia principalmente attribuito al “popolo” è un riconoscimento del potere e della responsabilità della cittadinanza di difendere un governo eletto quando minacciato da prese del potere illegali e violente. In quanto tale estende il mandato democratico oltre le urne ed esplora un ruolo protettivo della popolazione turca e la responsabilità di essa. Nel caso del ruolo del populismo in Iran e in Egitto si trattava di montare l’opposizione contro gli abusi dello stato, mentre in Turchia è stato tutto il contrario: la difesa dello stato contro un’impresa ostile e illegale di sovversione, guidata da operativi di Gulen nell’esercito.
Come nel caso delle precedenti rotture in Iran e in Egitto, il governo degli Stati Uniti sembra aver avuto un ruolo in ombra, e ancora non provato, negli eventi del 15 luglio così come nella costruzione nel corso degli anni delle vaste reti dell’influenza di Gulen non solo in Turchia ma mediante la sua presenza nel campo dell’istruzione in più di 100 paesi. Il rapporto degli Stati Uniti con la Turchia è gravemente a rischio se risulterà che la CIA è intervenuta attivamente in un importante alleato della NATO. Rabbia e sospetti sono stati determinati dalla mancata dimostrazione da parte degli Stati Uniti di un maggiore sostegno al governo turco eletto mentre gli svolgevano gli eventi del colpo di stato, in sfavorevole contrasto con l’immediata reazione di Russia e Iran. Il persistere dell’anti-americanismo dipende anche da come gli Stati Uniti gestiscono la richiesta forma turca di estradizione. Per motivi tecnico-legali, così come per probabile imbarazzo politico, sembra estremamente dubbio che la richiesta sarà accolta. Come Erdogan ha già chiarito, un rifiuto statunitense di estradare, indipendentemente dai motivi offerti, sarà considerato inaccettabile. In Turchia la rabbia non sarà ridotta se la decisione si celerà dietro ragionamenti legali standard (nessuna prospettiva di un processo equo; possibile applicazione retroattiva della pena di morte e accuse incentrate su reati politici non suscettibili di estradizione). Si ricordi il rifiuto degli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, di accettare la risposta del governo afgano guidato dai talebani che sarebbe stato disposto a consegnare Osama Bin Laden, ma solo se gli fossero state fornite prove convincenti del suo ruolo negli attacchi. Tale risposta fu scartata e nemmeno per un istante distrasse la presidenza Bush dal procedere al suo intervento di cambiamento militare di regime.
Come nel caso della rottura iraniana, gli sviluppi in Turchia sembrano aver già avuto effetti geopolitici profondi, specialmente rafforzando molto le mosse turche verso la creazione di stretti rapporti diplomatici ed economici con la Russia, muovendosi più vicina all’Iran e adottando un approccio meno a somma zero al conflitto siriano. A oggi né Ankara né Washington hanno citato queste svolte politiche come motivi di tensione. In realtà il governo statunitense ha segnalato la sua disponibilità a esaminare seriamente la richiesta turca di estradizione. E’ in gioco molto, compresa la lotta contro l’ISIS condotta dalla grande base dell’aviazione statunitense a Incirlik, dove risultano conservate 50 armi nucleari.
La Turchia post-rottura presenta molte incertezze in questa fase. Tra le più importanti ci sono le seguenti:
– esiste una continua seria minaccia di un secondo tentativo di colpo di stato?
– terrà l’attuale spirito di riconciliazione basato su una democrazia partecipativa e inclusiva? Sarà ampliato a includere il partito politico filo-curdo (HDP)? Erdogan tornerà a suo precedente (2002-2009) stile di dirigenza moderata e pragmatica, abbandonando il genere di ambizioni autoritarie che si sono dimostrate così divisive dopo il 2010?
– quale impatto, se lo avrà, avrà la devozione mussulmana di Erdogan sul futuro politico della Turchia?
– come sarà influenzata la geopolitica? Una diplomazia di equidistanza tra Russia e Stati Uniti/Europa? Riallineamento mediante svolte in direzione di Russia, Iran, forse Cina e India?
Non può essere predetto con nessuna sicurezza come queste diverse questioni saranno risolte e ciò dipenderà da complesse interazioni all’interno della Turchia, nella regione e nel mondo. Incoraggerebbe migliori esiti futuri se i media in occidente adottassero un approccio più imparziale che mostrasse comprensione per il trauma generato dal tentativo di colpo di stato e per le difficoltà di ripristinare la fiducia nella lealtà delle istituzioni pubbliche, particolarmente delle forze armate. Sfortunatamente finora gli aspetti positivi della reazione alla rottura turca del 15 luglio sono stati largamente ignorati in Europa e in Nord America e gli aspetti problematici sono stati sottolineati senza nemmeno dar giusto spazio al contesto.

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: RIchardfalk.com
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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