La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 20 agosto 2016

Elsa Morante e il ’68

di Vittorio Giacopini
“È un manifesto”. Più nel senso di un grande poster, di uno striscione colorato, di un tazebao cinese o psichedelico, che non come scritto dottrinario, declamante. Una parola carica di modernità, con tutto il suo portato di Marx & Engels, futuristi, Artaud, Port Huron, avanguardie, diventa il gesto-sberleffo di una sciamana mai così cupa e mai così candidamente sboccata e ciarliera, irriverente. A più di quarant’anni da quei versi – e da quei giorni, insoliti, di maggio – Il mondo salvato dai ragazziniresta un po’ un testo arcano, un abracadabra.
Sì, era un manifesto (è la prima parola della celebre lista in quarta di copertina) ma, appunto, più in senso materiale che come organizzata presa di posizione sulla storia o sul mondo, sulla politica (e sull’agire il fare il progettare). Alla rovescia, in senso già ribelle, sovversivo, è come il cartello réclame che annuncia il passaggio in città della Grande Opera (“i manifesti affissi nella strade/ non danno nessuna spiegazione”).
Quel che è evidente è, invece, il rapporto – paradossale, ambiguo, vertiginoso – con l’universo attorno e con le cose che sono e accadono o ancora non accadono e non sono ma dovrebbero essere e accadere. Con le antenne sensibili di un qualche divino insetto o la bacchetta fatata del rabdomante, Elsa Morante già dialogava, a modo suo, ovvio, con la Storia. Era la prima volta, se vogliamo, forse la fine – provvisoria – del suo “gioco segreto” (Garboli), del suo splendido autismo d’artista sommo. Però, anche qui, nulla è scontato, e poi, soprattutto, niente è dovuto. Il “siamo tutti coinvolti” del maggio francese doveva essere, per una come lei, imperativo ovvio e, insieme, già ricatto, ideologia.
Parlare, dire, trasformare in voce pubblica e lirica civile il proprio verbo: quando la Morante sente l’urgenza di un atto di presenza, si esprime in versi. Era anche un modo per esserci e sottrarsi, senza fuggire, e per proteggere la parola (col suo sacro spessore di profezia) dal rischio di una facileprassi, dalla retorica. Scrivere (o disegnare: Il mondo salvato dai ragazzini, dice la Morante, è anche “un fumetto”) un manifesto senza teoremi, diktat, indicazioni pratiche, consigli: è una scelta difficile, un vero azzardo. Correva il rischio del mancato riscontro, del fallimento. Per chi sapeva, e seppe, leggere (o almeno intuire, intravedere: Fachinelli, Fofi, Pasolini) quel libro arcano fu anche una spina nel fianco. Quel libro parlava al “Movimento”, ai giovani, al presente, ma da un’ardua regione di più ampia coscienza, e più sofferta. Però è vero: poteva essere, doveva essere, anche un “manifesto”. Pasolini lo vide e colse l’ ironia della faccenda. Quasi nessuno voleva raccogliere quel messaggio in bottiglia, impegnativo: “Il libro della Morante è addirittura un manifesto politico. Il manifesto politico, potrei dire paradossalmente, di quella nuova sinistra che in Italia pare non poter esistere, crescere, riaffondando subito nel vecchio qualunquismo e nel complementare moralismo…”.
Un manifesto allora, un canto di protesta, un inno ribelle. Tutto questo e anche altro, naturalmente. Sempre la lista aggiunge un nuovo termine che fa saltare i presunti equilibri e complica tutto. “È un testamento”. E allora tocca porsi una domanda più estrema, radicale. Che discorso politico si compie in uno scritto che è insieme manifesto e testamento?
Contro il sistema. I “ragazzini” evocati dalla Morante non sono gli alunni di Barbiana o la “gioventù assurda” di Paul Goodman che, stanca di farsi stritolare, si ribella. Nelle letture storico-sociologiche di questo libro-rebus dal titolo sin troppo azzeccato, l’equivoco di un’identificazione pigra è sempre in agguato. Ma il senno di poi è un’arte da spilorci e, d’altra parte, è meglio esser precisi, circostanziare. La Morante poteva essere un rabdomante o una sciamana ma non aveva niente del Cagliostro in gonnella. Quando comincia a scrivere degli F.P. e degli I.M, del “pazzariello”, anche il maggio francese era solo un’ipotesi e quando pubblica Il mondo…, un anno dopo, il ’68 stava giusto iniziando, ma per caso. Nel suo rapporto con l’attualità il poeta è costantemente altrove anche perché “l’avventura della realtà è sempre un’altra” (Pro e contro la bomba atomica) però il suo “altrove” è una forma più esigente di presenza. La Morante sfogliava un mazzo di tarocchi suo personale e il Mondo… – proprio come i dischi di Dylan, gli anni sono quelli – preconizza insieme una rivolta a sorpresa (“il sistema funzionerà/ stavolta l’imbroglio riuscirà…/ sarà, ma attenti signori/ alle sorprese”) e una débacle. Se Il mondo… è “il documento più alto del ’68 e dei suoi dintorni” (Fofi), è anche per questa sua natura doppia di inno alla gioia e di canto di morte (o, appunto, di audace “manifesto” e di “testamento”).
Molto sicura di sé nel distinguere tra chi ha ragione e torto (e molto prudente nell’individuare chi incarna queste figure quasi ontologiche, i “Felici Pochi” e gli “Infelici Molti”: parla di sé come di una “mezza I.M”), Elsa Morante sapeva benissimo quale era il nemico. La parola “Sistema” risuona nel suo poema (e in Pro e contro…) con la stessa febbrile intensità che ritroviamo negli scritti di Goodman o di Wright Mills, nella Dichiarazione di Port Huron, in Marcuse, nei situazionisti. Ma, ancora una volta, è questione di sfumature, petites differences. In quegli anni, la Morante leggeva Simone Weil, la Bhagavad Gita, i Beat, i buddisti (niente sociologia, poco marxismo). Senza misticismi, la sua “visione” ne risente e ne viene arricchita. Il suo sistema è solo in apparenza la “stanza chiusa” evocata da Paul Goodman in Growing Up Absurd e anche la peculiare, moderna, “infelicità” della nostra vita è più complicata di una inutile “corsa dei topi”.
Negli anni sessanta, la Morante vede invertirsi alcune polarità per lei essenziali e, come per incanto (ma è magia nera), Menzogna e Sortilegio cambiano segno. Da forme eteree della creatività diventano pesanti contrassegni d’oppressione. Ragionando in termini assoluti di “coscienza” (la nostra vera “centrale atomica”), Elsa Morante imputa al Sistema la colpa più meschina, quella di ingannare, di mistificare (“stavolta l’imbroglio riuscirà”). È un modo metafisico e impolitico di guardare alla storia, e alla politica. Prima ancora di essere una macchina, una Grande Opera, il sistema è un manto d’irrealtà che copre ogni cosa, una versione, totalitaria e meccanizzata, del velo di Maya. Promettendo un “maligno surrogato piccolo-borghese” del Nirvana, il sistema realizza questo scialbo miracolo al contrario: disintegra (esattamente come la bomba atomica). In Pro e contro… il giudizio è implacabile, finale. A questa falsa pace, a questa quiete beota, stupidissima, “si arriva attraverso la disintegrazione della coscienza, per mezzo della ingiustizia e demenza organizzate, dei miti degradanti, della noia convulsa e feroce”. Più estrema, più radicale, più disillusa di Paul Goodman, Marcuse & compagnia, Elsa Morante sceglie di affrontare il drago e alza la posta. Per lei sistema significa “irrealtà”; totale irrealtà.
Messa in questi termini, la partita appare persa. All’irrealtà si potrà opporre soltanto l’alta vertigine della parola poetica, un gesto negato ai più, raro e incostante. Non c’è risposta politica, in ogni caso, e lucidamente il mondo evoca la “rivoluzione” solo per mantenerne il sogno come Utopia senza futuro (“Domanda: MA QUANDO?/ Risposta:non c’è QUANDO/ D: Ma DOVE?/ R: Non c’è DOVE”). Come dalla caverna di Platone (un F.P. evocato, giusto in quei giorni anche da Nicola Chiaromonte), dall’Irrealtà non si esce “in massa ma uno per uno”. Con riluttanza, in Pro e contro…, Elsa Morante si affida all’arte come “quasi sola speranza del mondo”. “In una folla soggetta a un imbroglio, la presenza di uno solo che non si lascia imbrogliare può fornire già un primo punto di vantaggio”. Peccato che questa aristocratica forma di estrema resistenza e sabotaggio non le desse nessuna consolazione. “Il poeta è destinato a smascherare gli imbrogli” ma pochi sono gli eletti e un contromondo di bella Realtà affidato all’arte per lei era monco, troppo algido e sterile, insufficiente. Il mondo… riprende il discorso che in Pro e contro… sembrava (quasi) risolto e tira in ballo gli altri; meglio: il prossimo. Ed è proprio in questo passaggio (eminentemente ‘evangelico’, e… politico) che, spiazzando tutti, Elsa Morante – sommo poeta – si mette da canto e si nega l’eliso.
"Quanto al tuo prossimo
tu (parlo anche a te, mezza I.M., che qui scrivi)
puoi riconoscerlo naturalmente in chi nasce
venuto non si sa da dove, e muore per andarsene non si sa dove"
Una magnifica stravaganza. Lo zelo manicheo di distinguere tra sommersi e salvati le era estraneo. Però era anche troppo lucida e coerente per arrampicarsi sugli specchi del buon senso borghese e la sua indole tendeva a escludere le mezze misure, le “zone grigie”’. Apparentemente tacciabile di rigido moralismo calvinista, la grande cesura tra FP e IM risponde a un criterio storico, e metafisico. Non cercatevi l’arrogante autoindulgenza di chi si crede nel “vero”, coi suoi pari, o l’illusione (patetica, supponente, castrante) di un’ineffabile differenza antropologica. Questa doppia “abbreviazione” è la vera “chiave magica” (altro termine della “lista”) che apre le porte della percezione e rimette la Storia in piedi, riassesta il tempo. Scrivendo dell’Iliade, Simone Weil annotava che “la giustizia fugge dal campo del vincitore” e la Canzone degli F.P e degli I.M. trasforma questa sentenza in un fulminante compendio che ribalta duemila anni di storia vissuti male, subìti in confusa simbiosi col potere.
Prima ancora di essere un acrobata della felicità, un poeta visionario, un ragazzino, l’F.P. è una vittima e un oppresso. Suo è il regno dei cieli, ma, aggiunge la Morante, “forse la doppia/ immaginecosì in cielo come in terra si può leggere capovolta”. Così in terra come in cielo, dunque: è un programma (e uno slogan) rivoluzionario: la stessa figura che ha assunto nei secoli volti e maschere sempre cangianti, si rivela nel canto liberatorio come il sale (sciupato) della terra. L’F.P. è lo schiavo dato in pasto ai Cesari e la femmina vergine sacrificata a Tenochtitlan, l’empio maledetto messo al rogo dai Papi, l’anarchico fucilato da Stalin, il negro linciato a Dallas, il bianco mangiato dai cannibali, il vietnamita.
Ma l’oppresso di sempre potrebbe diventare il signore del Tempo, l’uomo nuovo. Tutto sta a capire – quella di Elsa Morante è anche una teologia politica – se questo progetto di Liberazione sia il “sogno di una cosa” o un ideale regolativo. Rivolgendosi agli I.M. Elsa Morante pone la domanda cruciale (e disperata): potrà mai accadere che “prima ancora del giorno del Giudizio/ quei pazzi F.P. non vi mettano in minoranza?…/ Sarebbe una magnifica stravaganza”). Mai dire mai; e mai illudersi, però, e mai dormir contenti, mai accontentarsi. Al “non c’è QUANDO” e “non c’è DOVE” con cui aveva gelato le vene ai polsi dei rivoluzionari da operetta, Elsa Morante giustappone questo monito-spauracchio destinato a turbare il sonno di ogni Maggioranza. Potrebbero esserci magnifiche stravaganze, grosse sorprese. La Grande Opera è solo un artificio: salterà in aria (opotrebbe saltare… non è detto).
Senza additare paradisi in terra (“pure il desiderio del paradiso è servile”) o scarabocchiare castelli in aria, Il mondo salvato dai ragazzini ricorda una semplice verità che, magari per eccesso di ovvietà, è difficile da dire, sperimentare. La storia non è scritta, “non ha libretto” (per citare un altro F.P. virtuale, Aleksandr Herzen). Dobbiamo restare “attenti/ alle sorprese”. IN SOSTANZA E VERITA’ TUTTO QUESTO/ NON E’ NIENT’ALTRO/ CHE UN GIOCO
Ne vous laissez jamais amputer. La parola “gioco” va presa alla lettera e protetta. Cosa di bambini, il gioco sfugge a quella monotona grammatica di comando e obbedienza, conformismo, che trama la vita degli adulti e l’intristisce. Per Elsa Morante (come per Walter Benjamin) “infanzia” e “rivoluzione” vanno insieme (“veramente rivoluzionario è il segnale segreto dell’avvenire che parla dal gesto infantile”). Corollario obbligato di questa premessa radicale, un’esplicita sconfessione del potere (anche del desiderio di potere) che rende Il mondo… un testo politico ambiguo, anzi “inservibile”. Che mettano o non mettano in “minoranza” i loro avversari, i Felici Pochi si precludono qualsiasi prospettiva di successo. Per restare ciò che sono, o diventarlo (tamburini celesti, ragazzacci della favola azteca, pazzarielli), i Felici Pochi non andranno al potere, non comanderanno. “Il grande manifesto rivoluzionario degli estremisti F.P.” parla una lingua altra, sua e speciale, e se ha una grande certezza la Morante sta in questa avversione libertaria per il potere che ai suoi occhi resta un” vizio degradante”, una rovina (in La Storia, il grande monologo di Davide Segre ruota precisamente su questo perno).
Proprio per questo, d’altronde, Il mondo…, e ancora di più La Storia, qualche anno dopo, finiranno per creare disagio, insofferenza. Suggerire ai giovani ribelli di togliersi dalla testa il sogno di vincere, comandare, governare, poteva essere piuttosto deprimente e il grande paradosso del Mondo salvato dai ragazzini sta precisamente in questo messaggio anti-profetico. Il début sognato dal Maggio poteva realizzarsi in magnifica stravaganza, “gioco divino”, a patto che quel progetto ribelle restasse sempre fedele a se stesso, cioè impotente. Ovvio che in troppi non volessero accettarlo e non stupisce che all’uscita di La Storia l’equivoco si sia alla fine sciolto, anzi svelato (Balestrini & co. parleranno di una “scontata elegia della rassegnazione” e di una posizione “reazionaria”, Renato Barilli di “restaurazione”). Ai “ragazzini” la Morante non offriva conforto o consolazione. In Hoc signo vinces le sembrava una bestemmia poco sincera.
Eppure Il mondo… è un invito altissimo alla liberazione. Fuori dalla “governamentalità” (per citare Foucault, un mezzo F.P.), lontano dal mediocre disegno del Potere, per i ragazzini si apre un cammino esistenziale e sapienziale di altra natura. Se il termine politica conserva un significato per la Morante è nel senso di Port Huron, in qualche modo, e Il mondo…, Pro e contro…, La Storia sono anche complessi tentativi di esplorare gli inediti confini di una politica dell’autenticità.
“La vostra benedizione è conoscere… noi dobbiamo riaprire le luci dei nostri occhi”: essere (diventare) se stessi, trasformarsi, conquistare “la salute della mente” e spendere questo proprio Io più ricco, complesso, rinnovato, nel grande gioco del mondo, insieme al “prossimo”. Nella “parentesi” dedicata agli F.P. è capitale la citazione di una lettera di Rimbaud alla sorella: “ne vous laissez jamais amputer”. Per Elsa Morante non c’è programma collettivo di rivolta o emancipazione che possa prescindere da un ampliamento di consapevolezza o dallo scardinamento delle porte della percezione. La canzone degli F.P. e degli I.M. va letta tenendo presente l’intera struttura delMondo… e la “commedia chimica” forse indica il percorso, ma per riflesso e enigma, in uno specchio. Ai ragazzini, dolente “strega ossessa dei supplizi”, la Morante intimava di cambiare strada e deporre gli abiti di ieri, trasfigurandosi:
"rifugiati alla cieca dall’altra parte, inferi o limbi non importa,
piuttosto che ritrovarti nel tuo domicilio laido…
Non tentare l’itinerario
storpio e rovinoso della scala, che per te è un’ascensione di secoli,
e di sopra e di sotto c’è sempre l’inferno.
Il cielo decaduto è la bassa tenda cenciosa
del lazzaretto terrestre. E il flauto mozartiano
è un saltarello magico…
Nessun cielo ulteriore si scopre. Non s’apre il loto dei mille petali.
Tu sei tutta qui. E non c’è altro."

Il 18 agosto del 1912 nasceva a Roma Elsa Morante. La ricordiamo con questo articolo di Vittorio Giacopini, apparso sul n. 148 della rivista (ottobre 2012).

Fonte: lostraniero.net 

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