La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 19 agosto 2016

La riforma costituzionale e l’Unione Europea

di Noi saremo tutto
Che il progetto di riforma costituzionale del Governo Renzi, che andrà a referendum in autunno, non serva a ridurre i costi della politica o a colpire la fantomatica “casta” politica, è un dato che sembra oramai acquisito al dibattito politico. Anche all'interno del centrosinistra, per azione degli scontenti PD, e nel dibattito sui media di regime si mette in evidenza come il Senato di fatto non venga abolito ma si trasformi in una Camera inutile che continuerà comunque ad avere costi altissimi. Il punto principale della propaganda renziana sulle riforme sembra quindi scomparire dal dibattito politico che invece si concentra sul “combinato disposto” riforma Costituzione-Italicum paventando una possibile riforma della nuova legge elettorale come condizione necessaria per appoggiare il processo di riforma.
Sullo sfondo emergono le difficoltà del governo Renzi il quale prova a fare un passo indietro scegliendo di non personalizzare il quesito del referendum. Comunque sia, la partita è decisamente aperta (i sondaggi, per quel che valgono, segnalano un'opinione pubblica spaccata a metà tra favorevoli e contrari) e l'insistenza di alcuni settori della classe dominante europeista asostegno del sì raccontano di una riforma che comunque deve essere fatta. Occorre quindi capire il reale motivo che spinge l'establishment a sostenere questo progetto politico in toto o per lo meno in parte (la riforma dell'Italicum nel senso richiesto dall'opposizione interna al centrosinistra sembra essere un compromesso accettabile per alcuni poteri, come ben rappresentato dalle posizioni dell'ex presidente Giorgio Napolitano).
Ai primi di luglio indicavamo, in un testo che annunciava il nostro impegno nella battaglia per il no al referendum, la necessità di spostare l'attenzione sui temi sociali connessi alla questione costituzionale. Il testo è riprodotto in fondo(1). Non intendevamo sostenere che le questioni giuridiche e formali sono secondarie ma volevamo porre la questione in termini più facilmente in grado di interloquire con la parte di popolazione che in questi anni di ristrutturazione capitalista in Europa ha più sofferto nell'introduzione di politiche legate soprattutto ai trattati UE. Il legame tra le politiche europeiste e la riforma Costituzionale ci pare quindi centrale e occorre fare uno sforzo analitico ulteriore per mettere in evidenza questo collegamento.
In questo senso ci pare utile partire dall'analisi contenuta nel libro di Vladimiro Giacché, La Costituzione italiana contro i trattati europei, un conflitto inevitabile recentemente pubblicato per Edizioni Imprimatur, il quale fornisce un contributo analitico per noi fondamentale. In realtà, il libro di Giacché, non si occupa della riforma di Renzi ma si preoccupa in generale di analizzare l'incompatibilità della nostra Costituzione con i trattati e i regolamenti che caratterizzano il funzionamento della BCE, della Commissione Europea e degli altri organismi che costituiscono il mostro giuridico e politico responsabile dell'austerity. Partendo da una segnalazione di questo testo, proviamo poi ad attualizzare la questione provando a mettere in evidenza quali sono i nessi tra il progetto di riforma Costituzionale renziano e le prospettive legate ai trattati UE. Cominciamo quindi dal libro in questione.
La Costituzione Antifascista e i trattati. Ovvero: la democrazia progressiva contro il neoliberismo
La Costituzione Italiana fu il frutto di un compromesso politico tra i partiti che avevano condotto e vinto la Resistenza contro il nazifascismo. Resistenza in gran parte condotta in montagna e con la lotta armata partigiana. Il compromesso nasceva comunque da una visione comune relativa al ruolo dello Stato nella congiuntura economica e geopolitica che si apriva dopo la seconda guerra mondiale. Giacchè mette giustamente in evidenza come l'elemento della cosiddetta democrazia progressiva introdotto in Costituzione (per usare un termine caro al PCI e agli altri partiti di sinistra nel dopoguerra) era comune ad altri paesi (tra cui la Germania post bellica). Il significato risiede nel passaggio da una economia basata sul laissez-faire a una economia sociale di mercato in cui lo Stato ha un ruolo fondamentale di indirizzo e di intervento. Tutto questo viene espresso nella Carta Costituzionale non solo nei principi fondamentali ma anche negli articoli successivi che rappresentano l'esplicitazione degli strumenti che lo Stato si dà per intervenire e far rispettare i principi fondamentali. In questo senso, la Costituzione Italiana assume una coerenza di fondo: mentre i singoli articoli possono dare adito a interpretazioni ampie, l'analisi completa dei principi fondamentali e dei principi attuativi disegnano invece una precisa idea di società. Una società che nel giudizio degli anni successivi qualcuno definirà come “socialisteggiante”(2). Ma quali sono questi principi? Giacchè parte da il principio fondamentale che è quello del lavoro. Da quel principio (il diritto al lavoro e la necessità di rimuovere gli ostacoli che lo contrastano) partono tutta una serie di articoli che disegnano una precisa idea di società. Una società opposta ai principi neoliberisti tipici del pensiero di Friedrich Von Hayek e molto vicini invece alle idee di John Maynard Keynes. Da notare come la centralità del diritto al lavoro e a una retribuzione dignitosa, siano anche la base per la necessaria partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale. In sostanza la Costituzione Italiana si preoccupava (in teoria se ne dovrebbe preoccupare anche oggi) di rimuovere gli ostacoli economici che impedivano tale partecipazione. In altri termini era ben chiaro ai Costituenti (o per lo meno a una parte notevole di loro) che la partecipazione attiva dei cittadini era legata a criteri molto spesso materiali e non strettamente ideali. Partecipazione che la Costituzione sembra richiedere e che, si badi bene, non va necessariamente volgarizzata, come sovente si è fatto, con la semplice partecipazione al voto e alle elezioni ma è legata all'attività sociale, sindacale e politica. Su questa tema della partecipazione torneremo in seguito, ora ci concentriamo invece sulle differenze di approccio con i trattati europei.
Innanzitutto si fa notare come non esista una Costituzione Europea: i tentativi di introdurla come tale si sono scontrati con l'opposizione espressa a più riprese dai cittadini in diversi paesi europei. Detto questo, il Trattato di Lisbona del 2007, può essere considerato come una simil costituzione in quanto introduce una serie di principi per il funzionamento dell'Unione. Su questo tema il lavoro dell'autore si fa molto tecnico ma il concetto è chiaro: nei trattati dell'Unione il punto dirimente non è il diritto al lavoro e al salario con tutto ciò che ne consegue ma è il controllo dei prezzi e dell'inflazione. Questo concetto è visibile ancora in forma spuria nell'articolo 3 del trattato in questione in cui si accenna a uno
“…sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e su una stabilità dei prezzi, su una economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale…”
La forma spuria, con l'introduzione del concetto di “economia sociale di mercato fortemente competitiva” è basata sul peso che si vuol dare da un lato alla stabilità dei prezzi, dall'altro alla piena occupazione. In sostanza non si capisce quale sia la priorità che si intende dare per garantire il progresso sociale che viene indicato. Fino a qui tutto normale in quanto già nella Costituzione Italiana esistono forme spurie e interpretabili anche nei principi fondamentali. Il problema è ciò che viene dopo, cioè gli articoli che dovrebbero esemplificare il metodo di azione. Qui si assiste ad un ribaltamento completo di prospettiva in quanto viene spiegato il funzionamento della moneta unica Euro con i seguenti termini:
“Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione (si intende l'adozione di una comune politica economica, ndr) comprende una moneta unica, l'euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l'obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche generali nell'Unione conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza”(3).
In sostanza si specificano le priorità dell'Unione Europea e in particolare dell'Unione Monetaria: la stabilità dei prezzi come elemento fondamentale e il resto come secondario.
Come si capisce non si tratta di dettagli. Mentre la Costituzione Italiana prevede gli strumenti per garantire in primis il diritto al lavoro, al salario e alla rimozione delle disuguaglianze prevedendo gli strumenti per perseguirli, i trattati dell'Unione mettono al primo posto la lotta all'inflazione e la stabilità dei prezzi vincolando il diritto all'occupazione e a una vita dignitosa in subordine.
Per esemplificare questi concetti l'autore svolge con dovizia di particolari alcuni esempi di applicazione concreta di questi trattati. In particolare l'analisi del caso greco come esempio di applicazione integrale dei principi espressi nei trattati e, per contrapposizione, l'analisi delle concessioni elargite alla Germania (ma anche a Francia e Italia). In questo senso si ha buon gioco nel dire che con l'espressione “fortemente competitiva” si intende una competizione non tanto con il resto del mondo ma all'interno degli stessi paesi europei tra stati del nord (per prima la Germania con i suoi satelliti) e stati del sud.
Ben consci dell'incompatibilità di fondo tra i trattati e la Costituzione i governanti italiani hanno però cominciato ad introdurre negli ultimi decenni variazioni alla Carta fino a ottenerne una devastazione del senso logico. In particolare il principale vulnus è il nuovo articolo 81 che prevede l'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione(4). L'articolo recita:
“il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”
In sostanza l'articolo 81 introduce il principio base dei trattati europei (la preminenza va al rispetto dei bilanci e solo in subordine ai diritti della persona) in una Costituzione che rifiutava in teoria proprio tale approccio ribaltandone le priorità.
Tradotto in soldoni significa che, al netto di cause eccezionali, il diritto alla cura diventa possibile solo se si hanno i soldi in bilancio per garantirlo, a scuola ci si va solo se si hanno i soldi per garantire l'istruzione, se mancano case popolari non vengono costruite e quindi si vive tranquillamente sotto i ponti, se una azienda fallisce o porta i macchinari all'estero lo Stato non ha possibilità di intervenire, se le aziende pubbliche non fanno profitti si vendono ai privati perché lo Stato o gli enti locali sono vincolati costituzionalmente al pareggio di bilancio.
Che l'articolo 81 sia un cuneo costituzionale fondamentale Giacchè lo spiega con alcuni esempi importanti. Da un lato attraverso l'analisi di alcune prese di posizione della Corte Costituzionale che hanno bloccato temporaneamente alcune manovre del Governo Monti sui tagli a stipendi e pensioni, dall'altro attraverso una analisi di alcuni provvedimenti richiesti da alcuni deputati che, contro l'applicazione rigida dei principi fondamentali della Costituzione Italiana, chiedevano di aver maggiore rispetto per le nuove norme previste con l'introduzione dell'articolo 81. Questi esempi mettono in evidenza come, nonostante le manomissioni, emergono ancora contraddizioni interne tra la Costituzione Italiana e le norme dei trattati. L'articolo 81 rappresenta quindi un tentativo di introdurre nuovi principi nel funzionamento statale ma la Costituzione rappresenta ancora un freno al nuovo tipo di governance imposto dalla UE. A questo punto occorre quindi abbandonare la traccia del lavoro di Giacché per passare all'analisi del rapporto tra la nuova riforma proposta dal Governo Renzi e i trattati. Per farlo ripartiamo dal concetto a cui avevamo accennato sopra: il concetto della partecipazione dei cittadini alla vita politica.
Dalla democrazia alla governamentalità. Perché diciamo no al referenzum
Come detto, la Costituzione Italiana aveva ben presente la necessità di favorire la partecipazione popolare alle decisioni fondamentali, alla vita economica e sociale. Tutto questo non si otteneva solo con il voto ma anche attraverso il protagonismo sociale che si esprimeva attraverso forme più o meno mediate di conflitto. Per tutto un periodo storico questo fatto è stato più o meno garantito (a costo di un prezzo altissimo per le classi subalterne che hanno conquistato i diritti con le lotte e con la forza). Ciò significa ad esempio che uno sciopero aveva buone possibilità di incidere all'interno di decisioni politiche strappando almeno qualche compromesso. Significava pure che il sistema politico era costretto a considerare in qualche modo il livello di consenso dei subalterni rispetto alle proprie scelte. La Costituzione aveva strutturato istituzionalmente questo principio che era in qualche modo legato alla necessità di ricostruire le economie post belliche, a fasi espansive del ciclo economico, alla presenza dello spauracchio geopolitico dei paesi socialisti, etc…Tutti questi fattori agivano tra loro in maniera dialettica e la Costituzione rappresentava una particolare visione di quel compromesso che da un lato garantiva alcuni livelli sociali in economia di mercato, dall'altro provava a contenere il modello socialista agendo sul proprio terreno.
Dagli anni 70 si ha una cesura che comporta tutta una serie di mutamenti in tutti i campi. Cambiano i cicli economici, cambia la composizione tecnologica degli strumenti del capitale, cambia anche il quadro geopolitico con la caduta dell'URSS e del blocco socialista. L'unificazione europea subisce quindi un'accelerazione proprio al termine di un periodo di grandi cambiamenti e non può effettivamente fare a meno di registrarli nei suoi principi fondanti. Dal processo di unificazione in avanti cambiano però molte altre cose e i trattati europei si incaricano di precisare meglio il ruolo dell'Unione Europea in questa fase. Non ci soffermiamo oltre su questi temi di inquadramento generale delle tematiche sull'UE in quanto abbiamo già scritto e formalizzato precedentemente in varie pubblicazioni la nostra analisi (5), (6), (7). Rimane qui da mettere in evidenza gli aspetti legati alla partecipazione popolare e alla necessità per la nuova forma di governo che si impone negli ultimi anni di mettere da parte non tanto il tema del governo in quanto tale (il funzionamento della UE ha bisogno di governi nazionali forti e di governi locali che applichino solertemente le direttive imposte) ma il tema del protagonismo popolare.
Da anni i governi nazionali agiscono con il cosiddetto pilota automatico: eseguono direttive dettate dalle strutture UE in ambito economico e NATO dal punto di vista militare. Queste direttive non sono considerabili come emendabili se non su aspetti secondari. Ogni mobilitazione popolare è quindi sacrificata sull'altare di un interesse europeo sempre più distante da ogni aspirazione popolare. Gli esempi si sprecano dalla mobilitazione del popolo greco contro l'austerity che si è infranta con la resa di Tsipras alla Trojka fino alla volontà del Governo Francese di andare fino in fondo riguardo l'applicazione della loi du travail nonostante l'ondata massiccia di proteste e sdegno in tutta la Francia. Per restare in Italia valga come esempio recente la cosiddetta “buona scuola” che è arrivata a compimento nonostante la contrarietà del 90% dei lavoratori della scuola. Esempi che mostrano come qualsiasi sistema politico di governo nei singoli stati nazionali è impegnato in un'opera di ristrutturazione capitalista che deve continuare nonostante il consenso che cala vertiginosamente (quando i governi provano strade diverse va a finire come in Grecia). Per poterlo fare i governi devono mantenere una legittimazione formalmente democratica per continuare ad agire contro gli interessi della maggioranza dei corpi sociali. Ciò si traduce anche in una fuga dei cittadini dal voto e dalle istituzioni visti come distanti e non riformabili. In tutto questo vi è una contraddizione evidente: i governi non si creano più sul consenso democratico ma su un consenso fondato sul meccanismo del regime o della paura legata a nemici esterni (la paura del default finanziario, la paura del terrorismo internazionale, la paura di una immigrazione senza controllo).
Questo fenomeno non assume più caratteristiche di fase ma assume sempre di più caratteristiche strutturali. Questo meccanismo ha bisogno di stabilizzazione e per farlo deve avere una legittimità istituzionale. Per questo anche le Costituzioni Nazionali, proprie perché legate a un periodo della storia tramontato, devono essere riammodernate. La riforma Renzi, inscindibile dalla legge elettorale Italicum, sta in questo tentativo. La creazione di fatto di un sistema monocamerale con una maggioranza che di fatto governa in maniera totale nonostante un bassissimo consenso sociale sta all'interno di questa forma di innovazione. La legge elettorale è stata costruita appositamente per far si che con consensi reali intorno al 20% degli aventi diritto è possibile per un partito (cambierebbe poco se fosse una coalizione come richiesto dalla sinistra PD) avere la maggioranza assoluta dei seggi nell'unica Camera in grado di partorire leggi e decreti.
Si introduce poi il meccanismo della “tagliola” che può rendere il dibattito parlamentare totalmente superfluo. La legge Costituzionale e l'Italicum sono fatti apposta per blindare come governanti assoluti minoranze di fatto che agiscano su mandato di strutture antidemocratiche totalmente irriformabili e irraggiungibili. Ciò è assolutamente compatibile con il sistema UE che considera interi popoli come zavorre (il caso greco è emblematico) e all'interno dei singoli stati mal sopporta qualsiasi espressione autonoma delle classi subalterne (in questa senso non fanno differenza le lotte progressiste e di classe e le lotte reazionarie contro l'immigrazione e per la sovranità nazionale ascritte entrambe nel campo dei nemici da eliminare dal dibattito). Tutto il resto della riforma è collaterale. La riforma dell'articolo V sulle prerogative degli enti locali, le nuove norme sui referendum e la lotta alla casta con la truffaldina “abolizione del Senato” sono aggiustamenti secondari o specchietti per le allodole.
In questa adesione ai nuovi modelli di governance europeista sta il cuore della nuova architettura istituzionale renziana. In questo senso è vista da chi la sostiene (l'Unione Europea, le banche, i padroni) e in questo senso va considerata da chi la combatte.
Conclusione: salvare la Costituzione come un passo per invertire la rotta e ridare protagonismo alle classi subalterne
Il libro di Vladimiro Giacchè è quindi uno strumento utilissimo per inquadrare la questione della compatibilità tra i meccanismi di governance europei e le aspirazioni dei ceti popolari nei singoli stati. Queste aspirazioni popolari erano in qualche modo strutturati anche nella Carta Costituzionale in maniera coerente. E' un testo che merita di essere letto e studiato perché fornisce un metodo di analisi. La conclusione di Giacchè è che occorre ritornare allo spirito della Carta Costituzionale, una cosa non troppo diversa, a pensarci bene, da quel ritorno allo spirito del 1945 recentemente glorificato dal documentario sulla storia dell'Inghilterra nel dopoguerra di Ken Loach(8). Su questo andrebbe comunque aperta una discussione in quanto occorre sempre inquadrare i processi politici e istituzionali nella realtà concreta dei differenti periodi storici. Il ritorno alle monete nazionali (su cui siamo comunque d'accordo) non è detto che sia utile solo per ritornare ai meccanismi economici degli anni 70 e al periodo precedente. Troppe cose sono cambiate e preferiamo considerare l'uscita dall'Euro come un passaggio tattico ineludibile per ricominciare a progettare una diversa politica che non necessariamente deve essere quella messa in atto negli anni precedenti. Ma al di là di questo, è opportuno mettere in evidenza, come fa l'autore, che i meccanismi istituzionali sono importantissimi in quanto in grado di creare contraddizioni in un sistema che ha comunque bisogno di una legittimazione istituzionale. La nuova riforma di Renzi cerca appunto questa legittimazione in quanto legittima se stesso, il proprio partito e il proprio sistema mediatico di riferimento in relazione ai nuovi padroni della UE. Da comunisti potremo in effetti anche disinteressarci di questioni istituzionali o considerare addirittura come positivo l'allontanamento dei subalterni dai meccanismi della delega, della rappresentanza e dal funzionamento dello Stato. Peccato che questo non ha sostanzialmente mai significato l'avvio di una fase rivoluzionaria. Non c'è nulla di positivo nel fatto che le lotte sociali si scontrino contro un sistema di rappresentanza totalmente impermeabile alle proprie richieste. Non avanza nessun movimento sociale se l'unica risposta dello Stato è l'indifferenza o la repressione. Non occorre diventare fans del sistema parlamentare per considerare ingiusto, iniquo e reazionario il fatto che chi vota per i partiti di governo conta il doppio o il triplo di chi vota per i partiti di opposizione. Lottare quindi sul terreno istituzionale, su un terreno che non è comunemente nostro amico, è un modo per difenderci, per inceppare il meccanismo di austerity e per aprire spazi sul terreno che ci è proprio, quello del conflitto sociale e dell'acquisizione di legittimità innanzitutto popolare.
Per questo vale la pena di continuare la battaglia intrapresa contro la UE, contro il PD, contro banche e padroni e per questo vale la pena di votare no al referendum, mandare a casa Renzi e il suo governo e inserirci nelle contraddizioni che si apriranno nel mostro d'acciaio dell'austerity, dell'impoverimento e della UE.

Note al testo


(2) In particolare ci riferiamo alla nota banca d'affari JpMorgan che in documento ufficiale del 28 maggio 2013 afferma testualmente: «Quando la crisi è iniziata era diffusa l'idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei Paesi del Sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea»

(3) Entrambe le citazioni sono tratte dal libro di Vladimiro Giacchè

(4) La variazione è stata introdotta con la legge Costituzionale del 20 aprile 2012. E' stata a larghissima maggioranza dalle Camere e quindi non sottoposta a referendum confermativo

(5) Ad esempio gli atti del convegno Exit Strategy, Roma 2014. Ora pubblicati in “Exit Strategy, come rompere la gabbia dell'Unione Europea” editore Bordeaux

(6) Altro esempio “Exit Stategy, l'Unione Europea come è nata e come bisogna combatterla” editore Red Star Press

(7) Si consulti anche in versione scaricabile pdf il testo “Appunti sulla storia del polo imperialista europeo”

(8) Ci si riferisce al recente documentario del regista inglese “The spirit of 45”

Fonte: Contropiano 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.