La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 19 agosto 2016

Grecia un anno dopo. I migranti invisibili, una crisi nella crisi

di I Diavoli 
L’estate di Lesbo è calda come lo scorso anno. Ad agosto 2015 le immagini di uomini e donne in cammino da Skala Sykamineas fino a Mythilini, capitale dell’isola greca nell’Egeo nord-orientale, andavano a rullo continuo sulle televisioni di tutto il mondo. Migliaia di migranti marciavano sotto il sole per circa sessantacinque chilometri, dopo essere sbarcati da un gommone stracolmo. In Grecia arrivavano dalle coste turche, il viaggio in mare durava meno di un’ora, coprendo una distanza variabile a seconda del punto di partenza, circa dodici chilometri. La meta non era solo Lesbo, ma anche Kos, Samos, Chios, Leros: ne erano sbarcati circa 33 mila in un solo mese. Fuggivano dalla guerra in Siria, o dai conflitti mai finiti in Afghanistan, Iraq, Corno d’Africa.
Fuggono ancora in questo agosto 2016, sei mesi dopo la chiusura delle frontiere europee sulla rotta balcanica. Continuano a scappare, a cinque mesi dall’accordo tra Unione europea e Turchia per la gestione dei flussi migratori. Dopo il fallito colpo di Stato in Turchia del 15 luglio, ogni giorno in centinaia hanno ripreso ad attraversare l’Egeo. Lontani dai nostri occhi, dai titoli dei giornali e dalle aperture dei tg, i migranti approdano in Grecia. Muoiono ancora: più del 15 per cento annegano. Sono l’umanità che racconta la crisi nella crisi ellenica.
La gestione dei flussi: cronaca di un anno difficile per l’Europa
A luglio 2015 centinaia di migliaia di persone continuano a viaggiare per terra e per mare alla volta dell’Europa. Allora l’Unione europea decide di affrontare una prima questione: il reinsediamento all’interno dei Paesi membri di oltre 22 mila persone «bisognose di protezione internazionale, entro il 2017».
Ad agosto di un anno fa arrivano oltre 33 mila persone sulle coste greche. A settembre la foto del piccolo Aylan con il volto rivolto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, annegato nella traversata della salvezza verso il Vecchio continente, fa il giro del mondo. Avrebbe dovuto scuotere il mondo, quell’immagine. Eppure in autunno già non se ne parla più.
A febbraio 2016, Idomeni, un piccolo villaggio greco di 140 anime al confine con la Macedonia, da luogo di passaggio dei migranti diventa un nuovo simbolo della tragedia umana, dell’Europa che respinge. I Paesi balcanici a nord della Grecia chiudono le frontiere. Più di 50 mila richiedenti asilo restano intrappolati in Grecia per mesi. L’Ungheria preme perché l’Ue risolva la crisi migranti praticamente a qualsiasi condizione, Repubblica ceca, Polonia e Slovacchia propongono politiche sempre più dure sulle richieste di asilo.
A inizio marzo l’Ocse lancia l’allarme: la crisi dei rifugiati ha un impatto molto grave sull’economia greca. A fine mese, il 18 marzo, l’Unione europea firma un accordo con la Turchia che prevede un piano d’azione così articolato: migranti irregolari da rispedire in Turchia, senza però «espulsioni collettive»; corridoi umanitari per i siriani: ci sono 18 mila posti per i reinsediamenti nei vari Paesi membri; aiuti pari a 3 miliardi di euro per la gestione dei profughi in Turchia. A spingere per l’intesa è la Germania guidata dalla cancelliera Angela Merkel, che ha visto in Erdogan una soluzione indolore alla crisi.
A maggio i campi per i migranti già scoppiano, migliaia di persone sono bloccate in Grecia per via della lentezza delle procedure di richiesta asilo, di rimpatrio e di reinsediamento. A giugno esce un rapporto della Commissione Ue sullo stato dell’accordo, a luglio un altro report segnala «un trend positivo». I numeri però raccontano molto di più, le organizzazioni umanitarie denunciano i costi umani della gestione dei flussi. Secondo Cengiz Aktar, professore di Scienze politiche all’Istanbul Policy Center, in realtà i numeri sarebbero diminuiti per via della chiusura del confine Siria-Turchia e non tanto per l’intesa con l’Ue
A metà luglio un tentato colpo di stato in Turchia dà al presidente Recep Tayyip Erdogan la possibilità di ricattare l’Europa e di chiedere subito l’eliminazione dei visti per i cittadini turchi (come previsto dall’accordo di marzo 2016). Ankara sa che da sola tutelare la sicurezza dell’Europa, incapace di gestire logisticamente e politicamente la questione migranti. Qui si nasconde la vera posta della partita.
Impaurite dalla situazione politica in Turchia, centinaia di persone tornano a riversarsi nell’Egeo e ad approdare in Grecia. Ad agosto indiscrezioni di stampa attribuiscono al governo greco la volontà di un piano B qualora saltasse l’accordo Ue-Turchia. Un comunicato ufficiale smentisce tutto, eppure per i 57 mila migranti in Grecia le condizioni di vita sono pessime. Come sono difficili quelle di milioni di greci che da sei anni vivono di austerity.
I numeri di un’emergenza reale
Tra il 1 gennaio 2015 e l’11 agosto 2016 sono arrivate in territorio greco 1.020.695 persone. Secondo i dati raccolti dall’International Organization for Migration e dalle autorità elleniche, sono 163.332 solo nel 2016, di cui oltre 161 mila via mare. Nell’ultima settimana, tra l’8 e il 15 agosto, i nuovi registrati sono 621.
Attualmente, stando alle stime del governo di Atene, la Grecia ospita, tra migranti e richiedenti asilo, un totale di 57.182. Di questi 9.140 sono disseminati nelle isole dell’Egeo orientale. Più di 22 mila persone si trovano, invece, a nord del Paese, oltre 2 mila nella parte centrale, 251 nelle zone meridionali. Altre 5.423 sono accampate in strutture improvvisate come caserme dismesse, parcheggi ed ex aree industriali. Circa 10 mila sono ospitati in centri di accoglienza allestite nella regione peninsulare dell’Attica, di cui Atene è capoluogo. Degli oltre 57 mila totali, solo 21 mila hanno fatto ufficiale richiesta di asilo, gli altri 36 mila sono in un limbo.



Cibo scadente, igiene scarsa e cattiva gestione
Le condizioni in cui vive la maggior parte dei migranti è pessima. Lo denuncia, come riporta Kathimerini, il Center for Disease Control and Prevention (KEELPNO), che chiede la chiusura di sedici centri di accoglienza, a causa delle condizioni di igiene precarie.
Lo ribadisce Amnesty International il 3 agosto, raccontando le storie di alcuni tra i «48 mila rifugiati e migranti» intrappolati nella penisola greca: «Vivono in pessime condizioni nei campi gestiti dallo Stato, mentre le frontiere europee per loro restano chiuse».
A Lesbo, a Samos e a Chios, invece, sono arrivati gli ispettori di Human Rights Watch. Raccontano di «strutture gravemente sovraffollate, sporche, in scarse condizioni igieniche» dove «le lunghe code per il cibo di qualità scadente, la cattiva gestione e la mancanza di informazioni contribuiscono a creare un’atmosfera caotica».
Atene ha davvero chiesto un piano B per i migranti?
Il 3 agosto il quotidiano tedesco Bild pubblica un’intervista al ministro per l’immigrazione greco Yannis Mouzalas, attribuendogli la seguente dichiarazione: «Siamo molto preoccupati. Abbiamo bisogno di un piano B, in ogni caso». Sullo sfondo c’è l’aumento degli arrivi in Grecia dopo il fallito golpe in Turchia e l’emergenza umanitaria che il Paese, già in crisi, non può gestire da solo. Il riferimento è a un non meglio specificato piano alternativo per amministrare i flussi, con o senza la collaborazione dei turchi, qualora dovessero cambiare le condizioni dell’accordo Bruxelles-Ankara firmato il 18 marzo.
Poche dopo la pubblicazione del pezzo, che avrebbe spostato gli equilibri politici, il ministero smentisce tutto. In uncomunicato «nega la traduzione di Bild dei suoi commenti». Mouzalas avrebbe sì ammesso le preoccupazioni greche, senza però mettere in discussione il patto di marzo e il suo funzionamento: «Il numero di persone che arrivano sulle isole greche non indica affatto che l’accordo non viene rispettato». La Bild tedesca, dopo aver lanciato la bomba mediatica, non ha controreplicato né risposto a richieste di chiarimento avanzate dall’Agence France Presse. Mouzalas, anche a una settimana dalla pubblicazione, continua a a insistere, dice che la situazione è sotto controllo e che parlare dell’aumento dei flussi e del patto Ue-Ankara in crisi «è sbagliato e crea un senso di panico di cui non abbiamo bisogno». Il ministro afferma che la Grecia registra un numero di «80-100 arrivi giornalieri e che la media è stata pressoché la stessa da quando è entrato in vigore l’accordo».
Il fallito golpe in Turchia e l’afflusso di nuovi migranti
Nonostante la Commissione europea venda l’accordo come un successo e continui a parlare di un «trend positivo» nella gestione dei migranti (oltre 3 mila reisediati in Europa da marzo 2016) e il ministro Mouzalas cerchi di minimizzare, lo scenario sembra essere un altro.
Secondo i dati greci consultati da Euractiv, tra l’11 e il 15 luglio (data del tentato golpe ad Ankara) i nuovi arrivi in territorio ellenico sono stati 292. Nella settimana successiva, dal 17 al 23 luglio il numero è salito a 382, per poi raggiungere un picco di 547 tra il 24 e il 28 luglio.
La Grecia lasciata da sola e le falle nell’accordo di marzo
L’Unione europea aveva promesso ad Atene 1.580 funzionari di Frontex. Fino ad oggi, però, ne sono arrivati solo sessantasei. Dei sessanta esperti per le procedure di rimpatrio dei migranti, sono al lavoro due persone. Erano stati previsti anche 575 esperti di asilo, ma in territorio ellenico ce ne sono attualmente 92. Servono almeno 400 interpreti, eppure appena una sessantina sono già sul campo. Così i rimpatri e i reinsediamenti previsti dall’accordo di marzo procedono a rilento.
Da marzo a maggio, su 8.500 persone arrivate sulle isole greche, solo quattrocento sono state rimandate in Turchia, meno di duecento i siriani redistribuiti in Europa. Nella relazione della Commissione europea pubblicata a fine giugno, i dati non sono molto diversi: 462 migranti che non hanno presentato regolare richiesta di asilo sono stati rispediti indietro. Si parla di «ulteriori progressi nell’attuazione dell’accordo», di una «forte diminuzione del numero di persone che attraversano irregolarmente il mare dalla Turchia verso la Grecia», pari a 1700 in meno al giorno.
In Grecia il problema è di risorse, ma è anche burocratico. E la Commissione ammette che c’è ancora tanto da fare: «Più lavoro deve essere fatto verso la piena attuazione di tutti gli elementi della dichiarazione Ue-Turchia. Questo comprende in particolare: aiutare la Grecia ad aumentare la sua capacità di far fronte alle domande di asilo nelle isole e alla situazione umanitaria, accelerando il reinsediamento dei rifugiati».
Non va proprio benissimo anche sul fronte dei reinsediamenti. Al 14 giugno 2016, solo 2.280 persone sono state trasferite e redistribuite in Europa (1.503 dalla Grecia e 777 dall’Italia), «sotto il regime di reinsediamento del 20 luglio 2015 (gli Stati membri hanno deciso di reinsediare in Europa 22.504 persone bisognose di protezione internazionale entro settembre 2017)». Poche centinaia in più le persone reinsediate a luglio, sempre secondo i numeri Ue.
Quello che la Commissione vende come un successo, ricorda Medici senza Frontiere, ha dei «costi umani altissimi».
Due crisi, un Paese
«La crisi dei rifugiati crea notevoli problemi per l’economia e la crescita greca. La Grecia ha bisogno di ricevere un sostegno sostanziale per affrontare questa nuova sfida. Nessun singolo Paese può affrontare questa sfida da sola». Queste parole sono state pronunciate dal Segretario Generale dell’Ocse, Angel Gurria, a marzo scorso, dopo l’incontro con il primo ministro Alexis Tsipras ad Atene.
A inizio agosto, la Greek Tourism Federation (SETE) ha diffuso i dati aggiornati a luglio 2016. Se gli arrivi di turisti e viaggiatori nei principali aeroporti greci sono aumentati del 9.1 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, nelle isole più coinvolte nella crisi rifugiati le prenotazioni sono diminuite drasticamente. Tra gennaio e luglio 2016 Lesvos ha registrato un calo del 62.7 per cento, Samos del 29.7 per cento e Kos del 15.9 per cento.
In un’economia che fino al 2017 non vedrà quasi sicuramente nessun segnale positivo, la gestione di migliaia di migranti non è semplice. Atene ha chiesto all’Europa fondi per l’emergenza, materiali come tende, coperte, sacchi a pelo e soprattutto le ambulanze. L’Unione europea ha stanziato – sulla carta – un programma di aiuti pari a 700 milioni di euro.
La Grecia, però, resta praticamente sola a gestire due crisi.

Fonte: idiavoli.com

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