La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 9 settembre 2016

Azzardo, il governo gioca, bluffa e perde

di Anna Lombroso
Dubito che sia stato colto impreparato il presidente Clinton, quando lesse quel rapporto dei suoi servizi segreti che annunciava come, intorno al 2010, interi apparati, governi e istituzioni di molti Stati sarebbero stati sostituiti da sistemi criminali organizzati, dalle mafie, dai loro eserciti, dai loro manager, dalle loro polizie, delle loro banche, dalle loro multinazionali: d’altra parte questo processo era stato già largamente favorito dal suo impero in America Latina, poi via via in Europa, in Turchia, in paesi di volta in volta amici o acerrimi nemici a intermittenza, per via di quella coincidenza di interessi tra economia, finanza, mondo d’impresa ufficiale e malavita, malaffare, cosche, consorterie, predoni, ben rappresentati in una cupola globale.
La profezia si è realizzata, in qualche caso con le modalità care a Hollywood, in altri con forme solo apparentemente più blande e meno cruente, che stanno però ugualmente segnando la fine delle democrazie e della giustizia, quella regolata da leggi e obblighi giuridici e quella che deve albergare nella società e negli individui, ispirata da imperativi morali.
Ma malgrado cointeressenze, patti, alleanze, associazioni d’impresa non temporanee strette in nome di quella comunanza di pensiero e opere che si chiama profitto, le organizzazioni criminali tradizionali erano costrette a spendere, spendere per accreditarsi e per consolidare la loro presenza fino alla desiderata occupazione militare della società.
Mercato della droga e delle persone, prostituzione e immigrazione clandestina, riciclaggio di denaro sporco, penetrazione nell’economia reale e immateriale, traffico d’armi, immobili, gestione dei rifiuti, sono brand fruttuosi, ma che richiedono investimenti e manutenzione perché siano attivi e in buono stato in modo da garantire efficiente manovalanza, valorizzazione della rete di relazioni con la politica, rafforzamento di infrastrutture e servizi. Far arrivare al mercato almeno un chilo di coca su due, costa. E ancora di più costa il riciclaggio, per via dell’impiego di risorse umane e addetti sempre più professionali, per la necessaria conquista di banche e istituti di credito: lo sanno russi e ucraini che hanno stabilito le loro basi da noi nascondendo le loro attività dietro società di comodo e finanziarie che ripuliscono soldi sporchi trasformandoli in sostegno al credito e fondi. Costa trasportare in giro auto rubate con un commercio che nel 2010 aveva fatto guadagnare in Europa e Usa almeno 10 miliardi, e costa ancora di più l’export di rifiuti tossici, che richiede qualche accorgimento necessario a far su quei 13 miliardi. Certo, finché c’è guerra c’è speranza e per fortuna quello di armi resta uno dei più profittevoli con un introito secondo il Fmi di almeno 300 miliardi di dollari, ma anche per quello ci vogliono soldi per ungere le ruote, per accaparrarsi fette target contesi a aziende, spesso statali. E lo sa Viktor Bout artefice delle più importanti negoziazioni per la fornitura di armi al mercato africano, sudamericano, compresa di Boeing, conciliando gli antagonisti della leggendaria e rediviva guerra fredda: armi provenienti dei paesi ex sovietici e dalla Russia e finanziamenti attinti dal sistema bancario Usa.
E allora benedette quelle formule, sia pure minori, ma promettenti, che possono approfittare di una rete di strutture, operatori, servizi legali, addirittura gestiti da stati che non ammettono di essere “canaglia”. A cominciare dal gioco d’azzardo che reca in sé anche un messaggio legato alla tradizione: le vincite sono state utilizzate da malviventi, corrotti compresi, per giustificare repentini arricchimenti; un settore nel quale il crimine gioca una leadership autorizzata, forte di una liquidità che nessuna azienda sana possiede, grazie alla diffusione incontrollata in rete, alla possibilità di pagare il premio ai fortunati, salvo la imprescindibile percentuale mafiosa, reinvestendo la vincita giustificata e legittima in titoli e immobili, controllando sale Bingo, macchinette e scommesse. Un brand in crescita, se dal 2007 è lievitato del 350%, fino a oltre 88 miliardi, senza contare i proventi del gioco clandestino, almeno una ventina. E se gli addict della droga d’azzardo sono in crescita, quelli già dipendenti almeno un milione e quelli patologici secondo il Cnr più di 250 mila, nelle mani di strozzini, pronti a rubare per pagarsi le dosi, disponibili alla manovalanza nei giri del racket e delle estorsioni oltre che a fare proselitismo.
Adesso però il premier, che viene da immaginare ragazzino a tentare la fortuna, ben oltre la Ruota, alle slot del bar in piazza a Rignano con qualche colpetto proibito, mette ordine nel settore, con una misura annunciata e corroborata dal venditore di spiagge Baretta e volta a “eliminare l’offerta di gioco dagli esercizi generalisti secondari (alberghi, esercizi commerciali, edicole, ristoranti, stabilimenti balneari, rifugi alpini, e altri); riducendola in modo significativo nei pubblici esercizi (bar) e nelle rivendite di tabacchi”. Il fatto è che non fanno pace col cervello: a una legge di Stabilità, l’ultima, che prescriveva la riduzione graduale del numero delle slot machine di almeno il 30%, entro quattro anni, risponde l’Agenzia dei monopoli chiarendo che il taglio concernerà sia le macchinette in esercizio che quelle in magazzino, almeno 50 mila, aggiungendo che il provvedimento non interesserà le concessioni, neppure quelle scadute, sicché per tutto quest’anno con buona pace dei lodevoli annunci restano in vita oltre 420 mila macchinette una ogni 143 italiani e più del 10% oltre la percentuale del 2015.
È che fa comodo allo Stato quel gettito disonorevole: un bottino che ha segnato la chiusura dello scorso anno con quasi 85 miliardi di euro, al netto delle vincite pari a 17,5 miliardi di euro, mentre il resto va alla “filiera”: tanto che alla dismissione della rete di slot in bar e tabaccherie, farà da contrappunto l’applicazione megalomane delle grandi opere in grande stile anche al gioco, con quattro Grandi Casinò. È che fa ancora più comodo stordire la gente con l’illusione di essere benedetti dalla fortuna dopo essere stati offesi dalla sorte, se l’Aquila vanta il record della densità nazionale di macchinette, una ogni 83 cittadini.
E se una volta tanto non si reclama un benefico e auspicabile processo di privatizzazione del comparto, è solo perché è già privato, privatissimo e monopolizzato dalle imprese criminali. Se mancano dati certi su quanto davvero arriva alle casse statali e quanto invece scorre nel fiumi illegali delle mafie, basta leggersi i rapporti della Direzione Investigativa Antimafia, consultazione trascurata dal governo, che rilevano come il gioco d’azzardo si confermi uno dei business più fiorenti per le organizzazioni mafiose italiane che sempre più spesso, oltre alla gestione del mercato illegale, cercano di infiltrarsi in quello legale. E fa gola anche alle organizzazioni malavitose di altri paesi che si stanno radicando in Italia, che si alleano o competono con quelle interne nella gestione delle sale clandestine e nei racket collegati, primo fra tutti quello dell’usura.
E segnalano oltre alla vitalità di camorra, n’drangheta e mafia, l’irruzione dei organizzazioni straniere “capaci di inserirsi fraudolentemente nel settore dei giochi e delle scommesse ed in grado di speculare sul gioco d’azzardo, anche attraverso la concessione di prestiti ad usura in favore dei giocatori dei casinò”. Pare che proprio le scommesse online siano la “nuova frontiera della Mafia su scala globale, con organizzazioni sempre più globalizzate, esperte di informatica in grado di agire fuori dal contesto regionale di origine traendo grandi profitti su scala internazionale.
E il business è incrementato dalla tassazione di favore mantenuta da tutti i governi a partire da Berlusconi, con il pretesto che favorire il gioco legale avrebbe sottratto terreno al gioco illegale controllato dalle mafie. Queste ultime, invece, si sono buttate nell’affare più di prima, come sempre accade quando la legislazione offre incentivi senza saperli o volerli accompagnare da un’attenta opera di sorveglianza e controllo, ancora più necessaria nel caso di attività che costituiscono un rischio sociale.
L’annuncio del premier, come spesso accade, sfiora il ridicolo: se è lo Stato a voler fare il biscazziere, siamo di fronte al caso insolito di un banco che vuol continuare a perdere.

Fonte: Il Simplicissimus 

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