La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 9 novembre 2015

Usa, lobby davvero trasparenti?

di Giovanni Battista Zorzoli
Quasi tutti i media italiani hanno scelto di descrivere le primarie Usa per scegliere i candidati democratico e repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, privilegiandone gli aspetti più folkloristici. In questo aiutati da un candidato, come Donald Trump, che si presta egregiamente alla bisogna. Anche quando si è cercato di offrire una descrizione più puntuale delle diverse posizioni finora emerse, l’analisi è rimasta confinata al palcoscenico, senza informazione alcuna su quanto sta avvenendo nel backstage. Dove si svolge uno spettacolo non proprio edificante.
A farci sapere qualcosa di più è un’indagine del «New York Times», secondo cui appena 158 soggetti, in proprio o tramite le società che controllano, ciascuno con almeno 250.000 dollari, hanno contribuito a finanziare la prima fase delle primarie USA, per un totale di 176 milioni di dollari. Sono quasi tutti bianchi, ricchi, anziani e maschi, che risiedono in un arcipelago di quartieri ricchi ed esclusivi, del tutto separati dal resto di un’America dove gli aventi diritto al voto sono prevalentemente più giovani, donne, neri o «brown». Se aggiungiamo al mazzo i duecento «poveretti» che hanno contribuito con appena poco più di 100.000 dollari, si supera di parecchio la metà dei finanziamenti raccolti dai candidati alle primarie USA.
Bisogna risalire a prima dello scandalo Watergate, cioè a fine anni Sessanta, per trovare un numero così ristretto di persone disposte a finanziare così tanto e così in anticipo le primarie, rileva il «New York Times».
La composizione degli odierni Paperoni è però radicalmente diversa da quella di allora. Quasi il dieci per cento sono immigrati: da Cuba come dal Pakistan, dalla vecchia URSS, dall’India, da Israele. Pochi operano all’interno delle tradizionalicorporation americane o hanno ereditato la loro ricchezza (119 self made men contro 37 ereditieri). Infatti 67, includendo anche le assicurazioni, lavorano nel settore finanziario (spesso hanno creato hedge fund). 17 nel settore delle materie prime (soprattutto petrolio). 15 nell’edilizia. 12 nei media e nello spettacolo, fra cui Steven Spielberg, e altrettanti nel settore cosmetico-sanitario. Solo 10 nell’high tech, 6 nell’industria manifatturiera, 5 in quella alimentare.
Questa classe di neoricchi finanzia in prevalenza i candidati alle primarie repubblicane, che promettono di ridurre le tasse sui redditi, sui capital gain, sulle eredità, compensando le minori entrate fiscali con tagli all’assistenza sociale: si comportano così in 138, contro 20 che finanziano candidati democratici. E in diversi casi sostengono i candidati repubblicani più estremisti. Ad esempio Robert Mercer attraverso il suo hedge fund, Toby Neugebauer, un investitore in private equity, e gli Wilks, che hanno accumulato miliardi di dollari fornendo attrezzature e camion a chi estrae shale gas o shale oil, hanno sostenuto il senatore texano Ted Cruz, aderente al Tea Party. Anche una buona parte di chi contribuisce alle spese per le primarie dei candidati democratici appartiene al mondo della finanza, a partire da un nome noto come Soros; se la loro percentuale è inferiore a quella esistente sul versante dei repubblicani, lo si deve alla tradizionale presenza di contributori di Hollywood e dintorni.
E siamo solo all’antipasto. A quanti miliardi di dollari arriveremo, visto che le primarie si concluderanno solo a 2016 inoltrato, poi ci saranno le convenzioni nazionali dei due partiti per la nomina dei due candidati alla presidenza, infine le elezioni presidenziali vere e proprie? Miliardi, di cui presumibilmente la metà sarà arrivata da un pugno di neoricchi, inevitabilmente condizionando elezioni dove donne e uomini, in buona parte appartenenti alle tante minoranze che ormai fanno la maggioranza, vorrebbero poter scegliere qualcuno attento alle loro esigenze di un lavoro dignitoso, di welfare, di scuole in grado di fornire una formazione adeguata ai propri figli.
Non stupisce quindi se agli ostacoli oggettivi, che in USA favoriscono un basso livello di partecipazione al voto degli strati sociali etnicamente e socialmente più sfavoriti, si aggiunge in misura crescente la sfiducia verso candidati distinguibili perché sostengono programmi almeno in parte diversi, ma non sotto il profilo degli interessi di chi ne ha finanziato le campagne elettorali. Naturalmente gli stessi media italiani che tacciono sui finanziamenti USA, sono pronti a strillare contro l’ingordigia della politica, quando qualcuno osa riproporre il finanziamento pubblico dei partiti.

Fonte: Alfabeta2

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