La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 12 novembre 2015

La scuola e le parole sbagliate

di Carlo Ridolfi
Quando si inizia un discorso, sarebbe opportuno aver fatto pulizia nel linguaggio. Perché le parole pesano e lasciano tracce e se sono parole sbagliate possono lasciare tracce doloranti e dolorose. Così, ad esempio, se una volta dicevamo direttore didattico (e ci viene in mente Gianfranco Zavalloni, che ci diceva: “Io ho delle segretarie formidabili, che si occupano delle circolari e dei timbri. Io mi interesso della didattica”) e oggi dovremmo invece dire dirigente, cominceremmo già a torcerci verso quel paradigma aziendalista che sembra andare per la maggiore.
Così, in ugual modo, se chiamiamo utenti gli studenti, o se gli obiettivi didattici vengono riassunti in un testo che si intitola piano dell’offerta formativa, richiamandosi per logica ad una domanda e ad una logica di scambio mercantile.
Useremo quindi parole forse desuete, ma che ci convincono di più, per dire alcuni pensieri sull’educazione e sulla scuola.
Scrive in un suo (bellissimo) testo il senatore Walter Tocci:
«Il primo e l’ultimo giorno di scuola sono i momenti che rimangono nella memoria della persona. (…) Il primo giorno di scuola coincide con la nascita e l’ultimo giorno con la fine della vita»[1].
Pulizia del linguaggio: l’usura delle parole di cui, a volte, sembra soffrire il nostro tempo, causa slittamenti di significato che hanno conseguenze pratiche spesso deleterie. Infatti quando si parla di educazione molti intendono scuola, attribuendo (i genitori) o assumendo su sé (gli insegnanti) il compito di trasmettere non solo nozioni, ma anche stili di vita, forme di pensiero, costumi e senso comune.
Così come Tocci, anche il (nostro) grande maestro Mario Lodi ci ricordava sempre che l’educazione non comincia (e non finisce) a scuola, ma che il bambino e la bambina arrivano già alla scuola dell’infanzia, e ancor più alla primaria, con un bagaglio culturale ed emotivo appreso in famiglia, dall’ambiente circostante, dai media, di cui è necessario tener conto.
In un’epoca e in un mondo nei quali l’ansia maggiore sembra essere quella della misurabilità delle prestazioni, così da quantificarne estensione e durata, la riflessione che ci è parsa più urgente è stata quindi quella di cercare una possibilità altra, che consideri la dimensione educativa come non necessariamente soggetta a calcolo e bilancio economicistico. Abbiamo quindi cominciato ad immaginare una scuola buona, dove il sostantivo non indica solo uno spazio o un tempo definito, ma una vita intera, e l’aggettivo recupera i suoi significati originari di tensione al bene, onestà, mitezza, cortesia, generosità, ma anche di qualità, di valore, di eleganza.
Cercheremo cioè di indicare una prassi del cammino, perché il punto di partenza dev’essere la corretta definizione di quanto la nostra azione possa essere efficace, se improntata a quel principio di responsabilità verso chi ci è prossimo, ponendo l’attenzione allo spazio reale in cui noi si possa agire.
Diceva Ernst Bloch:
«L’obiettivo delle utopie sociali è l’instaurazione della massima felicità umana e di una libertà che non ostacoli l’aspirazione alla felicità; il contenuto, il modello cui rimanda il diritto naturale, non è l’umana felicità, bensì il camminare eretti, l’umana dignità, l’ortopedia del camminare eretti, ovvero che nessuna schiena si curvi dinanzi ai troni reali ecc., bensì la scoperta dell’umana dignità, la quale non viene più dedotta dai rapporti cui si deve adeguare, ma (tanto peggio per i dati di fatto!) dal nuovo, fiero concetto di uomo, d’un uomo che non striscia procedendo come un rettile, bensì di un uomo con la testa eretta, il quale ci impegna moralmente, distinguendoci e differenziandoci dagli animali»[2].
Si definisce qui già un obiettivo generale, che servirebbe da spartiacque per collocare la scuola buona. I processi educativi e quelli più compiutamente didattici devono servire a inserire l’alunno o l’alunna in un ambiente dato, al quale essi debbano conformarsi, oppure a fornire loro strumenti per contribuire alla trasformazione e al cambiamento progressivo di quello stesso ambiente? Rispondendo in un senso o nell’altro si ha già chiara l’idea di dove si va a parare.
Se ci è necessaria, quindi, una ortopedia del camminare eretti, può essere conseguente che la nostra azione risulterebbe inefficace se diretta o a uno spazio così generico e impalpabile da risultare presto soffiata via nel cielo delle idee, o a confini così angusti da ripiegarsi su se stessa in una quasi inevitabile eterogenesi dei fini. Fissare, ad esempio, il nostro campo di azione nel raggio delle persone e dei luoghi che possiamo raggiungere camminando sarebbe già un criterio di economia delle forze e di razionalità politica.
Potremmo partire, cioè, da un’azione educativa nella prossimità.
Ancora Walter Tocci:
«L’ossessione normativa dell’ultimo ventennio ha irrigidito il sistema scolastico con una burocrazia sempre più asfissiante. Invece, nella Prima Repubblica, le leggi sono arrivate sempre in ritardo a certificare un mutamento che prima era stato maturato nella vita quotidiana della scuola. Le riforme erano processi complessi e multiformi: il ruolo dei grandi profeti come don Milani, Mario Lodi, Albino Bernardini che hanno suscitato la vocazione di milioni di insegnanti; l’elaborazione dei programmi nelle commissioni composte dai migliori intellettuali del Paese; le sperimentazioni che aprivano varchi nella nebbia del conformismo ministeriale; l’associazionismo cattolico e laico che formava i docenti ed elaborava nuovi percorsi didattici; le lotte sindacali che, per la prima volta in Italia, ponevano l’esigenza dell’educazione degli adulti con le 150 ore; gli enti locali che favorivano l’apertura alla creatività dei territori. I partiti sapevano assorbire questi fermenti per poi tradurli in programmi nazionali e infine nelle leggi dello Stato. In questo modo sono state create le eccellenze italiane di rilievo internazionale: la scuola dell’infanzia di certe regioni, il tempo pieno, gli istituti tecnici in relazione con i tessuti industriali etc.»[3].
Al politico possiamo quindi dire che una scuola buona non può essere la scuola pubblica che sembra essere sempre più orientata a diventare una scuola privata: privata di mezzi, di intelligenze, di agibilità.
All’imprenditore che abbia ben chiaro che i riferimenti obbligati per tutti noi sono quelli della Costituzione della Repubblica Italiana e, in particolare per lui, principalmente gli Articoli 41-42-43[4], ma anche i seguenti 44-45-46-47, possiamo ricordare che una virtuosa circolazione delle informazioni, delle conoscenze e delle competenze può arricchire sia il know-how dell’impresa che quello della società.
Al cittadino, sia esso, in questo caso, genitore o insegnante o tutt’e due, è giusto e possibile assegnare il compito di pensare a pratiche di scuola indipendente: a sperimentare – cioè – negli spazi pubblici là dove sia possibile, ma anche in spazi non pubblici che non siano per ciò stesso improntati esclusivamente al profitto – forme educative e prassi pedagogico-didattiche che pongano in concreto al centro i bambini e le bambine e le ragazze e i ragazzi.
Con quale metodo di lavoro?
1. Non dare nulla per scontato. Non esiste la didattica data una volta per tutte o la pedagogia buona per tutte le stagioni. La teoria e la pratica si devono confrontare con la situazione reale, con gli studenti in carne ed ossa.
2. Non adagiarsi sulle mode. Gli educatori dovrebbero essere curiosi per abitudine intellettuale e pratica.
3. Abbandonare la logica del sistema (dato e immodificabile) per entrare nella logica del processo (in cui esistono sia elementi di costante che possibili varianti).
4. Educare alla bellezza. Perché la scuola buona dev’essere anche bella. Non si tratta di una accademica scelta per pochi iniziati, di un’aristocratica tensione estetizzante, ma di un orizzonte a cui tendere continuamente, con la consapevolezza che l’educazione all’armonia delle forme e dei contenuti è la strada più agevole per una formazione di sensibilità civiche.
5. Decifrare il solfeggio dello spirito. La definizione, bellissima, è stata attribuita dagli articolisti di Le Monde nel ricordo del grandissimo antropologo Claude Lévi-Strauss. “Decifrare il solfeggio dello spirito” significa, ad esempio, in didattica della letteratura o dell’immagine, utilizzare gli strumenti dell’analisi strutturale e stilistica non per quelle insopportabili autopsie dei testi che sono le schede di valutazione, ma per una maggiore e sempre più approfondita esplorazione dei criteri e degli elementi intertestuali che può farci conoscere ancora meglio la bellezza dei testi stessi.
6. Agire insieme. Significa, prima di tutto, mettere in comune le rispettive conoscenze. Non solo in termini di apertura alla discussione e al confronto, ma anche, nella pratica quotidiana, nel rendere disponibili materialmente sia eleborazioni teoriche che azioni di pratica educativa. Significa, concettualmente ma anche in concreto, privilegiare la logica dell’open-source, piuttosto che quella delcopyright e della proprietà privata delle idee.
Come scrive Beatrice Bonato :
«Contro la perfezione imposta dalla società neoliberale o dal capitalismo tecno-nichilista, non è l’appiattimento che vorremmo salvare, quanto una rinnovata capacità di apprezzare ciò che non ha prezzo, e per cui è difficile non usare il linguaggio del dono. (…) La dimensione del dono potrebbe interessare da vicino e da più lati la questione dell’insegnamento, consentendo di rovesciare in un pregio quella resistenza alla logica mercantile e tecnica imputata alla scuola come il suo più grave ritardo»[5].
Perché, in definitiva, la scuola buona è una scuola da benedire come un regalo.

Note

Walter Tocci: La mancata riforma della scuola. Manuale di sopravvivenza agli abbagli mediatici. 2015.

Ernst Bloch: Marxismo e utopia. A cura di Virginio Mazzocchi. Editori Riuniti. Roma, 1984.

Walter Tocci. Id.

Art. 41: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Art. 42: La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sull’eredità.
Art. 43: A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di interesse generale.

Beatrice Bonato: Senso e non senso della competizione, in Aut Aut n. 358. La Scuola impossibile.


Fonte: comune-info.net 

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