La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 12 novembre 2015

Quando i mercati finanziari fraintendono la politica

di Dani Rodrik
Quando il partito turco per la giustizia e lo sviluppo (Akp) sfidò gli esperti e i sondaggisti riconquistando la maggioranza parlamentare nelle elezioni generali del paese il 1 novembre, i mercati finanziari ne furono allietati. Il giorno successivo, la borsa di Istanbul guadagnò oltre il 5% e la lira turca registrò un rialzo.
Poco importa quanto sia arduo trovare qualcuno nel mondo imprenditoriale o finanziario disposto a dire qualcosa di carino in questi giorni su Recep Tayyip Erdoğan o sull’Akp che ha guidato prima della sua ascesa alla presidenza nel 2014. Ma fate attenzione: sebbene si supponga che il presidente della Turchia sia sopra le parti, Erdoğan resta ben saldo al timone.
In effetti, è stata la strategia del divide et impera di Erdoğan – che alimenta il populismo religioso e il sentimento nazionalista e infiamma la tensione  etnica con i curdi – a portare l’Akp alla vittoria.
Probabilmente, questa era l’unica strategia che potesse funzionare. Dopo tutto, il suo regime ha allontanato i liberali con i suoi attacchi ai media; gli imprenditori con l’espropriazione delle aziende così da unirsi agli alleati di un tempo nel cosiddetto movimento Gülen; e l’Occidente con i toni di scontro e la posizione incoerente sullo Stato islamico.
Eppure i mercati finanziari, evidentemente premiando la stabilità, hanno accolto positivamente il risultato. Gli investitori hanno creduto che un governo di maggioranza Akp fosse decisamente meglio della probabile alternativa: un periodo di incertezza politica, seguito da una debole e indecisa coalizione o da un’amministrazione di minoranza. In questo caso, però, è mancato un po’ di buon senso.
È vero che l’Akp ha fatto alcune cose buone poco dopo essere salito al potere per la prima volta alla fine del 2002. Ma le scorrettezze del partito venivano limitate dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale all’estero e dai secolaristi in casa. Una volta rimossi quei limiti, i governi di Erdoğan hanno abbracciato il populismo economico e la politica autoritaria. L’apparente ottimismo degli investitori a seguito della vittoria del Akp ricorda la definizione di follia di Einstein: fare sempre le stesse cose aspettandosi risultati diversi.
La Turchia certamente non è l’unico caso in cui i mercati finanziari hanno mal-interpretato la politica di un paese. Prendiamo il Brasile, la cui valuta, il real, viene tartassata dalla metà del 2014 – in modo più pesante rispetto a molte altre monete dei mercati emergenti – soprattutto a causa di un grosso scandalo sulla corruzione scoppiato nel paese. I pubblici ministeri hanno rivelato una fitta rete di tangenti centrata sulla compagnia petrolifera statale Petrobras e che vede coinvolti dirigenti, parlamentari e funzionari di governo. Appare quindi naturale che i mercati finanziari si siano spaventati.
Eppure il risultato più importante dello scandalo è stato quello di sottolineare la notevole forza, e non la debolezza, delle istituzioni giuridiche e democratiche del Brasile. Il pubblico ministero e il giudice del caso hanno potuto fare il proprio lavoro, malgrado il naturale impulso del governo del presidente Dilma Rousseff di annullare le indagini. E a quanto pare, le indagini sono state seguite da adeguati procedimenti giudiziari e non sono state utilizzate per far guadagnare posizioni nel programma politico dell’opposizione.
Oltre alla magistratura, hanno partecipato e lavorato in synch anche una serie di istituzioni, incluse la polizia federale e il ministero delle finanze. Imprenditori e politici di spicco sono finiti in carcere, tra cui l’ex tesoriere del Partito dei lavoratori al governo.
Si presume che i mercati finanziari siano lungimiranti, e secondo molti economisti, l’allocazione delle risorse dovrebbe avvenire secondo modalità che riflettono tutte le informazioni a disposizione. Ma un accurato confronto tra l’esperienza del Brasile e quella di altre economie dei mercati emergenti, dove la corruzione non è un problema da meno, dovrebbe, almeno, portare a un miglioramento della posizione del Brasile tra gli investitori.
Tornando alla Turchia, le intercettazioni telefoniche che sono trapelate hanno direttamente coinvolto Erdoğan e la sua famiglia, insieme a una serie di ministri del governo, in una rete di corruzione altamente lucrativa che implica gli scambi commerciali con l’Iran e affari nel settore edile. Non è un mistero che l’appalto pubblica venga utilizzato per arricchire le tasche di politici e amici imprenditori. Tutto sembra suggerire che la corruzione raggiunga le alte sfere del potere e sia più diffusa che in Brasile.
Ma oggi sono i funzionari di polizia che guidano le indagini di corruzione contro Erdoğan ad essere in carcere. Alcuni canali di informazione a supporto delle indagini sono stati chiusi e rilevati dal governo.
L’Akp sostiene che i funzionari di polizia siano sostenitori del movimento Gülen e che le indagini siano state spinte da motivazioni politiche e da finalità tese a spodestare Erdoğan. Entrambe le affermazioni sono molto probabilmente vere. Ma nulla giustifica la flagrante illegalità con cui il governo di AKP ha dato un giro di vite alle accuse di corruzione. Il risultato è che le istituzioni della Turchia, diversamente da quelle del Brasile, vengono catturate e corrotte a tal punto da ostacolare la crescita e lo sviluppo economico per gli anni a venire.
E la Turchia non è l’unico paese in cui viene ignorata la corruzione su larga scala. In Malesia, il primo ministro Najib Razak è al centro di un grande scandalo politico da quando quasi 700 milioni di dollari in fondi non contabilizzati sono stati ritrovati nei suoi conti bancari. Miliardi di dollari sembrano mancare dal fondo di investimento governativo 1MDB, che controllava Najib. Najib ha promesso un totale regolamento dei conti, ma ha dato il benservito proprio al procuratore generale della Malesia, che stava indagando su 1MDB.
In America Latina, Argentina e Messico si collocano agli ultimi posti della classifica tra i paesi che tengono sotto controllo la corruzione e mantengono la trasparenza – molto più in basso rispetto al Brasile. Il drammatico rapimento e la brutale uccisione nel 2014 di 43 studenti a nord di Città del Messico è solo l’ultimo esempio di collusione tra gang criminali, poliziotti e politici del paese.
È dalla dolorosa esperienza che sappiamo come il focus di breve termine e il comportamento gregario dei mercati finanziari spesso li portino a trascurare importanti fondamentali economici. Non dovrebbe sorprenderci il fatto che lo stesso atteggiamento possa avere un effetto distorsivo sul giudizio che i mercati hanno sulla governance dei paesi e sulle prospettive politiche.

Traduzione di Simona Polverino
Fonte: Project Syndicate 

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