La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 12 novembre 2015

Dire le cose chiaramente. Il leader di Podemos si racconta

di Angelo d’Orsi 
Il 27 ottobre scorso, Pablo Iglesias Turrión, leader indiscusso di Podemos, tenne un discorso al Parlamento Europeo, dove ricopriva la carica di deputato. Si trattò del suo ultimo intervento in quella sede, in quanto contestualmente, Iglesias inviava una lettera di dimissioni irrevocabili, precisando altresì di voler rinunciare a ogni beneficio spettantegli in quanto ex deputato europeo. 
La motivazione formale delle dimissioni era, ed è, che essendo egli candidato nelle imminenti elezioni generali in Spagna, candidato a guidare il Paese, con una non irrilevante aspettativa di successo, non poteva dedicarsi con l’impegno fino ad allora profuso al lavoro parlamentare. 
Molti storsero la bocca davanti alla notizia accusando il capo di Podemos di curare più gli affari propri che quelli europei: una critica che mi parve ingenerosa, oltre che impolitica. Iglesias aveva ogni diritto di ritirarsi da quel ridicolo carrozzone che è il Parlamento di Bruxelles, dopo averne sperimentato la sordità, ma anche dopo aver conosciuto da vicino l’angustia mentale della stragrande maggioranza (per non dire la quasi totalità) dei suoi membri. 
Tanto nella lettera di dimissioni, quanto, più argomentatamente, e con l’efficace vigore che gli è consueto, nel discorso all’Assemblea, Iglesias aveva dato un sonoro schiaffo ai suoi colleghi, molti dei quali, stando alle immagini, non troppo diversamente da quanto accade da noi, erano intenti a giochicchiare sui rispettivismartphone, mentre Iglesias lanciava i suoi strali. 
Aveva, questo nuovo astro della politica iberica, denunciato la chiusura dell’Europa ai migranti, in fuga da guerre che la stessa Europa fomenta, e aveva impietosamente puntato l’indice su talune figure di quell’universo politico-finanziario, dicendo a chiare lettere che il capo della Commissione, il lussemburghese Juncker, era stato fino alla sua nomina a quella carica (una nomina, decisa da alcuni signori chiusi in qualche hotel riservato), un patrocinante dell’evasione fiscale. E così via, in un serrato corpo a corpo con il pachiderma europeo: il silenzio, tanto delle autorità, quanto della gran parte dell’Assemblea parve un sospiro di sollievo. Il rompiscatole se ne andava. Certo, ne rimane qualcun altro, e qualcun’altra (vedi l’italiana Eleonora Forenza), ma si trattava tuttavia di un addio rumoroso, che, era al di là della vicenda spagnola, un gesto di rottura importante. 
Eppure sbaglierebbe chi pensasse che Iglesias sia un “estremista”, e ancor più chi lo volesse liquidare con il solito refrain: antipolitica, populismo, o peggio qualunquismo, e via blaterando. Il libro pubblicato ora in edizione italiana (Edizioni Alegre), col titolo infedeleDemocrazia anno zero (quello originale è Disputar la democracia) viene presentato come “Il manifesto politico” di Iglesias, più che del suo movimento, che, a quanto si sa, ha le sue interne controversie, così come si sa che oggi un altro movimento dal basso, “Ciudadanos”, compete con “Podemos”, per la leadership di un’agorà popolare, che si opponga all’esiziale duopolio PSOE-PPE. 
Comunque, è del tutto evidente che le idee qui espresse da Iglesias abbiano permeato Podemos, e nella sua esposizione egli mostra, va detto, una non comune capacità di comunicazione, anche se è evidente lo sforzo di semplificare il discorso politico, per farlo giungere al maggior numero possibile di persone. Il volume, curato da Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena, che già hanno realizzato un precedente lavoro (Podemos. La sinistra spagnola oltre la sinistra, 2014, sempre per le Edizioni Alegre), reca una intervista a Maurizio Landini, che, a dire il vero, non appare molto coerente con Iglesias e le sue posizioni, e mi chiedo perché sia stata compiuta questa scelta. 
Naturalmente, Landini dice cose interessanti, ma il nesso con Iglesias, che i curatori in qualche modo cercano di sottolineare, o quanto meno di cercare, non emerge, e Landini lo fa pur garbatamente capire. Non mi nascondo il dato che Landini come Iglesias rappresenti una possibile alternativa di sistema, e che nel retropensiero dei curatori questo pensiero ha, suppongo, agito potentemente… 
Per quanto concerne il testo vero e proprio di Iglesias, esso esprime una cultura notevole, anzi, per un giovane leader politico, più che notevole. Del resto Iglesias è di professione ricercatore, e precisamente di Scienza politica, all’Università Complutense di Madrid, e non rinuncia a farcelo sapere, con innumerevoli riferimenti dotti ai classici del pensiero politico, alternati a protagonisti del dibattito pubblico, spagnoli, ma non soltanto. Sicché il testo è lardellato di citazioni, dirette o indirette, fedeli o infedeli, da Machiavelli a Weber, da Antonio Gramsci a Immanuel Wallerstein, da Giovanni Arrighi a Perry Anderson… 
Insomma, fin qui potremmo definirlo un saggio di politologia, ma sarebbe una idea parziale e in fondo sbagliata: si tratta piuttosto di un messaggio forte per il cambiamento della politica, giacché la sfida di Podemos, che si condividano o meno, tutti o in parte, i contenuti del suo programma, è proprio sul metodo, e sui soggetti. 
Da questo punto di vista, non v’è dubbio che la proposta di Iglesias e compagni sia quella di un “anno zero” della democrazia, ossia di un momento epocale in cui o si rilancia la democrazia, o la si lascia morire, per il combinato disposto delle élite finanziarie e del ceto politico che in base al principio delle “porte scorrevoli”, passano da un ruolo all’altro, rimanendo fermo il comun denominatore: il potere della Grande Finanza, di cui i governanti, e la gran parte dei cosiddetti rappresentanti del popolo, i parlamentari, non sono che esecutori passivi. 
Quel grumo di potere decide tutto, nell’opacità di un meccanismo sottratto al controllo della pubblica opinione: con grande semplicità ed efficacia Iglesias racconta la “crisi”, questo mostro in parte reale, in parte immaginario, che sta giustificando, almeno da otto anni, una micidiale accelerazione del divario tra i ricchi (sempre meno numerosi e più ricchi) e i poveri (sempre più numerosi e più poveri), mentre cancella via via i tratti fondamentali dello Stato sociale, e le stesse forme della liberaldemocrazia, in una sorta di indifferenza che nasce dall’ottundimento svolto da una incessante “pubblicità” operata dai media, che ormai non forniscono più informazione, bensì propaganda anche sul piano direttamente politico, anche quelle reti e quei giornali che si spacciano per come fogli di informazione indipendente. 
Non demonizza i media, però, Iglesias, neppure la “cattiva maestra televisione”, per usare la nota formula dell’ultimo Popper; e non potrebbe farlo essendo egli stesso un frequentatore apprezzato dei programmi tv politici sulle reti spagnole, anche se è consapevole che, tanto nell’ambito della televisione, quanto in quello politico, il berlusconismo è passato dall’Italia alla sua terra di Spagna, sedimentando profondamente. 
No, non è un marxista, Iglesias, né si spaccia per tale, anche se almeno un po’ della lezione dell’autore del Capitale è passata nel suo messaggio, a cominciare dalla critica impietosa del neoliberismo e del “finanzcapitalismo” (per usare la formula che il compianto Luciano Gallino ha ripreso da un classico come Rudolf Hilferding), una critica che non sarebbe pensabile senza un retroterra anche solo molto parzialmente imbevuto di marxismo. Iglesias, mostrando una intelligenza prensile, molto ricettiva, afferra concetti ed espressioni dai più diversi bagagli, dalla economia al giornalismo, dal cinema alla filosofia, che usa con grande disinvoltura e pure una certa ingenuità da studente che vuol fare “bella figura”. 
Ma prima di tutto il libro si caratterizza per la peculiare capacità comunicativa dell’autore, che anche quando scrive sembra stia partecipando a un talk show, mettendo in luce doti eccellenti di persuasore, non occulto, ma palese e dichiarato. La trasparenza, d’altronde, è uno dei punti qualificanti della pratica politica di questi nuovi movimenti sgorgati dal vivo delle lotte di piazza, tornata ad essere la generatrice prima della politica, della sua forma più autentica e più vera. 
Non un marxista, Iglesias, dicevo, ma non può leggere il presente e la crisi senza quelle lenti; non un estremista, anzi sostenitore di un cauto realismo politico, pur differenziandolo dalla Realpolitik che fa della “ragion di Stato” un feticcio davanti al quale ci si dovrebbe comunque piegare. Iglesias è comunque sempre capace di dire pane al pane e vino al vino, senza timori reverenziali, come ha dimostrato nel discorso del 27 ottobre: “Dire le cose chiaramente”, come egli scrive, parlando delle pratiche del suo movimento, potrebbe essere l’insegna di Podemos, e avrebbe potuto essere altresì la fascetta editoriale di lancio del volume.

Fonte: MicroMega online 

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