La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 10 settembre 2016

La Germania scopre il populismo

di Tonino Bucci 
Il successo della giovane formazione dell’AfD (Alternativa per la Germania), nelle recenti elezioni regionali tedesche, decreta la fine del monopolio decennale della Merkel. A dispetto della sua potenza economica, la Germania è in fermento. Il capitombolo del partito della cancelliera Angela Merkel nelle recenti elezioni tedesche è una notizia. Nessuno di aspettava un risultato così deludente, sotto al 20 per cento, per di più nella patria politica d’adozione della cancelliera. Il successo dei “populisti“ nel Land Mecklenburg-Vorpommen (Meclemburgo-Pomerania), invece, è una non notizia. La giovane formazione dell’AfD (Alternativa per la Germania) è tutt’altro che nuova a risultati del genere.
Il partito guidato dalla brillante e poco più che quarantenne Frauke Petry ha centrato praticamente al primo tentativo l’ingresso in tutti i parlamenti dei Länder nei quali si è votato da un paio d’anni a questa parte. Tutti i sondaggi, per quel che valgono, davano i consensi per l’AfD in ascesa. Certo, il risultato ottenuto domenica scorsa è eclatante perché proietta questo partito oltre il venti per cento, anche se non è la prima volta. Già nelle elezioni del marzo scorso nel Sachsen-Anhalt l’AfD aveva incassato oltre il 24 per cento dei consensi. A poco più di tre anni dall’esordio sulla scena politica i populisti di Frauke Petry sono ormai presenti come forza d’opposizione nei parlamenti di nove dei sedici Länder tedeschi – e con percentuali di tutto rispetto.
A rendere spettacolare la performance elettorale di una settimana fa, però, è il tonfo della CDU di Angela Merkel, perlomeno sotto due aspetti. Innanzitutto, è un dato di fatto che il partito della cancelliera debba ormai fare i conti con la concorrenza alla propria destra di una formazione più che agguerrita. Il monopolio della Merkel, durato un decennio, è finito. Anche se disarticolato, il fronte della protesta alla große Koalition – al duopolio CDU-SPD – è cresciuto nel paese. Buona parte del successo di domenica scorsa l’AfD lo deve proprio alla contestazione nei confronti della cancelliera e, in particolare, delle sue politiche sull’immigrazione. In secondo luogo, i test elettorali da un anno a questa parte dimostrano che la Germania è attraversata da molte più tensioni di quanto si sia disposti a immaginare. Non solo dal punto di vista politico, ma anche nell’assetto sociale, il paese vive paure e inquietudini in contrasto con l’immagine di solidità che il governo di Angela Merkel si è guadagnato all’estero nell’arco di un decennio.
A dispetto della sua potenza economica e del gigantesco surplus nelle esportazioni, la Germania è in fermento. Il caso di Pegida, il movimento di piazza contro la presunta islamizzazione dell’occidente, nato a Dresda nell’ottobre 2014, dimostra che gli umori sono cambiati. I piccoli ceti medi si sentono abbandonati dall’establishment della politica. Anche loro sono disposti a scendere in strada. Gli effetti non tardano a farsi sentire. L’AfD, di cui molto si parla in questi giorni, è stata l’unica forza politica ad aver sostenuto il movimento di Pegida e a impadronirsi dei suoi modelli argomentativi contro l’immigrazione. I populisti di Frauke Petry hanno infranto anche le soglie del politicamente corretto e cambiato il linguaggio della politica.
Come spesso accade quando sulla scena irrompono movimenti nuovi, trasversali, dalle caratteristiche forse indistinte e generiche, si è instaurato anche nei confronti della AfD un clima di sottovalutazione. L’establishment e i mezzi di informazione, sulle prime, hanno incasellato questo partito nelle categorie del populismo demagogico. In realtà, il fenomeno è più complesso. L’AfD non è una riedizione politica delle formazioni neonaziste minoritarie che in Germania vivacchiano senza avere mai la forza di entrare in parlamento. Il suo gruppo dirigente è in buona parte estraneo alla militanza nei partitini della galassia neonazista tradizionale, anche quando gli stili lessicali e le argomentazioni ricordano da vicino l’universo dell’estrema destra. Anche nel programma l’AfD risulta di difficile collocazione.
Nelle sue parole d’ordine convivono temi sociali e liberismo, l’invocazione di misure di sostegno per i cittadini (tedeschi) e l’avversione per i sussidi statali, considerati come un costo sulle spalle dei contribuenti (sempre tedeschi) e a vantaggio di immigrati attratti dalla Germania. Ma, soprattutto, l’AfD nasce come forza euro-scettica. Anche se la proposta delle origini di tornare al marco è stata nel frattempo messa da parte, la propensione anti-europea dell’AfD rimane marcata. L’opposizione intransigente all’apertura delle frontiere non è solo un grimaldello utilizzato per mandare a casa la cancelliera, ma anche l’argomento principale della critica all’Unione europea. Paradossalmente anche per l’AfD vale lo stesso orientamento ideologico di altre forze politiche di altri paesi, insofferenti verso il predominio politico-economico della Germania in Europa. Anche per questo partito, non meno che per gli altri “populismi“, l’Europa è intesa come un costo, una costruzione contraria agli interessi nazionali: nella fattispecie, un onere imposto dal governo Merkel ai propri cittadini, sulle cui tasche graverebbe il debito pubblico dei paesi del sud.
Anche l’accoglienza degli immigrati è annoverata tra gli obblighi imposti dall’UE alla Germania. La paventata perdita di identità dei tedeschi rappresenta il registro fondamentale della comunicazione dell’AfD, ma anche e soprattutto un riflesso di paure e insicurezza largamente presenti in quei ceti medi intercettati da questo partito. Anche se, per il momento, è destinata a un ruolo di opposizione, non abbastanza forte da cambiare l’atteggiamento della Germania in Europa, ce n’è abbastanza perché l’AfD possa scardinare le geografie politiche del paese.
Ma la principale novità è che il fenomeno politico dell’AfD allinea la Germania agli altri paesi europei. Non solo perché anche il sistema politico tedesco comincia ad avere i primi sintomi vistosi di instabilità, non solo perché anche in Germania l’establishment politico inizia a essere messo in discussione, ma soprattutto perché anche il paese della Merkel è investito dal fenomeno politico del “populismo”. Come gli altri paesi europei, anche la Germania è costretta ad assistere all’ascesa di una forza politica di protesta, in aperto antagonismo con le élite di governo e con l’Europa. Dentro la variegata galassia che per comodità viene definita “populismo“ si agitano partiti e movimenti diversi, variamente collocati, eppure accomunati dalla capacità di attrarre consensi trasversali: in Francia Marine Le Pen, in Spagna Podemos, in Italia il Movimento 5 Stelle, la stessa SYRIZA in Grecia, solo per citare alcuni esempi. Dobbiamo abituarci al fatto che la protesta prende oggi strade diverse che in passato e assume forme politiche spurie, ibride. Leggermente in ritardo, ora anche la Germania comincia a interrogarsi su un fenomeno – il “populismo per l’appunto – che riteneva di aver immunizzato dai propri confini.
Per la prima volta nel dopoguerra i tedeschi devono confrontarsi con una forza anti-sistema che ha infranto i tabù del passato e del politicamente corretto, in grado di sdoganare la xenofobia nella comunicazione politica, che riscopre la legittimità dell’identità nazionale a essere rappresentata nel dibattito pubblico, che accusa le élite di tradimento degli interessi del paese, che rivendica – infine – il diritto dei tedeschi ad avere più peso nella politica nazionale. Eppure un erede della tradizione della socialdemocrazia tedesca come Oskar Lafontaine – attualmente esponente della Linke – ha ammonito, pochi giorni fa, a non incasellare la vicenda dell’AfD nella categoria del populismo di destra. Il successo elettorale di questa formazione sarebbe piuttosto da attribuirsi a una felice miscela di temi di destra e di sinistra, di sentimenti xenofobi e rivendicazioni sociali, di spaesamento e insoddisfazione per le politiche del governo Merkel, presenti tanto nelle classi popolari, quanto nei piccoli ceti medi.
L’elemento principale, però, che consente al discorso “populista“ di funzionare e attrarre consensi, è l’inserimento di tutti questi motivi in una cornice unica: la frattura antagonistica tra alto e basso, tra élite e popolo. Sempre più la politica dovrà fare i conti con queste creature ibride “prenditutto”, forse non del tutto coerenti sul piano programmatico, ma capaci di pescare consensi a destra e sinistra, e di creare dal nulla nuove identità collettive.

Fonte: Eunews Oneuro 

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