La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 22 ottobre 2016

Europa: l'inverno sta arrivando

di I Diavoli
Un cono di luce si accende sull’Europa. È l’anno 2016, l’inverno è iniziato già da un pezzo, anche se il calendario segna un’altra stagione. In fondo al palco del Vecchio continente è schierata la Storia recente, pronta a ballare sulle note di quello che potrebbe essere l’ultimo giro di basso prima della rassegnazione. La radio suona un solo motivo, chiamato “elezioni”, al cospetto di un’Europa affaticata dalla crisi, vessata dall’austerity, minata dai populismi, impreparata ai flussi migratori, spaventata dal terrorismo, divisa dalla politica. È l’Europa che va a votare, Paese dopo Paese, nel lungo inverno che unisce il 2016 al 2017. È l’Europa che si presenta al suo anno zero.
Il referendum del 23 giugno 2016 che ha decretato la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, è stato solo l’ultimo detonatore. Ha reso manifeste le istanze populiste, la frustrazione sociale, la retorica anti-immigrazione, così come le ragioni di un esercito di invisibili, abbandonati dalla politica. Il processo è iniziato da tempo e la trasformazione attraverserà il lungo inverno che da marzo 2016 arriva fino a ottobre 2017. Inizia e finisce – forse non a caso – in Germania, “bastone sull’Europa” come dicono al Tredicesimo piano de “i Diavoli”: il 13 marzo di quest’anno con le elezioni regionaliin Baden-Württemberg e in Sassonia-Anhalt, e a settembre-ottobre del prossimo (la data precisa è ancora da stabilire) con le politiche che decideranno il nuovo Bundestag, il parlamento federale, e il nuovo cancelliere (qui il focus sulla lunga rincorsa di Angela Merkel).
Effetto Brexit alle elezioni 2017? Dove e quando si vota
In questa lunga stagione d’incertezza, banco di prova per la tenuta del progetto comunitario, si avviano alle urne – in ordine cronologico – i cittadini di: Austria (presidenziali, 4 dicembre 2016), Olanda (politiche, marzo 2017), Francia (presidenziali, 23 maggio 2017, primo turno), e infine – come menzionato sopra – Germania (politiche, autunno 2017). Sono già andati a votare, oltre ai tedeschi per le regionali di marzo e settembre: 1) gli austriaci, il 22 maggio, per il secondo turno delle presidenziali (voto invalidato per irregolarità); 2) gli spagnoli, il 26 giugno, per sbloccare (senza successo) lo stallo al governo; 3) gli ungheresi, il 2 ottobre, al referendum-flop sulle quote migranti, voluto da Viktor Orbán (qui il ritratto de “i Diavoli”).
Il teatrino delle elezioni in Austria e il rischio di una Öxit
Alla fine gli austriaci andranno a votare il 4 dicembre e forse avranno finalmente un nuovo presidente. Negli ultimi mesi è andata in scena, invece, una sorta di operetta delle schede.
Ecco in che termini. Il 22 maggio succede che i cittadini vanno a votare e decretano la vittoria di Alexander van der Bellen (indipendente sostenuto dai Verdi) su Norbert Hofer, leader della destra populista della Fpö. A luglio la Corte costituzionale di Vienna annulla l’esito elettorale per irregolarità in alcune circoscrizioni, dopo il ricorso degli ultranazionalisti (che avevano vinto al primo turno) per irregolarità nel conteggio dei voti: le schede sarebbero state aperte prima dell’inizio dello scrutinio. Il voto viene rimandato al 2 ottobre, ma a meno di un mese viene di nuovo rinviato per un difetto alla colla delle buste elettorali. Mentre van der Bellen si oppone a ogni razzismo e all’arrocco dell’Austria sulla questione migranti, il candidato Fpö fomenta la retorica di un’identità austriaca-mitteleuropea da preservare contro una presunta invasione, difende la costruzione della barriera costruita al Brennero(ancora non in funzione) e paventa l’ipotesi di un’uscita Öxit dall’Ue. Hofer, che vuole la riforma del voto per posta, punta su un’alleanza con i popolari della Övp per cercare di apparire meno estremista e guadagnare consensi anche al centro. Emblematiche le parole del cancelliere austriaco Christian Kern in una recente intervista alla “Bild” tedesca, che costituiscono un appello ai tecnocrati di Bruxelles: «Abbracciare la tattica dei populisti sarebbe la risposta sbagliata, se come democratici non siamo capaci di elaborare un credibile contro-modello, allora abbiamo perso. L’Ue e i suoi Stati membri devono concepire una nuova agenda sociale dobbiamo contrastare con standard sociali comuni il crescente potere dei grandi gruppi industriali e dare alla gente la sensazione di essere lasciata indietro».
Wilders-show in Olanda: euroscettico, anti-islam, pro-referendum
L’appuntamento è fissato per il 15 marzo 2017, gli olandesi dovranno scegliere i prossimi 150 rappresentanti del Parlamento (la cosiddetta «seconda Camera»). È il “partito della libertà”, PVV, guidato da Geert Wilders, il più popolare dei Paesi Bassi: alleato del Front National di Marine Le Pen in Francia, euroscettico, pronto a un referendum per chiedere agli olandesi il divorzio da Bruxelles e deciso a vietare le moschee. Nel suo manifesto di undici punti, pubblicato ad agosto su Facebook, il leader dell’ultradestra snocciola il piano che potrebbe rivoluzionare la liberale terra dei tulipani. Inaugura così la campagna per le politiche del 2017, la sua priorità è la de-islamizzazione: niente moschee, scuole coraniche chiuse, bandito il Corano, vietato il velo integrale in pubblico, chiusi i centri di accoglienza profughi e sigillati i confini. Lo slogan di Wilders somiglia molto a quelli del «volto borghese» della destra populista tedesca, Frauke Petry, di Hofer in Austria, di Orbán in Ungheria, e ancora di Jaroslaw Kaczynski del PiS polacco, esempio perfetto di“democratura” europea: «L’Olanda torni a essere nostra». Il terreno comune è quello dove il nazionalismo si mescola alla xenofobia, all’urgenza di riappropriazione della sovranità nazionale, dove la paura dell’altro si confonde con la creazione sistematica di un nemico percepito, o meglio, con la cristallizzazione di un’identità monolitica e quasi fittizia, cioè impermeabile alle contaminazioni. È lo stesso piano dove l’equazione migranti-terrorismo è tanto facile quanto nefasta rispetto al futuro.
La Francia di Marine Le Pen promette di ritrovare la grandeur perduta
Brachay è un paesino della Marna francese. Lì il 4 settembre, Marine Le Pen, leader del Front National fa il grande ingresso nella campagna elettorale 2017. Dalla provincia profonda riparte alla conquista dell’Eliseo, verso le presidenziali del 23 aprile. Dice di parlare alla «Francia dei dimenticati», al «Paese che soffre», a coloro che cercano la grandeur perduta. Il copione sembra sempre lo stesso: euroscetticismo, retorica incendiaria contro l’immigrazione, protesta anti-Islam, ipotesi Frexit: «Se sarò eletta organizzeremo un referendum per uscire dall’Ue». Aggiunge: «La miglior risposta contro il terrorismo è la scheda nell’urna». Anzi, Le Pen è fiera di aver fatto da apripista: «Siamo stati i primi a infrangere la barriera del politicamente corretto». Lo slogan Marine Président rischia di diventare realtà nei prossimi mesi? A sinistra la situazione è ingarbugliata. Il presidente François Hollande, che sconta le sue difficoltà davanti al dilemma democrazia-sicurezza, davanti al terrorismo e agli attacchi (da “Charlie Hebdoa Nizza) che hanno provato la Francia, non sarà il candidato automaticamente nominato della gauche socialista. Le primarie sono fissate per fine gennaio 2017 (22 e 29), così come accadrà nella destra repubblicana il 20 novembre. Tra i candidati, a sinistra spiccano l’anti-Hollande ed ex ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg, e Benoît Hamon, già ministro dell’Istruzione; a destra, i candidati sono vari ma si profila uno scontro tra Nicolas Sarkozy e Alain Juppé, rispettivamente ex presidente ed ex premier.
L’insicurezza di Berlino tra le politiche di accoglienza e le spinte populiste
Qualche mese fa dalle colonne di “Handelsblatt”, Sven Afhueppe, scriveva che le elezioni del 2017 potrebbe essere non solo un test per la Germania, ma anche un vero e proprio referendum per la tenuta dell’Ue: «L’Europa è bloccata in una grande crisi di identità». Secondo Afhueppe, il punto non è valutare se il progetto europeo sia già collassato o meno, perché l’urgenza è molto più profonda. La Brexit ha fatto da detonatore a «turbolenze, insicurezze, scetticismo» che hanno oltrepassato da tempo i confini britannici. «La politica del facciamo “business come sempre” in Europa non è un’opzione, e questo vale in particolare per la cancelliera Angela Merkel. Ha sottovalutato sistematicamente l’ascesa della destra populista dell’AfD».
Il direttore di “Die Tageszeitung”, Georg Löwisch, commentando l’avanzata dell’AfD, a marzo aveva sentenziato che «i vincitori delle elezioni» erano «la paura, l’esclusione, l’autoritarismo. La ragione è che molti leader politici hanno perso fiducia in se stessi e nei loro programmi. Non si fidano della base del loro partito, non si fidano dei loro sostenitori, non si fidano del popolo. In fondo, non si fidano della Germania».
La data delle elezioni non è ancora stata stabilita, ma di certo si dovranno tenere tra il 27 agosto e il 22 ottobre 2017. Se dovesse scendere in campo di nuovo, sarà un ennesimo esame per Merkel e le sue politiche di accoglienza, per misurare la tenuta dello slogan «Wir schaffen das» («Ce la faremo»). A un anno di distanza, il 5 settembre 2016, dal Meclemburgo-Pomerania arrivava la bocciatura, proprio nel Länd dove la Angela nazionale ha il suo collegio per il Bundestag, proprio lì dove di migranti ne sono arrivati appena 23 mila (tutti i dati qui). Tra quelle strade, la retorica anti-Islam dei populisti di destra dell’AfD, Alternativa per la Germania, ha raccolto consensi, trascinata dall’ossessione che la «Germania resti ai tedeschi» contro «l’invasione islamica». In quel caso hanno votato circa 800 mila persone, su una popolazione di 1,6 milioni nel Länd, rispetto agli 80 milioni totali. Numeri piccoli, dunque, ma dall’alto valore simbolico, visto che la popolarità di Merkel è scesa dal 67% al 45% in un anno e – come avevamo già scritto – l’intenzione dell’ala (destra) bavarese del partito della cancelliera è quella di proporre una selezione degli immigrati in base alla religione.
La crisi dei partiti tradizionali, la sinistra che scompare e il rebus Spagna
In Europa, sono i partiti tradizionali a essere in crisi. Alle urne dobbiamo aspettarci un massacro a sinistra? Di sicuro un drenaggio dei voti su tutti i fronti. L’ha subito la Spd, che governa dal 2006 insieme alla Cdu (30,2% contro il 35,6% nel 2011) in Germania, ma anche il Psoe spagnolo.Dopo dieci mesi di stallo politico, entro domenica 23 gli spagnoli sapranno se finalmente avranno un nuovo governo o se dovranno andare a votare il giorno di Natale (per la terza volta in un anno).
I socialisti, al consiglio federale convocato proprio tra pochi giorni, decideranno se accendere la luce verde a un governo di minoranza del premier uscente del Partido Popular, Mariano Rajoy (qui lo speciale de “i Diavoli sul “fracaso” socialista e sulla cacciata del segretario Pedro Sánchez). I cosiddetti “baroni” del partito, guidati dalla presidente dell’Andalusia Susana Diaz, vorrebbero astenersi dal voto per dare così il via libera a un governo di minoranza. Se prevalesse questa linea, entro il 31 ottobre la Spagna avrebbe finalmente un governo e le elezioni di Natale sarebbero evitate.
L’Europa al bivio
L’Unione del dopo-Brexit è un ossimoro già nei termini: è frammentata, divisa. Prova da mesi il reset oltre il Leave, tenta con scarsi risultati di arginare i populismi, tenendo a bada le richieste securitarie e la paura del terrorismo che si mescolano alle diseguaglianze frutto di anni di austerity. Negli ultimi mesi, la risposta dei tecnocrati alle sfide interne ed esterne sembra essere univoca. Le parole d’ordine sono: difesa, protezione, preservazione, controllo, forza. La fortezza controlla gli ingressi, protegge la sua identità, «i suoi valori» dai «nemici», sigilla i confini: l’Europa si arrocca e si avvita su se stessa.
Mentre i giovani frustrati dalla precarizzazione del lavoro lamentano un vuoto di prospettive, la disuguaglianza sociale trova terreno fertile nella securizzazione del territorio. La questione migratoria non è altro che il collettore di tutte queste frustrazioni, dove vengono canalizzate le contraddizioni di un’Europa che è sempre più lontana dal progetto di Altiero Spinelli e dal manifesto di Ventotene.

Fonte: I Diavoli 

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