La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 7 ottobre 2016

Siria: rivoluzione teocratica o confederale?

di Davide Grasso, combattente italiano delle Ypg, Unità di protezione popolare
Quando Mohamed Bouhazizi si è dato fuoco, il 17 dicembre 2010, pochi di noi si sarebbero aspettati che cosa e quanto sarebbe successo. Il Nord Africa e l’Asia sud-occidentale erano pentole a pressione in attesa di esplodere e, ora rapidamente, ora lentamente, di manifestare contraddizioni profonde e nuovi itinerari verso il futuro. Pochi, tra noi, si rendevano conto di quanto fossimo impreparati a qualcosa del genere; anzitutto a sviluppare un’analisi concreta di ciò che stava accadendo oltre il Mediterraneo.
Un amico mi disse: «Queste ‘primavere’ hanno spazzato via i salafiti dalla storia di quei paesi: hanno smentito che quella fosse la tendenza egemone nella gioventù». Gli eventi successivi, fino a quelli presenti, dimostrano quanto questa impressione fosse incompleta e unilaterale. Stavamo proiettando sugli eventi le nostre aspettative. Non guardavamo i fatti nella loro complessità, per quello che erano, sia pur nella loro ambivalenza; li osservavamo per ciò che avremmo voluto che fossero.
TV e giornali, con analogo (ma più interessato) strabismo, parlarono di «rivolte del pane» o «movimenti per la democrazia» (intendendo, con questo, una maggiore influenza politico-economica dell’occidente). In realtà, con il 2011 è entrata nel vivo una seconda decolonizzazione, attraverso la quale le popolazioni dell’Asia sud-occidentale e del nord Africa cercano, secondo nuove forme e in un nuovo secolo, di recuperare autonomia scontrandosi con istituzioni che percepiscono come eteronome; ma questa seconda lotta per l’indipendenza, a oltre mezzo secolo dalla rivoluzione algerina, ha nell’elemento reazionario del recupero della fede, sia pure in forme differenziate, un elemento centrale.
Condensazione drammatica di tutte le contraddizioni delle ‘primavere arabe’, la Siria è diventata, in particolare, luogo di precipitazione tanto dei limiti ideologici di questa tendenza quanto della cattiva coscienza delle narrazioni occidentali, che mai come in rapporto a questo conflitto hanno sapientemente orientato e censurato il sapere e l’informazione.
La rivoluzione siriana, come già quella egiziana, ha segnato anche la sconfitta temporanea dell’intellettualità europea più o meno «militante», incapace di offrire una cornice interpretativa a questi eventi, ponendo in rapporto dinamico le costellazioni critiche con ciò che qui accade. Se rispetto alla Siria non si riesce a mettere a tema il rapporto tra rivoluzione, guerra globale e guerra civile, con l’Egitto si è continuato a coltivare il mito delle adunate di piazza anche nella fase in cui era evidente che la parola era passata alle armi, e il popolo era disarmato. Sembra che i conflitti che hanno luogo nel mondo siano interessanti, per un certo ceto intellettuale europeo, soltanto se sono riconducibili all’immagine romantica delle barricate, a una «libertà che guida il popolo» in fondo rassicurante, perché suggerisce l’immediata corrispondenza tra pratiche del rifiuto e costruzione rivoluzionaria.
Il popolo, invece, è «guidato dalla libertà» soltanto nei dipinti. Analogamente alle classi, è ciò che è, o piuttosto ciò che accade: un magma profondamente differenziato, attraversato da tensioni contrastanti e, soprattutto, da storie individuali irriducibili, tensioni e desideri che non è possibile, in prima battuta, ridurre a un programma o a una prospettiva politica definita, e tanto meno a linee di frattura «religiose» o «etniche».
Ho combattuto a fianco di arabi che vestono con orgoglio l’uniforme delle Ypg, e ho litigato con curdi che fanno propria una visione retriva, bigotta e tradizionalista, ostile alla rivoluzione del Rojava. Tra i sostenitori del regime di Damasco c’è tanto chi è terrorizzato dalla possibile perdita di privilegi quanto chi, semplicemente, rimpiange il quieto vivere che fino al 2010 era concesso a chi si sottometteva al presidente. Ci sono persone che combattono lo stato islamico perché lo «stato islamico» che hanno di fronte è troppo diverso da quello che hanno in mente. Vista da vicino, la rivoluzione è molto più concreta. Ciò che occorre tenere a mente è che essa non può sfuggire alla nostra azione, perché essa è la nostra azione.
La contemplazione scientista è per questo fuori luogo. Sostituire la presa di responsabilità con l’autoerotismo geopolitico, arrivando a fare il tifo, anziché per i movimenti e per i bisogni che essi esprimono, per questo o quello stato – la Siria, la Russia o gli Stati Uniti – significa mostrare sconfinato disprezzo per la popolazione siriana e per tutto il medio oriente.Analogamente, girarsi dall’altra parte con la scusa che la situazione è troppo ingarbugliata o, peggio, che gli attori sono troppo reali per apparire gradevoli o «presentabili», è inaccettabile. Il «popolo» può essere un’entità sfuggente come categoria politica, ma sulla terra le persone hanno due gambe e due braccia. Dobbiamo – sottolineo dobbiamo - considerare i siriani nostri amici. Abbiamo una responsabilità nei loro confronti altrettanto importante di quella che abbiamo verso gli iracheni, gli egiziani, i palestinesi o i tunisini. Eppure la popolazione siriana è oggi la grande assente non soltanto dalle ipocrite discussioni di Ginevra o New York, ma anche dalle speculazioni inconcludenti che spesso hanno luogo tra chi vorrebbe essere diverso da chi siede in quel genere di consessi.
Il giudizio storico definitivo sul «regime siriano» è stato pronunciato dagli eventi accaduti a partire dal 2011. La questione è chiusa. La rivoluzione e il futuro sono l’unica via. Al tempo stesso, occorre tenere presente che i governi «amici» della rivoluzione sono stati e sono i suoi peggiori nemici. Tutti, qui, raccontano come il cambiamento dalle origini della sollevazione al momento dell’ingresso delle armi e dei militanti introdotti dalla Turchia sia stato totale; e non perché armi e militanti stranieri non servano a una rivoluzione, ma perché quelli erano «amici» che avevano un prezzo, ossia la sottomissione non soltanto a interessi stranieri, ma a una prospettiva politica imposta, uguale per tutti. Turchia e Arabia Saudita hanno trovato un terreno in parte maturo per questa operazione, ma anche un regime pronto al più oscuro dei compromessi. Bashar al-Assad era interessato a rendere impresentabile il proprio nemico, in una sorta di assenso reciproco su quali erano le carte con cui si doveva giocare. E’ la rivoluzione teocratica promossa dall’asse turco-saudita e, indirettamente, anche dal regime con le sospette «amnistie» del 2011, che Stati Uniti e UE hanno appoggiato e, sia pure con sempre maggiori difficoltà, continuano ad appoggiare.
Le vittorie delle Forze Siriane Democratiche e delle Ypg-Ypj tra il 2015 e il 2016 hanno imposto il protagonismo di un attore nuovo, di un’idea diversa di «seconda decolonizzazione» e di una diversa critica al sistema Sykes-Picot. E’ la rivoluzione che giunge da nord, che intende anche restituire alla rivoluzione originaria i suoi diritti. Se l’idea che lo smottamento storico seguito al 2011 fosse ispirato da prospettive essenzialmente «secolari» era scorretta, l’idea oggi diffusa che dal Marocco al Pakistan tutto ciò che si muove è «tradizione» o semplicemente «Islam» è altrettanto falsa. Proviamo a pensare l’oriente con lo stesso rispetto con cui siamo abituati a pensare l’occidente: come complessità. Con questo non mi riferisco alle tanto evidenziate fratture linguistiche e religiose, pur importanti: mi riferisco a faglie e lacerazioni che attraversano ogni singola comunità, ogni nucleo familiare e lo stesso individuo, che qui – come altrove – è pur sempre ciò che diviene.
In molti, in Siria, si rifiutano di identificare il bisogno di liberazione dal regime militare con una politica fondata sul riferimento coranico. Furono anche loro tra le migliaia di persone che scesero in piazza nel 2011, ma la rivoluzione islamica li ha messi a tacere nell’ovest del paese e lungo il corso dell’Eufrate. Agire all’interno di una rivoluzione, tuttavia, non significa ragionare in termini astratti, da exit-poll. Significa restituire forza a coloro che non ne hanno e, se l’avessero, potrebbero mutare le sorti degli eventi politici. Questo è ciò che sta facendo la rivoluzione confederale. Essa può sconfiggere tanto lo stato islamico quanto affrontare le prepotenze salafite nella regione, e può indicare un orizzonte di pace e trasformazione per lo scenario siriano. La rivoluzione confederale contiene la fondamentale rivoluzione curda, ma contiene anche il riscatto delle forze arabe e assire interessate a un processo nuovo, e offre possibilità di partecipazione politica dal basso a tutti i siriani che si sentono oppressi o traditi tanto dal regime quanto dalla rivoluzione islamica.
Il più grande elemento di forza della rivoluzione confederale è l’impatto sociale. Ovunque le forze confederali preparino una battaglia, costituiscono in anticipo i consigli locali e le istituzioni popolari, clandestine o in esilio, in grado di far succedere immediatamente, alla conquista da parte delle armi, il processo rivoluzionario reale. L’esautorazione delle corti dellasharia o delle istituzioni del regime è immediatamente seguita dall’attivazione di comuni, congressi popolari e congressi delle donne che avviino il cambiamento concreto della realtà, che è quello che la gente vuole, ogni volta differenziando e accompagnando i cambiamenti in relazione alle caratteristiche sociali e alle volontà espresse nel luogo. Le forze del Tev Dem (Movimento per la Società Democratica) e delle Ypg-Ypj sono per questo le uniche in Siria in grado di possedere un programma autonomo, e di scontrarsi, se necessario, con chiunque tenti di fermare questa concreta trasformazione.
Per questa ragione è ridicola l’accusa di chi presenta le Sdf come una forza al servizio di «mire straniere». Le Sdf e il Congresso Siriano Democratico sono, al contrario, le uniche realtà siriane al riparo da questo rischio, contrariamente alla rivoluzione islamica e al regime, giacché possiedono l’energia soggettiva e la consapevolezza militante per combattere unaguerra civile globale senza perdere il proprio orizzonte politico originario. Questo sebbene, come tutte le forze impegnate nella guerra, fronteggino armamenti, aviazioni e tecnologie straniere, e non possano quindi permettersi di rifiutare il supporto aereo fornito dagli Stati Uniti (limitatamente alle operazioni condotte contro l’Is) e il sostegno diplomatico talora offerto della Russia.
La presenza di potenze globali e regionali nel contesto siriano è di per sé un problema. Ciononostante, non sono le forze confederali ad averne implorato l’intervento, ma il regime, da un lato, e le forze islamiche (dette impropriamente dai media occidentali «opposizione siriana»), dall’altro. E’ peculiare, ora, affermare che le uniche forze autenticamente rivoluzionarie, nel contesto globale che si è determinato, dovrebbero lasciarsi massacrare per compiacere chi, in occidente, non è stato ancora una volta in grado di bloccare l’intervento dei suoi eserciti e dei suoi stati.
Il modo con cui questi elementi vengono ritorti contro il movimento confederale, che è il menoarmato e il meno supportato dagli attori esterni del conflitto globale siriano (sebbene oggi certa propaganda induca alcuni a ritenere il contrario), è perciò del tutto strumentale. Occorre prendere atto che l’elemento qualificante di ciò che accade nella Siria del Nord non è la guerra, sia pur onnipresente, ma la rivoluzione. Essa è portata avanti da migliaia di militanti, ogni giorno, in decine di sfere economiche e sociali. La caricatura di questa esperienza come «esercito statunitense di riserva» è espressione di ignoranza della situazione sul campo travestita da navigato realismo, se non, spesso, di semplice malafede. Che spesso sia quest’ultimo il caso, è dimostrato dal fatto che tale caricatura è promossa anzitutto da chi – il regime e la rivoluzione islamica – sta distruggendo la Siria, e in particolare Aleppo, grazie all’aviazione russa o, sul versante opposto, alle armi pesanti fornite da Stati Uniti, Qatar, Arabia Saudita e Turchia.
Quale genere di benessere porteranno questi speculari «sostegni imperialisti» alla popolazione della Siria e di Aleppo, e perché essi siano giustificabili, contrariamente alla parziale copertura aerea fornita dalla coalizione alle Sdf contro l’Is, è ancora da scoprire. A quasi sei anni dalla morte di Mohamed Bouhazizi, i limiti di analisi della sinistra occidentale non vengono ancora criticamente affrontati. Ciò è grave, poiché si legano all’incapacità di quella stessa sinistra di pensare la contemporaneità e il politico, condannandosi a un’inazione e a un’impotenza che sono sotto gli occhi di tutti. Quando la sinistra europea riuscirà a produrre un centesimo dei cambiamenti sociali prodotti in Rojava, comprenderà che la rivoluzione non è un gioco. Oggi ci si immagina un mondo privo di contraddizioni, dove i movimenti procedono, senza inciampare, sulla via pura e rarefatta della metafisica «rivoluzionaria»; e poi, quando si volge lo sguardo alla realtà acerba del conflitto altamente spettacolare e tecnologico che frastaglia l’odierno capitale globale, e all’oceano lacerato della working class mondiale, si criticano gli sforzi dei compagni con ridicole pose radicalistiche, o ci si rifugia nella mistificazione mitizzata di questa o quella trasfigurazione statuale del capitale contemporaneo.
Il movimento confederale è l’unico attore siriano a sposare una logica effettivamente militante, scevra da qualsiasi considerazione che non si origini, nella tattica e nella strategia, da ciò che la sua elaborazione teorica comprende come interesse dei lavoratori e del popolo. Per questo io mi spingo a dire che si tratta dell’unico movimento concretamente rivoluzionario esistente in Siria. Esso non promuove una suddivisione territoriale di questo paese (altra accusa strumentale) ma la creazione di una Siria rispettosa delle differenze, fondata sulla collaborazione politica ed economica tra le persone, per una graduale messa in comune delle forme di produzione e riproduzione della vita. Suo obiettivo è mettere ancora una volta in discussione la civiltà capitalistica. E’ un nuovo esperimento di potere popolare e attacco a privilegi e gerarchie consolidate su diversi livelli. E’ minacciato dai problemi di ogni rivoluzione.
Un simile esperimento merita tutto il nostro appoggio. 

Fonte: Nena News 

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