La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 7 ottobre 2016

Un No costituente per il diritto alla città e per il "comune"


di Costanzo Di Gioia 
Quando sentiamo parlare di autonomia locale l’immagine che, istantaneamente, salta alla mente è quella di una architettura istituzionale, più o meno proporzionata, tutto sommato funzionante, che i costituenti ci hanno lasciato in eredità allorché introdussero le “Regioni” quali enti intermedi fra lo Stato-Nazione ed il Comune, in esito ad un’opera di bilanciamento di interessi territoriali ed ideologici, e non senza porre “adeguati” argini alle più radicali istanze regionaliste che venivanoper lo più dai movimenti separatisti siciliani.Ebbero, pertanto, a puntualizzare che le autonomie locali sono “riconosciute e tutelate” dall’ordinamento [Costituzione, art. 5].
Uno dei più importanti costituzionalisti del Novecento, Costatino Mortati, calabrese e di estrazione cristiano-democratica,affermava: «Comuni, Province e Regioni sono da considerare quali parti preminenti nel sistema dellecontroforze sociali che circoscrivono il potere dello Stato togliendogli quell’onnipotenza che potrebbe portarlo ad opprimere la libertà dei cittadini.».Considero importante ricordarele parole di Mortati giacchépenso che sia quanto mai attuale, per quel che qui ci occupa, quella visione delle autonomie per cui impiegava il termine «contropotere».
E, allora, qual è il senso [giuridico, oltre che politico] del progetto di riforma Boschi- Renzi se le autonomie che ne costituiscono il presupposto risultano notevolmente indebolite?
Invero, se guardiamo ai progetti del ’48, del ’71 e del ’01, possiamo dire che col riordino Renzi-Boschi del Titolo V si è realizzata una sorta di nemesi storica, quella “giusta vendetta” dello Stato e dell’ideologia sovranista neo-liberale nei confronti del dinamismo sociale e culturale dei movimenti urbani e neo-municipalisti che, nell’agire il tessuto comune della città contemporanea, immaginavano l’inversione dell’ordine simbolico del tradizionale rapporto centro-periferia.
Mi riferisco alle pratiche di costruzione sociale della città, quel reticolo di processi di auto-organizzazione della vita e di strategie di sopravvivenza in continuo adeguamento, di moderni legami sociali e nodi di solidarietà,di spazi di democrazia partecipativa, che disegnano comunità in divenire dentro e control’azione di riassorbimento e disciplinamentodei corpi operata dalla governance neo-liberale, intesa come quell’insieme di tecniche e dispositivi messi in campo per “gestire i mutamenti e i conflitti in atto attraverso percorsi di mediazione tra interessi che, nei fatti, depotenziano la sfera della politica a favore di una policy articolata prevalentemente come problem-solving, regolazione e negoziazione” [Alessandro Arienzo, La governance e il conflitto politico. Quali dispositivi per una democrazia in crisi?].
Gioco-forza, dentro la crisi attuale della democrazia,la partecipazione popolare diretta, la diffusione di pratiche di consultazione sociale a livello locale, le istanze di riconoscimento delle stesse quali prassi consensuali e costituenti bramose di decidere le sorti della città, e qualunque altra istanza civica che auspichi decentramento amministrativo ed auto-governo del territorio, devono essere svuotate di qualsivogliaambizione di progettualità politicadi classe e della loro specifica alterità autonoma,ed“accompagnate”nell’alveo dei tradizionali istituti giuridici della democrazia rappresentativa volti a razionalizzare l’azione del potere centralee facilitarne la ponderazione di meri interessi economicidentro la tipica cornice statuale di programmazione euro-regionale per sviluppo, dietro la direzione di un management locale selezionato dall’alto [altro non sono, infatti, l’istituto del commissariamento ed i Commissari ad acta di volta in volta designati dal Governo centrale].
Il progetto di riforma Boschi – Renzi, ed in particolare la modifica del Titolo V della Costituzione e l’introduzione del Senato delle autonomie, va esattamente in questa direzione, anche se, a sentire gli stessi fautori e sostenitori, punterebbe principalmente ad innovare gli aspetti sovente segnalati come superati e confusi, nonché, secondo i più arditi commentatori, ad attenuare il tasso di conflittualità istituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale,con benefici anche per il bilancio dello Stato.Lo stesso Senato delle Autonomie, con funzioni di indirizzo, esprime proprio la crisi dell’ente territoriale.
Al contrario,mi sembra che la riforma peggiori notevolmente la situazione dell’ordinamento delle autonomie locali e ciò perché il testo proposto dal Governo riporta allo Stato non solo le funzioni fondamentali, ma praticamente l’intero ordinamento, configurando il potere legislativo regionale al livello più basso mai raggiunto fin ora [per un’analisi critica del testo si rinvia a: Resoconto stenografico – 1maCommissione permanente – Affari costituzionali, affari della Presidenza del Consiglio e dell’interno, ordinamento generale dello Stato e della Pubblica amministrazione – 151° seduta, martedì 13 maggio 2014].
La nuova legge, cristallizzando una prassi diffusa da anni per mezzo della decretazione d’urgenza, non soltantorimuove molte funzioni che le Regioni avevano acquisito con la modifica precedente del 2001, abrogandole competenze concorrenti in modo da non poter dare occasione alle istituzioni locali ed alle comunità che abitano il territorio di rivendicare i propri interessi territoriali differenziali, ma istituisce una vera e propria clausola di supremazia della legge statale su quella regionale basata sul limite dell’“interesse nazionale” che, espunto dal testo di riforma licenziato nel 2001, riemerge con tutta la sua forza evocativa (e non solo!) in molteplici disposizioni, elevando a principio costituzionale la teoria dell’assunzione in sussidiarietà di cui ne è espressione.
Così, soprattutto guardando all’avocazione [rectius: espropriazione] di competenze cometrasporti e viabilità, programmazione energetica, infrastrutture strategiche, governo e pianificazione del territorio, espressioni proprie della produzione normativa locale, unitamente ai ripetuti interventi di semplificazione autoritaria [top down]degli strumenti di amministrazione e di partecipazione [v. da ultimo l’ennesima modifica della conferenza di servizi],la nuova disciplina disvela un progetto complessivodi trasformazione dell’architettura istituzionale e, verosimilmente, della stessa forma-Stato,da cui emerge in maniera esplicita una direttrice di accentramento del potere esecutivo che garantisce decisionismonell’interesse del gran capitale finanziario e delle attività predatorie degli immobiliaristi, finanzieri e, in genere, della upperclass.
In questo quadro non sembrerebbe esservi spazio per quella visione delle autonomie per cui s’impiegava il termine «contropotere» nel senso di contrappeso istituzionale e sociale, tanto meno per una “politica urbana”capace di tradurrele istanze dei gruppi sociali subalterni che rivendicano il diritto inalienabile di creare e reinventare una città a misura delle loro esigenze e di stabilire connessioni con le lotte contro lo sfruttamento del lavoro vivo, contro l’appropriazione di plusvalore in ogni “spazio” di vita e contro la rapina delle risorse naturali e deicommons.
Questoprogettodi riassetto dei rapporti Stato – Autonomie a favore del primo, poi, a ben guardare, si sviluppa dentro ad un processo di decentralizzazione ed integrazione sovranazionale. Potrebbe apparire una contraddizione, ma non lo è. Di fatto,se da un lato è indubbia la disarticolazionedel ruolo politico-istituzionale delle autonomie locali, pur formalmente lasciate intatte, dall’altro lato lo Stato centrale cede ulteriori porzioni di sovranitàin risposta alle esigenze dei processi di accumulazione del capitale e, contestualmente,sperimenta tecniche digovernance multilivello che intersecano il piano sovranazionale di organismi come la Commissione europea, la BCE, il FMI e le funzioni di governo del territorio: nella programmazione dei Fondi strutturali e di investimento europei per il 2014-2020 (in particolare il Fondo Europeo di sviluppo regionale), anche la coesione territorialediviene obiettivo della cosiddetta politica per lo sviluppo socio-economico (cfr.: l’art. 174 T.F.U.E.).
Appare chiaro che, lontano dall’essere un semplice progetto di modernizzazione dell’assetto istituzionale, il progetto di modifica della Costituzione deve leggersi nel solco di un complessivo processo di riorganizzazioneneoliberale che punta a scompaginare l’autonomia di indirizzo politico (rectius: di decisione) degli Enti di prossimità, nonché qualunque prospettivadi ri-politicizzazione degli stessi, puntando ad una trasformazione degli stessi in senso funzionalista, accentuandone la dipendenza da autorità sovra-locali [in tal senso sia la Legge Del Rio – n. 56/2014 – tant’è che le Province non sono state soppresse; sia il Decreto Sblocca Italia].
Si tratta, a ben vedere, di un progetto politico che rafforza l’idea del territorio non come spazio politico della comunità ma nella sua dimensione quantitativa amministrativizzata e come mero supporto alle attività economiche dei privati e risorsa da consumare.
Il punto di vista privilegiato per comprendere la portata complessiva delprogettoRenzi-Boschi – e di quello che a buon ragione viene definita “costituzione finanziaria” o “post-nazionale”, espressione di una concezione autoritaria della costituzione [Adalgiso Amendola, Un piano costituente europeo, contro la costituzione finanziaria, in euronomade.org] – è indubbiamente il governo della città, qui inteso come quell’intreccio di relazioni urbane in cui si scontrano la produzione sociale di comune e l‘azione di appropriazione da parte degli interessi privati.
L’opposizione a questo progetto complessivo che, come detto, investe anche la forma – Stato, non può essere un generico anti-renzismo, bensì la lotta per il “commoning” (per i beni comuni), ovverossia un progetto politico di ampio respiro che rimetta al centro la questione di una politica urbana bottom up[cfr.: D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a OccupyWall Street, 2013] e che passa proprio attraverso il potenziamento della dimensione immediatamente politica delle autonomie territoriali che, poi, significa ristabilire il criterio della territorialità per i diritti sociali e politici.
Questo è quanto abbiamo capito dall’esperienza della resistenza No Tav in Val di Susa e che, oggi, si sperimenta a Napoli ed a Bagnoli; questo è quello che hanno sperimentato i movimenti per il diritto all’abitare allorché hanno coniugato il diritto alla casa a quello alla residenza nel territorio che si abita e all’iscrizione anagrafica (con tutto quello che ne consegue in termini di accesso a quel che resta del welfare).
Soltanto assumendo l’autonomia territoriale come “spazio politico” e come «contropotere» e, in esso, articolare i nessi tra i contenuti del referendum e le lotte sociali contro lo sfruttamento del lavoro vivo e contro l’azione predatoria sui commons, è possibile sperimentare una politica urbana in grado di incidere sulla qualità delle relazioni sociali, migliorandole e liberandole dall’ubiquità statuale.
La lotta sul tipo di città che vogliamo non può essere distinta dal dibattito su che tipo di relazioni sociali desideriamo. Il diritto alla città, la lotta per l’autogestione della città e la sua trasformazione è una questione d’azione collettiva che deve necessariamente riaffermare la prospettiva di politicizzazione degli Enti di prossimità ed immaginare per essi nuove istituzioni.
In questa visioneil “refeRenzum” è un limite e, perciò, prima si rompe con l’idea che il referendum sia la grande occasione (politico-mediatico) per cacciare Renzi (anche perché oltre Renzi non c’è il socialismo), prima i movimenti urbani riusciranno a consolidare alcune prassi costituenti che, in nuce, sono contropoteri sociali.

Fonte: Euronomade.info 

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