La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 2 dicembre 2016

La democrazia e l'offensiva dell'oligarchia neoliberista

di Pierre Dardot e Christian Laval 
Fa buio. Nel secolo ancora non è mezzanotte, ma quello da poco nato sembra cominciare sotto cattivi auspici: il nazionalismo esacerbato, la xenofobia rivendicata con orgoglio, il fondamentalismo religioso che dichiara guerra, i cui volti più inquietanti assumono la forma di un desiderio di morte, fenomeni che ricordano gli orrori del secolo trascorso nei loro risvolti più tragici. Nelle diverse varianti del neofascismo contemporaneo, si fanno giorno strane alleanze nelle quali la pressione capitalistica più sfrenata e più criminale si mischia a forme di irredentismo identitario tra le più variegate.
La globalizzazione del neoliberismo, lungi dal partorire un mondo pacificato nel commercio, come pretendeva l’irenico Vangelo dei suoi predicatori, è il terreno fertile di uno scontro sanguinoso tra identità, che fa sembrare il fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del mercato come due versioni complementari della reazione postmoderna.
Ritorno alle origini, ripiegamento sulla comunità di appartenenza, sottomissione assoluta alla trascendenza: la grande regressione che abbiamo davanti è portatrice di nuovi disastri, c’è da starne certi. La paralisi del pensiero di fronte alle forme più mortifere di questa regressione è tale da farci sembrare un’impresa titanica quella di aprire nuovi possibili, come affascinati dallo spettacolo del peggio. Ma non c’è altra scelta. Anzitutto, occorre guardare con lucidità la condizione alla quale siamo ridotti.
Una crisi storica della sinistra
La cosiddetta sinistra di governo ha una responsabilità intera nella radicalizzazione del neoliberismo. Non è, come vorrebbe far credere, la vittima innocente di mercati finanziari cattivi o dell’abominevole dottrina ultraliberista degli anglosassoni. Anziché resistere alla potenza della destra neoliberista, la sinistra ha organizzato il suo stesso naufragio intellettuale e politico.
Quando in Europa è stata maggioritaria, dalla fine degli anni Novanta agli inizi degli anni Duemila, c’è chi ha creduto che l’Europa sociale e politica potesse finalmente avere la meglio su quella delle banche. Grazie al comportamento della maggior parte dei dirigenti socialdemocratici, l’occasione di un riorientamento della politica europea andò completamente sprecata. Con Schröder, la solidarietà europea è finita in trappola e fu data priorità alla competitività della Germania attraverso la compressione dei salari e la flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Per capire questo allineamento, occorre risalire un po’ più lontano nel tempo. Se le politiche di austerità sono riuscite a imporsi così facilmente in Europa, la socialdemocrazia europea ne è la prima responsabile, preferendo allearsi con la destra su questo terreno, anziché fare da contrappeso. È giunta persino a voler dimostrare a quale punto fosse zelante quando si è trattato di scaricare il peso della crisi sulla popolazione aumentando le imposte, riducendo le pensioni, congelando le retribuzioni dei dipendenti pubblici, demolendo lo statuto dei lavoratori.
La sinistra di governo ha così smesso di incarnare una forza di giustizia sociale, il cui obiettivo fosse l’uguaglianza civile, politica ed economica e la cui molla lo scontro di classe. L’estrema destra non ci ha impiegato molto ad andare a caccia sulle terre operaie abbandonate, strumentalizzando la rabbia di una frazione di elettorato popolare e rivolgendola contro gli immigrati e il sistema che si presume li favorisca.
L’imputridimento politico che abbiamo sotto gli occhi è il risultato diretto di questo rovesciamento della socialdemocrazia, ma anche delle sconfitte subite da parte del movimento sociale democratico nella sua opposizione al neoliberismo. Nello scontro con un muro, gran parte delle sue forze ha smobilitato. Una frazione dell’elettorato di sinistra, vinta dal risentimento, è stata catturata da un’estrema destra abile a indossare i panni dell’«antisistema». L’operazione è stata largamente facilitata dall’esplicito allineamento del potere socialista alla logica della competitività e a un securitarismo scatenato.
Questa completa sottomissione, che lo si volesse o meno, ha via via contaminato l’intero spettro della sinistra tanto sembrava compromesso con questa svolta in ognuna delle sue parti. A niente serve il conforto a buon mercato che ricorda lezioni e critiche rivolte dall’interno della sinistra al governo. Perché in questione c’è l’esistenza stessa della sinistra, dell’intera sinistra, al punto che la sua imminente scomparsa non è affatto improbabile. L’indigenza teorica, la pigrizia intellettuale, i discorsi stereotipati, i proclami magniloquenti a ritrovare i grandi valori, i posizionamenti meschini dettati dal calendario elettorale ne sono certamente la causa. Ma più di tutto, ciò di cui soffre la sinistra è il totale default di immaginario. Il fallimento storico del comunismo di Stato non ha dato nessun aiuto a togliere le castagne dal fuoco.
Ma l’unica alternativa possibile al neoliberismo parte dall’immaginario. Senza la capacità collettiva di mettere al lavoro l’immaginazione politica a partire dalle sperimentazioni del presente, la sinistra non ha alcun futuro. In questione c’è la comprensione della stessa natura dell’immaginario neoliberale, del quale una delle forme più flagranti è l’uberizzazione.
Poiché la capacità specifica del neoliberismo è quella di riuscire a nutrirsi delle reazioni che esso stesso induce. Proprio perché esse non sono altro che reazioni, ovvero il movimento contrario rispetto un’azione. Si tratta allora della risposta a un’azione che assume anzitutto il valore di un adattamento. La reazione non ha l’iniziativa, prende in prestito da ciò verso cui reagisce i suoi stessi strumenti. Finisce allora subordinata e, per questo, passiva. Non è affatto innocente che il neoliberismo celebri la «reattività»: sapersi adattare a una situazione che ci viene imposta è la principale virtù di chi è esposto alla concorrenza, è la misura dell’interiorizzazione della concorrenza stessa.
Ma per chi intenda contestare in blocco tale sistema, questo atteggiamento è intellettualmente e politicamente suicida. La crisi della sinistra proviene allora anzitutto dalla sua impotenza ad andare oltre la logica di una autodefinizione puramente reattiva. Se il neoliberismo si rafforza dentro e attraverso la crisi, così non può essere per quelli che provano a combatterlo: la crisi può solo indebolire e paralizzare, non come talvolta si crede generare un vigore meccanico in virtù del suo perdurare.
Perché si diano le minime condizioni di un’opposizione a questo sistema, la sinistra deve piantarla di fare la «sinistra di reazione». Deve darsi le capacità di una vera attività. Deve riprendere l’iniziativa, contestando il neoliberismo in quanto forma di vita. Deve dunque aprire l’orizzonte di una «buona vita» senza cedere a uno pseudo-radicalismo libertario che rifiuterebbe norme e istituzioni e che, con il presunto rifiuto di ogni limite posto al presunto «desiderio», di fatto consacra l’assenza di limite del mercato.
Ma dovrà anche smetterla, una volta per tutte, di intendere il neoliberismo come un ultraliberismo, come un progetto di indebolimento degli Stati a vantaggio del mercato, o di immaginare che questo non sia altro che il punto finale di un neoliberismo abbandonato a se stesso: contrastare il progetto ultraliberista imporrebbe allora la riabilitazione della potenza pubblica e del prestigio del diritto pubblico. Si tratta di un errore molto diffuso.
Alain Supiot parla infatti di una «globalizzazione ultraliberista» che avrebbe per punto finale il «deperimento dellaStato», che farebbe per altro confluire «ultraliberismo» e «rivendicazioni libertarie». Significa ignorare del tutto il fenomeno più rilevante di questi ultimi anni: non abbiamo assisto ad alcun deperimento dello Stato, ma alla sua profonda trasformazione nel senso non di una semplice «restrizione del perimetro della democrazia», bensì del suo svuotamento per mano dello Stato stesso.
Di certo, non siamo di fronte a un totalitarismo, ma nemmeno più a uno Stato di diritto classico. E infatti si spiega. L’intero registro dei «fondamenti» ha preso la china della competitività e della sicurezza, due principi che sono il segreto sempre più sventagliato della «costituzione neoliberale». Ed è per questa ragione che non basta più, come faceva Jacques Rancière dieci anni fa, parlare di «Stati oligarchici di diritto». Che siano oligarchici non vi è alcun dubbio, ma che siano di diritto presuppone una minima precisazione. Questi Stati sarebbero, secondo la definizione di Jacques Rancière, quelli nei quali «il potere dell’oligarchia è limitato attraverso il duplice riconoscimento della sovranità popolare e delle libertà individuali».
Una definizione che si adatta forse alla democrazia liberale classica, ma di certo non ai sistemi politici neoliberali, dove la «sovranità popolare» e le «libertà individuali» sono il bersaglio ricorrente di attacchi, denunce e restrizioni. Sarebbe allora più esatto dire che il potere dell’oligarchia limita sempre di più la sovranità popolare e le libertà individuali. Ma non dobbiamo dimenticare che nella lingua dell’oligarchia neoliberale lo «Stato di diritto» (rule of law) rimanda precisamente alla superiorità del solo diritto privato e, per farla breve, alla prevalenza del diritto di proprietà.
Ed è appunto ciò che lo stesso Jacques Rancière fa notare quando sottolinea che «il potere sociale della ricchezza non tollera più alcun limite alla sua crescita e le sue molle sono sempre più strettamente articolate alle molle dell’azione statuale». Detto altrimenti, gli Stati oligarchici erodono l’autorità del diritto pubblico a mero vantaggio delle norme di diritto privato. La ricostruzione della sinistra ha come premessa l’esatta comprensione del ruolo attivo dello Stato nell’offensiva destinata a demolire la democrazia nelle sue forme, incluse quelle liberali. La diffidenza nei confronti dello Stato è dunque d’obbligo.
Narrazione fondamentale dello statalismo, lo «Stato strumento», o leva subito disponibile per l’azione pubblica, viene opportunamente a gettare un velo sulla spiacevole realtà di uno Stato che non è più il correttore dei mercati e nemmeno il garante esterno del loro funzionamento, ma che è diventato un attore neoliberale a tutto tondo. L’immaginario neoliberale non è l’utopia libertaria, non condanna lo Stato all’inesistenza: lo assolda dentro la logica della concorrenza, che è tutt’altra cosa. Non si farà a pezzi questo immaginario preconizzando il «grande ritorno» dello Stato o la restaurazione della Legge. Per questa strada si rafforzerà solo la sorpresa. E il ritorno di schemi nazionali e statali non sono altro che l’indice della persistente subordinazione intellettuale della sinistra.
L’esperienza del comune contro l’espertocrazia
Come mettere in cantiere l’elaborazione di un’alternativa al neoliberismo? Un prerequisito di metodo è d’obbligo. Se non può esserci altra contestazione al liberismo se non nell’opporgli nuove forme di vita, occorre allora guardare a coloro che inventano e sperimentano tali forme. Non c’è niente da aspettarsi dai partiti e dagli apparati che si contendono il riconoscimento dello Stato e da essi attendono posti e sovvenzioni. Perché abbia qualche possibilità, l’elaborazione di un’alternativa può venire solo dal basso, cioè dai cittadini. Il che non significa che occorra riannodare in modo puro e semplice i fili interrotti del cahiers de doléances.
Occorre, invece, smetterla di rivolgere rimostranze a rappresentanti indegni di essere rappresentanti. Il presente impone di mettere radicalmente in discussione la logica stessa della rappresentazione politica, anzitutto nel modo di elaborare il progetto alternativo. Perderemmo qualunque credibilità nel voler separare il «modo» di elaborare tale progetto dal contenuto di questa alternativa. Se, come crediamo, il contenuto non può essere altro che quello di una democrazia spinta fino all’estremo, l’elaborazione dell’alternativa deve già essa stessa consistere nella sperimentazione di una tale democrazia, ovvero nella sperimentazione di un comune politico.
Affidare questa elaborazione a tecnici ed esperti renderebbe sterile la pretesa di costituire una vera alternativa o, peggio, finirebbe col portare acqua al mulino del neoliberismo. Lo abbiamo visto poco sopra, la governance liberale svilisce la democrazia elettorale in nome dell’expertise. L’esperienza alla quale fa appello è l’esperienza non condivisa dei banchieri e dei manager. In questo senso, il neoliberismo rappresenta il sequestro dell’esperienza comune attraverso l’expertise: solo l’esperienza della quale si fa garante l’esperto ha valore di esperienza, mentre l’esperienza comune viene squalificata come incompetenza. Invocare, contro l’expertise finanziaria-manageriale, una qualunque «expertise politica» significa, che lo si voglia o meno, accettare la logica di questa confisca.
Eppure non è più sufficiente fare appello all’esperienza comune. Ciò che importa non è tanto riabilitare l’esperienza comune quanto ridare tutto il suo peso all’esperienza delcomune, ovvero all’esperienza di una copartecipazione alle questioni pubbliche. In gioco c’è la differenza tra ciò che è comune e il comune. Per questo l’espressione «democrazia partecipativa» non basta: qualunque democrazia è partecipazione diretta alle cose pubbliche (e non solo alle elezioni dei rappresentanti). Qui sta precisamente il senso di quello che abbiamo chiamato il «principio del Comune». Un’esperienza che è comune, perché ordinaria, non significa che sia un’esperienza del comune. Al contrario, un’esperienza del comune può essere oggetto della maggiore condivisione e in questo senso diventare un’esperienza comune.
Vale la pena ricordare che la democrazia ateniese si è premunita contro il rischio della formazione politica dell’expertise. Qui gli esperti avevano lo statuto di «schiavi pubblici» (demosioi), erano cioè di proprietà dell’intera polis e non di singoli cittadini. Questi schiavi svolgevano un certo numero di mansioni indispensabili alla continuità della vita civile: gestione degli archivi pubblici, gestione della moneta, inventario dei beni pubblici, controllo contabile dei magistrati in carica… In una polis nella quale vigevano il rinnovo annuale dei magistrati e il principio della non iterazione per tutti i magistrati, estratti a sorteggio, questi schiavi restavano spesso in funzione diversi anni di seguito, cosa che gli conferiva un certo potere sui membri della comunità civile. Affidando la propria amministrazione a esperti che non avevano alcun ruolo nelle delibere e nella decisione pubblica, la polis intendeva difendersi dal pericolo che la «statalizzazione» avrebbe potuto far correre alla sua stessa esistenza.
Questa istituzione ricorda così che la libertà degli uni ad Atene si traduceva nella schiavitù degli altri, ma testimonia anche «della resistenza della comunità civile all’avvento dello Stato inteso come istanza separata dalla società», o del rifiuto di un apparato politico capace di imporsi sull’«accordo istituente» che fonda la comunità dei cittadini uguali o politeia. Se l’expertise era esplicitamente esclusa dall’ambito politico, è perché il sapere dell’esperto non doveva in alcun modo costituire un titolo all’esercizio del potere politico.
L’originalità della democrazia in questo senso è quella di invalidare il teorema della giuria di Condorcet, secondo il quale l’elaborazione della decisione è una funzione «del livello di expertise di ciascuno dei partecipanti al processo deliberativo». Quello che fa la qualità della delibera in un’assemblea non è tanto l’expertise di ciascuno dei partecipanti, quanto la messa in comune dell’esperienza da parte della massa dei non esperti, ovvero da parte di coloro che presi singolarmente risulterebbero degli «incompetenti».

Questo è un estratto dal nuovo saggio di Dardot e Laval, «Guerra alla democrazia, L’offensiva dell’oligarchia neoliberista», in uscita in questi giorni per DeriveApprodi.

Fonte: operaviva.info 

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