La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 24 dicembre 2016

Reddito minimo. Quando l'Italia ci provò

di Ugo Carlone
Fin dalla Raccomandazione CEE 441 del 1992, l’Europa aveva invitato i paesi membri a “riconoscere, nell’ambito d’un dispositivo globale e coerente di lotta all’emarginazione sociale, il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana” e a prevedere, per le persone le cui risorse fossero al di sotto di quelle giudicate sufficienti a coprire i bisogni essenziali, la “concessione di un sostegno finanziario differenziale che consentisse loro di disporre effettivamente di un importo adeguato”.
Cioè, di un reddito minimo garantito. Eppure, nonostante i richiami europei, che negli ultimi anni l’Italia si affretta a seguire sui più svariati temi (in primis quelli di bilancio e politica economica), il nostro paese non dispone ancora di un istituto di sostegno al reddito omogeneo a livello nazionale e per tutti i cittadini che si trovano in condizioni di bisogno. Il dibattito su questa misura, in Italia, è via via cresciuto nel tempo e negli ultimi anni essa è entrata a pieno diritto e con differenze non di poco conto nelle istanze di alcuni partiti-movimenti, nelle mobilitazioni di associazioni e istituti di vario genere e nella discussione più propriamente accademica, oltreché, da molto tempo, nelle richieste di una parte consistente della sinistra “extraparlamentare”.
Lo chiamiamo reddito minimo garantito, ma in realtà l’intervento che consiste in una erogazione monetaria da mettere a disposizione a chi non ha le risorse sufficienti per vivere dignitosamente è stato denominato in tantissimi modi: reddito di cittadinanza, reddito di esistenza, reddito di base, reddito di dignità, reddito di autonomia, reddito di partecipazione, reddito di inclusione, reddito di ultima istanza e via dicendo. In realtà, la vera (e prima) distinzione da fare è tra misure che prevedono una qualche contropartita da parte del soggetto che ne beneficia (accettare proposte di lavoro, frequentare corsi di formazione, svolgere attività di utilità sociale, essere inserito in un programma di recupero scolastico, partecipare a progetti di inserimento sociale, etc.) e altre che, invece, garantiscono a chi ne ha bisogno o a tutti (compreso chi non è in difficoltà economica) una somma di denaro, senza alcuna contropartita. Poi, una volta imboccata una delle due strade, le misure possono differenziarsi ancora sulla base di altri fattori.
Quasi vent’anni fa
Affronteremo pro e contro delle varie vie intraprese nei prossimi articoli. Come pure parleremo di ciò che il Governo italiano attuale sta mettendo in campo per il contrasto alla povertà (non molto, lo diciamo subito). Ora, invece, centreremo l’attenzione sull’unico tentativo di rompere l’isolamento del nostro paese nel panorama europeo, compiuto nel 1998 (governo di centrosinistra, specifica volontà della ministra Livia Turco), con la predisposizione del Reddito Minimo di Inserimento (Rmi). Si è trattato di una misura sperimentata per due bienni con l’obiettivo di verificarne l’efficacia e l’idoneità. Essa ha permesso di adeguare l’Italia, seppure per un breve periodo e soltanto in alcuni territori, allo standard europeo e di ovviare alla tradizionale frammentazione e discrezionalità delle misure di intervento di contrasto della povertà, offrendo uno strumento uniforme sul piano nazionale.
Il Rmi è stato introdotto con la legge finanziaria del 1998 e con il decreto legislativo 237/98. Un successivo decreto ha individuato un gruppo di 39 Comuni oggetto della sperimentazione. La legge finanziaria del 2001 (legge 388/2000) ne ha disposto il prolungamento, allargandola a 268 Comuni. Al termine di tale esperienza, il governo Berlusconi non ha ritenuto opportuno né generalizzare la misura, né stabilizzarla su tutto il territorio nazionale, e neppure proseguire in qualche modo sulla strada tracciata, magari con opportune correzioni. Nonostante qualche enunciazione di principio a cui non sono seguite applicazioni concrete, si è tornati indietro di diversi anni: l’Italia resta un paese senza una misura nazionale e omogenea di reddito minimo per le persone in difficoltà.
L’innovazione del Rmi impattava su alcuni degli elementi di maggiore arretratezza del sistema di welfare italiano, come la centralizzazione delle erogazioni (Ministeri e Inps), la forte discrezionalità e occasionalità dell’assistenza economica in capo ai Comuni (con esposizione del beneficiario all’incertezza e alla sudditanza nei confronti dell’ente erogante e dei suoi operatori), la mancata integrazione delle politiche, degli interventi, delle professionalità di enti o servizi diversi, la svalutazione delle risorse del soggetto e della sua famiglia.
Com’è andata in concreto? Quali sono stati gli aspetti positivi e negativi della misura sperimentata? È opportuno tornare sul Rmi, oggi, proprio perché, come detto, il dibattito attuale è ricco e perché cercare di capire pregi e difetti dell’unico intervento di sostegno al reddito universale a carattere nazionale messo in piedi fino ad ora nel nostro paese può essere di estrema utilità per (si spera) eventuali sviluppi futuri. Possiamo avere un’idea precisa del breve cammino del Rmi dalla valutazione della sperimentazione, relativa al biennio 1998-2000, allora affidata ad un consorzio indipendente di enti di ricerca (Irs, Fondazione Zancan e Cles). Al termine della rilevazione, i tre istituti hanno prodotto un corposo e dettagliato rapporto, che contiene un quadro più che esauriente dell’attuazione della misura e da cui abbiamo attinto gran parte delle informazioni utili alla nostra analisi.
Le caratteristiche
Il Rmi era una misura bidimensionale: da un lato, costituiva un intervento prettamente di contrasto alla povertà, attivato mediante trasferimenti monetari integrativi del reddito delle persone impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche o sociali al mantenimento proprio e dei figli, esposte pertanto al rischio della marginalità sociale; dall’altro, era diretto a perseguire, oltre all’autonomia economica, anche l’integrazione sociale dei soggetti e delle famiglie destinatari, attraverso programmi personalizzati di inserimento. Con il Rmi si era inteso attivare un percorso che permettesse ai beneficiari un’effettiva valorizzazione delle risorse individuali e familiari. Secondo i promotori della misura, infatti, il mero contenimento delle situazioni di maggiori difficoltà attraverso un’erogazione di una somma in denaro, non intaccava i principali meccanismi tramite i quali si produce e si riproduce l’esclusione sociale.
La soglia di povertà che permetteva l’accesso era pari a 258,23 Euro (500.000 Lire del vecchio conio) per una persona che viveva da sola, in assenza del possesso di qualsiasi tipo di appezzamento o di immobile non destinato all’abitazione del beneficiario, con la previsione di “equivalenze” a seconda della consistenza del nucleo familiare e diverse priorità di accesso e requisiti. L’ammontare dell’integrazione del reddito era differenziale, cioè pari alla differenza tra la soglia di povertà e il reddito percepito.
La titolarità dell’attuazione del Rmi competeva al Comune, che doveva definire le modalità della presentazione della domanda e della verifica della sussistenza dei requisiti. Il finanziamento gravava per almeno il 90% sul Fondo nazionale politiche sociali e fino al 10% sul bilancio proprio dei Comuni, mentre i costi di gestione erano a totale carico dei Comuni.
Nel biennio 1998-2000, nei 39 Comuni, sono state presentate 55.522 domande di Rmi, di cui quelle accolte ammontavano a 34.730, per un totale di 25.591 nuclei familiari e oltre 85.000 individui destinatari. Il 91% delle famiglie beneficiarie risiedevano al Sud, visto che la stragrande maggioranza dei Comuni individuati per la sperimentazione erano meridionali. Il tipo prevalente era la famiglia numerosa con figli.
I destinatari
Il Rapporto di valutazione traccia un interessante profilo del destinatario-tipo del Rmi, che cambiava molto a seconda della zona di residenza: “i beneficiari presentano una casistica di situazioni molto differenziata, anche se alcune costanti tornano con una certa frequenza. Innanzitutto, per la gran parte dei casi esaminati nei Comuni del centro-nord si tratta di situazioni di povertà non estrema, quanto piuttosto di un disagio sociale più sottile, spesso inaspettato, ma non per questo meno emarginante. I destinatari della sperimentazione sono il più delle volte persone senza gravi problemi di esclusione sociale, assai decorose e con un buon livello di scolarizzazione (almeno la terza media) e che, spesso a causa di un evento scatenante specifico (perdita del lavoro, morte o allontanamento del coniuge per esempio), si sono ritrovate con un reddito insufficiente per vivere. È il caso dell’uomo cinquantenne, che si trova all’improvviso senza lavoro, e che fatica a trovarne un altro, della casalinga che è sempre stata mantenuta dal marito e che dopo la separazione si trova a dover provvedere a se stessa e ai suoi figli. Questo improvviso sprofondare in una situazione di disagio comporta spesso crolli motivazionali, depressioni che possono sfociare in apatia e rassegnazione, ma anche in processi di disgregazione del tessuto familiare”. Nel Mezzogiorno, invece, il profilo era differente: “si tratta tendenzialmente di famiglie numerose, costituite da soggetti con basso livello di scolarizzazione, versanti in situazioni di deprivazione anche estrema, in cui, ad una povertà culturale ed economica, si aggiungono spesso condizioni abitative precarie. Non mancano poi casi di soggetti portatori di handicap, a volte multiproblematici, con gravi difficoltà relazionali”.
L’impatto
Per quanto riguarda l’impatto della misura sui beneficiari, il Rapporto segnala alcuni aspetti decisamente positivi: il riconoscimento dello stato di bisogno da parte dei soggetti svantaggiati (avvenuto a diversi livelli), che costituisce, senza dubbio, il primo passo per il suo superamento; taluni interessanti cambiamenti nei comportamenti e negli atteggiamenti: viene segnalata una generale “comprensione” della misura e della logica che è ad essa sottesa, anche se, effettivamente, “è difficile valutare quanto il Rmi sia stato percepito anche nella sua caratteristica fondamentale di strumento di attivazione e promozione, piuttosto che solo come misura assistenziale”; l’ingresso, per molti dei beneficiari, in una rete di sostegno sociale che prima non era conosciuta, con esiti spesso soddisfacenti; lo “sviluppo di relazioni “negoziali” con l’utenza in cui l’erogazione monetaria viene “scambiata” con la partecipazione attiva del beneficiario Rmi ad un proprio percorso di emancipazione sociale ed economica”, segnalato tra i risultati più apprezzati: il “contratto”, cioè il fatto di non essere soltanto titolari di un diritto (la percezione del reddito), ma anche di un obbligo (la partecipazione a programmi di inserimento sociale) ha in molti casi “contribuito ad orientare la mentalità assistenziale verso un atteggiamento più propositivo, sia degli utenti che dei servizi” (affronteremo il tema della legittimità a richiedere contropartite e ad instaurare un rapporto di tipo “contrattuale” nei prossimi articoli, visto che si tratta di uno snodo che discrimina fortemente le misure e il dibattito attorno ad esse).
Uno dei punti critici riguardava l’uso del denaro ricevuto. Spesso i Comuni non sono stati in grado di conoscere la destinazione del reddito che erogavano ai beneficiari, compito del resto tutt’altro che facile e argomento certamente dibattuto circa la sua opportunità. Un altro fenomeno da ascrivere tra i fattori di criticità è stato senza dubbio costituito da alcuni comportamenti opportunistici messi in atto dai beneficiari per ottenere il sostegno economico senza averne i requisiti: “la questione relativa ai controlli sulle caratteristiche dei richiedenti il Rmi è uno dei punti dolenti su cui i responsabili comunali dello strumento ritengono sia necessario intervenire. […] Il riscontro della pertinenza e della veridicità dei requisiti dei richiedenti per l’accesso al Rmi si è rivelato per i Comuni un’attività molto impegnativa, tale da assorbire parte consistente delle limitate risorse necessarie a produrre adeguate azioni progettuali, di strutturazione delle reti di partenariato sociale e di inserimento diretto, quando necessario”.
Il reinserimento sociale
La partecipazione dei beneficiari ad un progetto di inserimento di tipo socio-professionale costituiva l’obbligo, la contropartita che chi riceveva il reddito doveva garantire affinché l’erogazione monetaria potesse continuare. I progetti erano personalizzati e concordati tra destinatari e operatori pubblici. I programmi di inserimento potevano essere di pubblica utilità (manutenzione del verde pubblico, segretariato presso uffici comunali); di tipo formativo (formazione di base e professionale); di tipo occupazionale (orientamento, tirocinio, apprendistato); di tipo scolastico (alfabetizzazione, recupero dell’obbligo scolastico); di tipo riabilitativo (percorsi per tossicodipendenti, disabili, alcolisti); di cura e sostegno familiare (cura di anziani, minori, sostegno alle responsabilità genitoriali); di integrazione socio-relazionale (volontariato sociale, inserimento in attività di aggregazione sociale).
La maggioranza dei programmi di inserimento ha riguardato l’integrazione socio-relazionale e le attività di cura e sostegno familiare. Va notata la bassa incidenza delle attività di tipo occupazionale (14,9%), presenti quasi ovunque nei Comuni del Nord dove si è effettuata la sperimentazione, ma più di rado al Sud. Una possibile spiegazione può derivare dal fatto che il tessuto economico-produttivo delle zone meridionali del paese individuate per la sperimentazione non offriva reali opportunità occupazionali.
Sul totale dei beneficiari, comunque, quasi novecento hanno trovato un’occupazione. La cifra corrisponde al 16% di coloro che hanno seguito programmi di tipo occupazionale. Tuttavia, non è facile valutare l’effetto netto del Rmi sull’occupazione. Nel Rapporto di valutazione si segnala che “sull’effettivo grado di riuscita nel determinare nuova occupazione, le testimonianze degli operatori sono diversificate. Da un lato, alcuni di essi, in modo particolare in Sicilia, in Calabria e in altri Comuni del Meridione, affermano che non sempre vi è una correlazione tra il Rmi e il fatto di trovare un’occupazione”. Allo stesso tempo, “altri operatori comunali affermano che non si può negare che l’inserimento di soggetti svantaggiati in un percorso di promozione sociale possa avere quantomeno determinato una spirale positiva in termini di motivazione alla ricerca di una forma di occupazione e una maggiore attenzione alle opportunità provenienti dal mercato del lavoro”.
Gli operatori comunali interpellati per la valutazione hanno evidenziato, comunque, come primo problema, proprio l’insufficienza delle proposte di inserimento lavorativo. Questa mancanza è stata segnalata in 25 dei 39 Comuni, tutti del Centro-Sud. Del resto, anche questo è un argomento oggi molto dibattuto: il reddito minimo e i progetti di inserimento devono servire come veicolo per trovare un’occupazione? Ci si trova di fronte ad una sorta di ricatto se si baratta il sostegno economico con l’accettazione di un programma per trovare un lavoro pur che sia? Anche qui, rimandiamo l’approfondimento ai successivi articoli. Intanto, possiamo dire che il Rmi non sembra essere stato in grado di fornire una risposta adeguata all’inserimento professionale, almeno dal punto di vista quantitativo, e proprio nelle zone meridionali del paese dove invece avrebbe dovuto essere più incisivo. Al Sud, tuttavia, era anche più difficile, come detto, che la misura avesse successo, visto che il mercato del lavoro offriva (e offre tuttora) meno chance di occupazione e, ricordiamolo, l’organizzazione e la struttura dei servizi sociali presentava (e presenta tuttora) più deficit rispetto agli standard delle zone settentrionali del paese. Viceversa, al Nord, dove le condizioni del mercato del lavoro e della struttura dei servizi sociali erano del tutto diverse, e migliori, è stata maggiormente presente la quota di progetti di inserimento professionale e più marcato il percorso attivatore di risorse insito nello spirito e nelle finalità del Rmi. E poi il coinvolgimento del mondo imprenditoriale è stato, a Nord e a Sud, scarso, anche perché le imprese dovevano “accettare” un’utenza comunque difficile e problematica, talvolta in condizione di fragilità sociale estrema o in quella fascia d’età centrale in cui non era facile progettare interventi mirati all’inserimento professionale.
Anche i rapporti con la cooperazione sociale non sono stati, in linea generale, molto stretti. È stato più facile, per i Comuni, coinvolgere altri enti pubblici o il mondo del volontariato piuttosto che le cooperative sociali, che hanno visto con un certo “sospetto” l’attuazione del Rmi. Talvolta, i programmi di inserimento hanno riguardato settori molto vicini alle aree di intervento delle cooperative (basti pensare ai programmi di pubblica utilità) e questo ha creato una sorta di concorrenza non sempre gradita.
Eppure non era andata affatto male…
Finita la sperimentazione e cambiato colore politico il governo (da centrosinistra a centrodestra), la misura non è stata generalizzata ed è praticamente scomparsa, ricomparendo solo in alcune esperienze messe in campo da qualche Regione. Eppure, a livello generale, il Rmi ha avuto degli effetti certamente positivi. Quanto al suo impatto sul sistema dei servizi sociali, esso ha inciso, come detto, su diversi elementi di arretratezza. Ha consentito, in molti casi, l’ingresso dei beneficiari in una rete di sostegno sociale prima sconosciuta e un loro atteggiamento più propositivo. E poi, come segnala l’Ires in un successivo rapporto del 2002, tra i risultati più apprezzati c’è stato anche “l’emersione del ruolo del settore sociale nell’ambito delle organizzazioni comunali, l’incremento di conoscenza degli aspetti socio-economici del territorio, l’evoluzione da un’azione di tipo assistenzialistico ad un’azione di tipo progettuale, la realizzazione di strategie di rete e di partnership con le altre strutture pubbliche potenzialmente convergenti”. In definitiva, solo cinque Comuni intervistati, sui 39 totali, hanno espresso un giudizio completamente negativo sull’esperienza, che derivava dallo scarso successo ottenuto dal Rmi come misura di inserimento lavorativo. E ancora, secondo un’ulteriore Relazione di valutazione trasmessa al Parlamento dal Ministero della Solidarietà Sociale nel giugno 2007, il Rmi ha costituito “un essenziale supporto economico per tutte le famiglie al di sotto della soglia di povertà, uno strumento di ‘riduzione del danno’ per le categorie familiari che non è stato possibile reinserire in percorsi ad hoc, un’utile risposta a problemi di sostegno e cura familiare e di riabilitazione dal punto di vista socio-sanitario, un’occasione di reintegro nella vita sociale, una possibilità di elevamento del grado di scolarizzazione di diversi beneficiari, che hanno potuto conseguire, attraverso attività di alfabetizzazione primaria e di recupero di anni scolastici, titoli di studio che altrimenti non avrebbero raggiunto, e un’occasione di miglioramento nelle condizioni di vita dei minori”.
Quindi: sicuramente si sono verificate delle criticità e la misura non è stata immune da difetti e aspetti negativi. Ci sembra però evidente che quelli positivi siano stati nettamente preponderanti. Ed eravamo in un periodo abbastanza florido per la nostra economia e per quelle dei paesi occidentali: proviamo soltanto ad immaginare quanto sarebbe utile un reddito minimo garantito oggi, nell’età della crisi e della stagnazione.
Ma ne riparleremo.

Fonte: ribalta.info 

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