La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 24 dicembre 2016

Come si identifica (e come si storicizza) il Modernismo italiano

di Mimmo Cangiano
I. Dimenticate quel libro!
Nei libri su cui abbiamo studiato il termine Modernismo non c’era.[1] La produzione culturale italiana del primo ‘900 era di volta in volta definita con sintagmi e parole differenti quali “rivolta spiritualista”, “reazione al Positivismo scientista”, “decadentismo”. Qualche critico più militante si arrischiava nell’uso del lukácsiano “irrazionalismo”, senza però registrare che, fuori dalla connessione col concetto di Modernismo, quel termine risultava alquanto ambiguo e in definitiva controproducente: evocava infatti misticismi e “cavalierati dello Spirito” (eh, “lo Spirito a cavallo”, scherzava Croce col principe Casati) che poco avevano a che fare con la frantumata coscienza – cioè con la frantumata realtà – del ventesimo secolo.
Lukács non amava particolarmente Croce. Di quei mesi misteriosi che trascorse nella Firenze della “Voce” dopo il suicidio di Irma Seidler (prima che Ernst Bloch scendesse nella penisola a riprenderlo), si sa che, per il tramite di Lajos Fülep, chiese a Papini di leggere il suo scritto anti-crociano intitolato La religione sta da sé, e, stesso tramite, gli consegnò il saggio Metafisica della tragedia da pubblicare, in prima mondiale, proprio sulla “Voce” (non uscirà che l’anno successivo – 1911 – nella versione tedesca di L’anima e le forme).
Ben prima che il termine Modernismo diventi egemonico, il filosofo ungherese pubblica due saggi (Le strade si sono divise e Cultura estetica), che ne mettono a nudo alcune caratteristiche, che lo identificano, vale a dire, come la controparte artistica di un atteggiamento filosofico che, se ne avverte preoccupato Lukács, sta prendendo il sopravvento. E scrive: “Il centro della cultura estetica è lo stato d’animo […]. L’essenza dello stato d’animo è la sua accidentalità. La cultura estetica nacque nell’attimo in cui quest’attività dell’anima venne estesa al complesso della vita, quando cioè la vita intera si trasformò in una successione ininterrotta di stati d’animo in perenne mutamento: quando cessarono di esistere gli oggetti […]. L’unità della cultura sarebbe dunque stata raggiunta: la mancanza di unità. Esiste un centro: il carattere periferico del tutto. Ed ogni cosa ha acquisito un valore simbolico: il fatto stesso che nulla è simbolico”. Con chi ce l’ha questo Lukács non ancora marxista? Non certo con l’estetismo fin-de-siècle, il quale non ha davvero costruito le sue fortune sull’esaltazione della vita-contingente. Il bersaglio è un altro. A noi, abitanti e lettori della postmodernità, vengono abbastanza velocemente alla mente i nomi di una tradizione, quella della grande “filosofia della crisi”: Nietzsche, Bergson, William James, Hans Vaihinger, Le Roy, ecc..
Lukács non può sapere che un esule russo a Parigi – Lenin – ha registrato qualcosa di simile pubblicando nel 1908 un testo (Materialismo ed empirio-criticismo) la cui importanza risiede basicamente in due fattori: da un lato Lenin, ponendo Ernst Mach a bersaglio della sua polemica, coglie i primi sintomi della capacità del pensiero borghese di utilizzare le teorie d’impronta nietzschiana mediante la riduzione del nichilismo nell’orizzonte della finzionalità e del convenzionalismo (Michelstaedter l’anno dopo scrive che “gli uomini se non riusciranno ad intendersi certo giungeranno ad intendersela”), dall’altro – visto che l’altro bersaglio sono i compagni come Bazarov che hanno cominciato a supportare le teorie di Mach come “epistemologia del marxismo” – coglie il grado di diffusione egemonica delle teorie in questione, segnalando al contempo come l’equivoco (annoso equivoco) si stesse originando nella sovrapposizione coatta di relativismo e storicismo, vale a dire in uno storicismo privo della capacità di porre se stesso in rapporto dialettico con la stessa prassi che si fa nella storia. Mannheim racconterà il problema così:
l’enfasi sulla vita e sulla diversità quali elementi che non possono essere ricondotti alla razionalizzazione e generalizzazione burocratica, come se la vita non potesse essere a sua volta alienata, (…) Lebensphilosophie, per dargli il suo nome corrente
Lukács stesso (stavolta marxista, è il 1922) così:
Ogni relativismo, «biologico» o di altro genere, che rende «eterno» il limite da esso fissato, introduce, involontariamente, proprio per via di questa concezione del relativismo, l’assoluto, il principio «atemporale» del pensiero. (…) Esso rappresenta il massimo principio del pensiero accessibile sul terreno adialettico. Infatti questi relativisti non hanno fatto altro che irrigidire il limite presente, storico-socialmente dato, (…) nella forma di un limite «eterno» di tipo biologico. Nel momento in cui si è giunti ad unificare la teoria con la praxis è divenuta possibile la modificazione della realtà, l’assoluto ed il suo contropolo «relativistico» hanno esaurito nello stesso tempo il loro ruolo storico. (…) la premessa che in apparenza il materialismo storico e il relativismo hanno in comune (l’uomo come misura di tutte le cose) ha per essi un senso qualitativamente diverso, per non dire senz’altro opposto.
È una questione che l’ungherese tratterà lungamente nel suo “libro infame”, nel libro che “facciamo bene a ignorare” (Susan Sontag), inserendo tale atteggiamento filosofico nel quadro più ampio di una crisi gnoseologica che proprio nel Modernismo finiva, secondo Lukács, per trovare una propria logica formale. Tale logica, il ‘sistema formale’ della contraddizione che nel ‘divenire’ trovava espressione quale trionfo della stessa gnoseologia – quale analisi della realtà come interamente derivata dalla prospettiva gnoseologica – permetteva infatti agli autori modernisti di restare al di qua della creazione della pseudo-oggettività di componenti mitologiche (siano esse, ad esempio, il Superuomo dannunziano), serrandosi per l’appunto nell’immagine di un Divenire dove nulla è, e tutto è rappresentazione. È nel divenire che le cose (soggetto compreso) rivelavano la propria natura rappresentativa come un oscillare fra la loro apparente oggettività e uno spazio esterno, lo spazio del giudizio gnoseologico, che tale oggettività continuamente smentiva. Tale spazio esterno restava però il luogo di un giudizio a-dialettico costruito su coppie binomiali (a cominciare da quelle concernenti Vita e Forma; ‘vivente’ / ‘rigido’, ecc.) atte a dichiarare la logica eterna del divenire (il ‘flusso’ pirandelliano, ad esempio) come spazio della contraddizione inemendabile. È qui che i ‘succhi’ nietzschiano-modernisti (come ben sapeva Gramsci lettore di Pirandello) diventavano altrettanti ‘veleni’: la funzione progressiva atta a smontare le concrezioni oggettivistiche del senso comune borghese si reificava in un concettualismo epistemologico che faceva da ‘busto’ teoretico alla stessa prospettiva nichilista. La conoscenza intellettiva di matrice gnoseologica – proprio quella conoscenza che nel periodo dell’imperialismo passava a porsi come forma egemonica del pensiero – si auto-equiparava ai limiti della conoscenza stessa trovando un pretesto a ciò proprio nel suo continuo fallimento rispetto alla propria capacità di concettualizzazione del reale. Era appunto la via senza uscita della concettualizzazione a-dialettica a creare la ‘ritirata’ dinnanzi alla realtà e a determinare la fuga da questa come soluzione a ciò che passava ad essere ritenuto limite antropologico (“non ci sono fatti: solo interpretazioni”) della stessa conoscenza razionale. Ma tale ritirata (ovviamente da tali autori identificata come un ‘approfondimento’ della realtà: un immergersi nella realtà oltre le concettualizzazioni falsificanti – ‘forme’ – dell’intelletto) sempre nascondeva, se non la soluzione del ‘mito,’ la logica formale che riordinava il materiale ‘diviso’ mediante il riferimento al ‘vero’ modo di essere della Vita che il pensiero (o Metafisico o Dialettico: la necessità di identificare questi due termini è tratto fondante del Modernismo) avrebbe tradito. Il principio di perenne movimento di tutto ciò che nel reale è contenuto, nascondeva, nelle movenze di un ‘approfondimento’ dello stesso reale, la statica, appunto, di tale logica formale. La progressiva erosione dei presupposti oggettivistici fondanti il reale (e il corollario attacco alle presupposte concrezioni concettuali rappresentate da Soggetto e Linguaggio: “mostri concettuali”, li chiama proprio Mach) era per l’appunto lo spazio di un giudizio sul reale che si presupponeva come assenza di giudizio perché si equiparava alla ‘realtà’ di una Vita che negava ogni concrezione di sé tranne quella rappresentata da se stessa. Ma così essa diveniva la prova di se medesima, tribunale del reale, spazio di una Natura immobile – la cui proprietà fondamentale era però quella della contraddizione. Il rapporto fra soggetto e natura veniva analizzato su basi gnoseologiche come una presupposta identità che era stata disgregata dal tentativo di istituire verità oggettive.
La logica formale del nichilismo che sfociava, fra le altre cose, in umorismo come ‘tragedia’ della Vita e delle Forme (e di tutte le altre coppie binomiche che da qui si dipartivano) era il presupposto di ciò che poi avrebbe condotto – in una seconda fase della logica culturale imperialista – ad ipostatizzare una forma o un’altra (e avremmo avuto i ‘miti,’ anche i miti fascisti) come ‘vera’ espressione della Vita, come espressione formale di questa (era il punto in cui una Forma – e poteva essere il Germanesimo, la Latinità, l’Autenticità, la Durata, etc. – avrebbe significato la Vita). Nella ‘contraddizione’ si identificava l’unico carattere reale (vero) della Natura stessa. A tale ‘divenire,’ che non si caratterizzava come forma oggettiva di una determinata fase storica, venivano poi infatti assegnati i tratti dell’Essere, i tratti – voglio dire – di un nesso al contempo cosmico e biologico: il soggetto che si riconosceva ‘in divenire’ proiettava questi dati sul ‘reale’ e pensava che solo adattandosi a questi avrebbe potuto non ‘tradire’ quest’ultimo. In questo modo quelli che erano i riscontri psicologici di una precisa e oggettiva fase storica diventavano – mediante il cavallo di troia della gnoseologia – la vera (e eterna) realtà del mondo che l’arte modernista mimava appunto in ‘rappresentazione,’ in ermeneutica, in, per dirla con Musil, possibilità. Quest’arte consisteva nella dissoluzione ‘soggettiva’ di un’oggettività considerata sulla base delle stesse istanze soggettivistiche, le quali, affermando la vanità di ogni cosa concreta (decretando, vale a dire, ogni ricerca della verità come arbitrario impulso al dominio che voleva reprimere le ‘differenze’ della vita), risolveva la realtà stessa in gioco rappresentativo (in una metafisica del pluralismo), cioè in valore di scambio (nessuna ‘possibilità’ aveva più valore dell’altra, tutte erano convertibili). Era una critica alla realtà che però voleva presentare come ‘eterni’ i nessi storici di questa. Nella logica formale di tale filosofia erano le stesse antinomie borghesi (ovviamente elevate ad antinomie dell’esistenza in generale) a fornire una conciliazione: la lotta della prospettiva nichilista non si indirizzava infatti all’eliminazione di tali antinomie – ciò, in tale prospettiva, avrebbe significato lottare contro il modo di essere dell’esistenza stessa (sarebbe stato un assurdo) – ma si indirizzava a dedurre dal presupposto gnoseologico la realtà in generale come simulacro di se stessa, approdando dunque alla Contingenza come Verità del mondo. Tutto ciò era, secondo Lukács, la cristallizzazione di un conflitto irrisolto in una provvisorietà eterna che dello stesso conflitto avrebbe voluto essere il superamento.
II. Due modernismi
Ha scritto Franco Moretti:
"la lettura di sinistra, e anche marxista, della letteratura modernista è sempre più nettamente sorretta da teorie interpretative – il Formalismo russo, l’opera di Bachtin, le teoria dell’opera «aperta», il decostruzionismo – che, in un modo o nell’altro, appartengono esse stesse al Modernismo. Queste improvvise perdite di distanza concettuale producono di norma il dilagare di circoli viziosi nell’atto dell’interpretazione: e la cosa è puntualmente successa anche nel nostro caso, trasformando una critica che era nata per criticare – o demistificare addirittura, figuriamoci – in una loquace apologetica".
Nell’ultimo trentennio circa, con l’egemonico avanzare di portati teorici che, per comodità, possiamo porre sotto il segno del ‘postmodernismo,’ il Modernismo ha vissuto una profonda fase di rivalutazione. Tale rivalutazione, però, non ha riguardato ciò che tradizionalmente della produzione letteraria modernista era stato interpretato come scopo decisivo (la capacità dell’opera d’arte di elevare a unità il caos del reale, di dare a questo forma), ma il caos stesso, e la mimesi di questo che l’arte produce. L’accento che le nuove teorie hanno posto sulla capacità critica (rispetto a ciò che è stata identificata come ‘razionalità’ borghese) di una cultura finalizzata a rivelare come finzionali le ‘grandi narrazioni’ e i loro portati e corollari, ha portato lo sguardo dei critici a volgersi verso quegli elementi del Modernismo che avevano condiviso obiettivi similari a quelli della nuova cultura ora egemonica. Se Baudelaire, insomma, ne Il pittore della vita moderna (1859-1860) aveva avvertito come il tradizionale ideale di una ‘bellezza’ immutabile fosse entrato in rapporto dialettico con “un vivido senso del flusso e del movimento nella vita,” ribadendo che l’arte avrebbe d’ora in poi avuto un lato teso verso la contingenza, e uno teso verso l’eternità, la nuova egemonia culturale pone con decisione l’accento sugli elementi del ‘flusso’ e della ‘contingenza,’ perché in quelli individua le forze migliori per muovere una critica ad un pensiero borghese che con l’altro lato della medaglia viene identificato.
È poi necessario aggiungere un altro elemento. L’altro Modernismo, quello per intenderci non disposto a considerare il nuovo orizzonte scettico-relativista come dato positivo, ma comunque in esso costretto ad operare, pure esiste (per l’Italia possiamo pensare a figure come Giovanni Boine, Scipio Slataper, Clemente Rebora). Tale versante, pur flirtante con miti culturali in dissolvenza (miti di natura essenzialmente pre-capitalista), e esattamente come l’altro inchiodato nel modus pensandi non dialettico (e non storico) delle coppie binarie del pensiero borghese (vita/forma; Kultur/Zivilisation, ecc.), è forse riuscito ad esprimere un livello più alto di critica al nuovo orizzonte borghese, perché meglio dell’altro è riuscito a delineare la connessione fra il nuovo orizzonte culturale e un capitalismo che non necessita più dell’autorità di valori simbolici (Dio), perché si esprime ora in un principio che si dà come totale assenza di ogni principio; si esprime, vale a dire, nella capacità di gestire quello che Michelstaedter ebbe a definire (ben inquadrandolo nell’ottica dello ‘scambio,’ cioè del valore di scambio) “il sistema della relatività.”
Se l’analisi sintomatica della nuova condizione esistenziale e culturale trova gli autori in un certo qual senso coesi nell’identificazione di alcune tematiche predominanti e fra loro strettamente intrecciate (il declino della nozione delle idee di verità e oggettività; l’impossibilità della forma di contenere in sé il dilagare della vita e delle impressioni contraddittorie del soggetto su questa, e dunque la conseguente entrata in crisi di un’idea ingenua di rappresentazione – anche linguistica – del reale), diversissimi risultano gli approcci e i giudizi riguardo al nuovo orizzonte culturale. Se un Soffici o un Palazzeschi si limitano – pur ad altissimo livello – ad analizzare la questione nei suoi portati intellettuali e teoretici, riscontrando in essi un dato immediatamente positivo rispetto alle ‘astratte’ e sistematiche verità propagate dal diciannovesimo secolo, Boine e Slataper si oppongono a tale prospettiva riconoscendo in essa l’avamposto culturale di una nuova forma di capitalismo che sta definitivamente soppiantando il vecchio, e volgono il proprio sguardo proprio verso quella Verità che il nuovo orizzonte ha posto in crisi. Michelstaedter, infine, non solo riporta la questione teorica al livello della sua socializzazione, ma pure si rifiuta a considerare il problema nei termini di uno scontro fra Verità e nichilismo: per lui le antiche pretese della verità che il nuovo orizzonte culturale ha posto in crisi sono tutt’altro che scomparse; esse non vivono più nelle nebbie suppostamente atemporali della religione o della grande filosofia sistematica, ma sorgono ora dal relativismo stesso, cioè dal consenso, dalla voce della maggioranza a cui il singolo individuo necessita di adattarsi mentre interpreta tale adattamento come sua libera scelta. Ben più difficile a scorgersi delle antiche verità, le nuove vengono ora interiorizzate dall’individuo che le crede proprie, e che le diffonde poi a sua volta in forme di regole etiche (doveri) e di saperi. In tal modo, Michelstaedter è l’unico che riesca a focalizzare anche su due problemi (fra loro strettamente intrecciati) tradizionalmente considerati come nuclei teoretici nevralgici dello stesso Modernismo: il tracollo dell’idea di ‘imitazione’ (vale a dire il decadimento del concetto retorico di ‘modello’) e la conseguente proliferazioni di stili, che è il corrispettivo artistico dell’inarrestabile proliferazione di punti di vista. Per Michelstaedter tale proliferazione è al tempo stesso reale e apparente, perché la decadenza dei modelli tradizionali (cioè dei modelli filosofico-culturali legati all’idea di una Verità possibile) non implica la sparizione del concetto di imitazione, ma riporta quest’ultima nell’orizzonte di un consenso che scaturisce dalla varietà di opinioni in contrasto. Michelstaedter, vale a dire, coglie la necessità delle ideologie di matrice borghese di liberarsi dai residui ideologici di natura feudale per poter continuamente modificarsi (senza ovviamente rinunciare a proporsi comunque come Verità, senza rinunciare alla funzione ideologica), e coglie anche il legame fra il modus pensandi modernista e l’atomizzazione sociale in atto, cioè la necessità di riorganizzare – di razionalizzare – tramite il consenso la stessa disgregazione sociale, culturalmente avvertita come proliferazione di opinioni non più riferentesi a modelli fissi.
Michelstaedter è l’unico in Italia che riesca a considerare il Modernismo come la funzione culturale dominante di una precisa fase storica, e in questo modo infrange le coppie binomiche del pensiero borghese che – su due versanti diversi – ancora ‘bloccano’ i suoi colleghi. Michelstaedter non solo comprende che, pur essendo le norme universali state senza dubbio espressione di un dominio, non è più quello il dominio in gioco (e chi ancora lo prospetta come tale sta, in quello, occultando il proprio), ma pure inquadra in quelle coppie binomiali il senso di uno scontro che occulta la battaglia reale: quella contro chi, epistemologicamente, è in grado di utilizzare nella propria lotta entrambi gli elementi di quei binomi, ed entrambi a suo favore. Sa anzi utilizzare a suo favore la stessa lotta implicita in quei binomi. In ultimo ciò che Michelstaedter registra è che i due versanti del Modernismo presentano, sebbene in modi diversi, un punto in comune: in entrambi è presente la soppressione dell’idea di Storia mediante la soppressione del pensiero dialettico. Il primo versante va infatti a identificare quest’ultimo col pensiero metafisico e come tale lo rigetta, il secondo, rivolgendosi più direttamente a un recupero della possibilità di una Verità, identifica il pensiero dialettico con l’orizzonte della contingenza.
III. Elementi (sparsi) del Modernismo italiano
Nonostante la resistenza di parte della critica all’introduzione del termine ‘Modernismo’ in relazione alla produzione culturale italiana di inizio ‘900, i tentavi messi in atto per riportare quella tradizione nel dialogo, da un lato, con la coeva letteratura europea, e, dall’altro, con la grande filosofia della crisi del periodo in questione, non sono mancati già nella prima parte del secolo. Possiamo ovviamente citare, a mo’ di esempio, i lavori di Giacomo Debenedetti all’inizio degli anni ’20, alcuni scritti di Antonio Banfi dedicati a Simmel e a Husserl, un libro fondamentale, e oggi dimenticato, come La filosofia del decadentismo di Norberto Bobbio. Allo stesso modo, nelle vicinanze del dopoguerra, alcuni critici letterari come Giuseppe Petronio, Leone De Castris e, soprattutto, Carlo Salinari – pur continuando ad utilizzare il termine decadentismo in luogo di Modernismo – hanno cominciato ad analizzare il legame fra la letteratura italiana dei primordi del secolo e ciò che J. W. Burrow, riprendendo una categoria di Lukács, ha definito “The Crisis of Reason,” vale a dire l’entrata in crisi della grande filosofia sistematica di matrice platonico/hegeliana (un binomio che lo stesso Modernismo necessita di istituire) in favore di un paradigma filosofico incentrato, da un lato, su presupposti di natura eraclitea, e, dall’altro, su di un processo di radicale soggettivizzazione della stesse prospettive filosofiche.
Ho pochi dubbi, però, che il vero atto di nascita della riflessione critica sul Modernismo italiano sia rappresentato da Cronache di filosofia italiana (1955) di Eugenio Garin. È qui infatti che per la prima volta la produzione culturale italiana di inizio ‘900 viene presentata in dialogo diretto con quei nodi teoretico-epistemologici che costituiscono l’alveo d’azione della filosofia europea e americana del periodo, in connessione con quel coacervo di problematiche gnoseologiche (contrasto fra vita e forma, immagine della vita come flusso inarrestabile che rifiuta ogni ricomposizione, crisi del linguaggio e della capacità comunicativa, ecc.) che possiamo porre sotto il sintagma emblematico di “morte di Dio,” sintagma che del Modernismo letterario è autocoscienza filosofica. L’analisi di Garin ci fornisce indirettamente quattro punti imprescindibili: 1) il Modernismo italiano non può essere identificato semplicemente mediante riferimento alla produzione letteraria europea (troppo diverse, a cominciare dal rifiuto del romanzo, le premesse della letteratura italiana del periodo): necessitiamo del riferimento a ciò che è alle spalle di entrambi i Modernismi: la grande filosofia della crisi; 2) i ‘nomi’ che servono sono tutti presenti negli autori in questione: non solo i consueti Nietzsche, Bergson, William James, ma anche Ernst Mach, Boutroux, Weininger, ecc.; 3) le tematiche moderniste non si limitano agli ‘eccezionali’ Pirandello, Svevo, Gadda e Tozzi, ma sono diffuse nella maggior parte degli autori del periodo; 4) la crisi modernista, come spiegato da Lukács, si presenta in primo luogo con i connotati di una crisi epistemologica riguardante la teoria della conoscenza.
Cominciamo allora vedendo qualche esempio di come questa crisi si espresse negli autori del modernismo italiano.
Comincia naturalmente Papini, addirittura nel 1902, e subito chiarendo – stante il suo Berkeley e il suo esse est percipi, fonte segreta ma imprescindibile del “gruppo di giovini” riuniti attorno alla rivista Leonardo (1903-1907), – come la nuova ottica epistemologica sia legata a filo doppio a quella prospettiva psicologista e soggettivista che anche in Europa sta prendendo il sopravvento:
"La classificazione richiede sempre un lavoro di semplificazione o di riduzione. Se la mente accettasse tutte le rappresentazioni così come le riceve, le sarebbe praticamente impossibile sistematizzarle in una struttura ordinata, tanta è la multiforme varietà dei fenomeni. C’è bisogno che la mente attenui o dimentichi certi lati, e ne ingrandisca altri".
E un anno dopo: “Io posso in me stesso provocare cambiamenti meravigliosi solo modificando i punti di vista e i piani di conoscenza (…). Il pensiero è un gioco”. Letta La teoria psicologia della previsione, Giovanni Vailati scriverà a Papini segnando l’atto di nascita del pragmatismo italiano.
Ad avanzare è la figura del “viandante” nietzschiano, “l’uomo in grado di trovare la propria gioia nel mutamento e nella transitorietà”, colui che riconosce nel crollo del sistema valoriale e nella trasformazione della realtà in un irricomponibile ‘flusso’ i necessari step per la rivolta della Vita rispetto a tutto ciò che pretende l’immobilizzazione di questa in forme definite: “son papiniano, son nietzschiano”, scrive Ungaretti a Pea. Il crollo dell’equazione fra forma e significato, fra segno e sostanza, l’attacco ad ogni oggettività non disposta a riconoscersi come momento transitorio, la conseguente entrata in crisi della nozione classica di Soggetto e, ancora, dello strumento destinato ad esprimere – in forme stabili – questo e la sua relazione col reale: il linguaggio. Che poi il modello di riferimento di questa nuova prospettiva sia davvero Nietzsche è problema tutt’ora aperto. Vi è qui comunque da fare una distinzione: da un lato, in ambito simbolista e decadente (in Italia si può fare il nome emblematico di D’Annunzio) Nietzsche è utilizzato in un’ottica ancora ‘wagneriana’ e riportato ad alcuni elementi isolati della sua speculazione (il ‘superuomo,’ il dominio sul gregge, l’antidemocraticismo, la funzione salvifica dell’arte, etc.); in ambito già compiutamente modernista, invece, la separazione fra Nietzsche e Wagner viene compiutamente registrata, ma Nietzsche passa ad essere preso a campione di una serie di problematiche che, benché certo parte del suo discorso, sono proditoriamente piegate – da un lato – nella direzione scettico-relativista (e intuizionista) della “filosofia della vita” e, dall’altro, nel ‘convenzionalismo’ proprio delle teorie di Ernst Mach, di William James, di Hans Vaihinger e di molti altri (si pensi in Italia a Giovanni Marchesini).
Tale prospettiva è comunque condizione egemonica di partenza per un’intera generazione: anche autori assolutamente non disposti a condividere l’entusiasmo dei giovanissimi Papini e Prezzolini per questo stato di incertezza scettico-relativista in cui tutto sembra possibile, sono assolutamente costretti a farci i conti.
Si guardi cosa scrive Carlo Stuparich:
"Chi è senza nodi oppositori cede alla sfaldatura, ci si adatta e risolve così la vita (tipo Soffici – suo concetto dell’artista clown dilettante): il suo carattere è la forza di aderire ai diversi piani. Chi ha un nodo centrale resiste dolorosamente alla tendenza di sfaldatura e con uno sforzo angoscioso tende a concentrare, a neutralizzare le forze di disgregazione, a far precipitare tutte le tensioni molecolari nel suo centro. Il dramma della società moderna. La forza centripetale ordinatrice degli elementi caotici, che era la fede religiosa, si è dissolta. – Sforzo dell’unità individuale."
Quello a cui assistiamo anche in Italia è stato definito in vari modi, ed è probabilmente impossibile trovare una determinazione riassuntiva che non sia appunto quella di “morte di Dio”. Ibsen personificò il problema in Peer Gynt, Otto Weininger vi diede il problematico nome di “femminilizzazione”; Hugo von Hofmannsthal e Thomas Mann lo incentrarono nel concetto di Zivilisation. In anni vicini Massimo Cacciari vi ha dato il nome di Krisis; Claudio Magris ha parlato di separazione fra Vita e Totalità; recentemente Guido Mazzoni (Teoria del romanzo), analizzandone gli effetti sul piano della letteratura romanzesca, ha giustamente parlato di progressivo slittamento verso la mimesi della contingenza. Bergson, in un passo proprio da Papini tradotto nel 1910, lo annunciò così:
"la nostra intelligenza (…) non concepisce e non esprime il movimento che in funzione dell’immobilità Tutta questa filosofia che comincia da Platone per finire a Plotino è lo sviluppo di un principio che noi formuleremo così: «C’è di più nell’immobile che nel mobile (…)». la verità è il contrario."
Al di là della definizione, è l’atteggiamento rispetto a tale nuova condizione gnoseologica a determinare subito una frattura nello stesso orizzonte modernista. Vi sono due Modernismi: uno disposto ad accettare come liberatoria la nuova condizione, disposto – ha detto Mazzacurati scrivendo di Pirandello – “ad estrarre l’antidoto dal veleno”; uno costretto ad operare nella condizione egemonica di questa ma non disposto ad accettarla come dato positivo. È non a caso il neo-kantiano Giovanni Amendola (filosofo di riferimento per tutti i cosiddetti “moralisti vociani”) a comprendere subito – è il 1907 – quanto sta succedendo: “Prometeo ha cessato di esistere al momento della sua liberazione”. Amendola coglie i paradossi connessi alla destrutturazione dei tradizionali paradigmi metafisici. Registra l’apparizione di un Soggetto che, affrancatosi dai ‘modelli,’ non crea da sé la propria legge, ma passa a dichiarare l’arbitrarietà di ogni legge. “Questo nuovo soggetto non è Prometeo: è Proteo”. Tre anni dopo, a Heidelberg, un altro kantiano, Wilhelm Windelband, denuncia il progressivo slittamento del kantismo di Georg Simmel verso la “filosofia della vita” di matrice bergsoniana, ribadendo la necessità di una resistenza morale. “Noi siamo quelli per i quali Kant è esistito” gli fa eco il Prezzolini, divenuto idealista, dalle pagine della Voce, e intende naturalmente il Kant della Ragion Pratica.
Il contrasto fra Boine e Soffici (quel Soffici che Renato Serra aveva definito “una cosa fluida” e che in effetti scriveva: “La vita è una fluenza vittoriosa, senza dove, né come, né perché, e che va travolgendo le turate che noi tentiamo di farle con le nostre morali”) è uno degli esempio che chiarificano al meglio la questione e identificano il lato egemonico. Le citazioni in tal senso da Soffici sono innumerevoli e cominciano almeno dal 1907, vediamone un paio a mo’ di esempio:
"Gli altri uomini hanno sempre avuto bisogno, per vivere, di appoggiarsi a qualche cosa che fosse ferma e stabile. Gli uni si sono appoggiati a Dio, gli altri alla Ragione che è un’altra sorta di dio, altri infine al dovere sociale. Io do un calcio a tutte le basi, butto via tutti i puntelli e resto solo, in bilico su un filo di ragno, sopra un abisso buio. […] Ed io sono felice. Come l’essere e il non essere si risolvono nel divenire, […] in un flusso rapace di gioia."
E in polemica con Jahier: “Leggi Nietzsche, amico […], se vuoi vedere come si pensa quando s’è fatto un tuffo nel Nulla e si ha la fortuna di ritornare a galla con il cuore pieno di gioia. […] l’uomo al cui spirito dobbiamo, tutti, la nostra coraggiosa riconciliazione col mondo.”
Thomas Mann ha scritto che dopo Nietzsche la Vita diventa il concetto chiave in tutte le interpretazioni del mondo. E qui Vita significa appunto assenza di Fondamenti stabili, o, sempre nelle parole di Soffici, “accettazione del mondo, gaia scienza dell’uomo guarito dal male delle trascendenze”. Boine ha subito chiaro il punto perché anche la reazione alla prospettiva modernista (che pure è Modernismo) è costretta ad operare nei presupposti di partenza di quella, e magistralmente interpreta la propria differenza da Soffici come contrasto fra ‘fondare’ e ‘diffondersi’: “Si direbbe che la vita gli giunga dal di fuori scorrendo per gli idillici rivi dei sensi. […] Ma la bellezza no, la bellezza non ti sperde: ti fa, ti rinsalda. Codesto scetticismo […] codesta spensierata frammentarietà, questo epifenomenismo mediterraneo di colori e di vita”. Ma ecco il cambio, un cambio che pare una vacanza dall’angoscia espressionista ed è invece – Boine finirà convinto nietzschiano – rivelazione di quale fra i due fosse, durante la Belle Époque, il presupposto egemonico: “Eppure stamattina sul Giornale di bordo che sfoglio ci batte un sole giovane. Scorrono via le pagine e le imagini, e son tutte belle. […] così come viene, così come capita; così gioiose di ciò che fugge.” “E come potevo fermare ciò che trovai preparato a fuggire”, gli fa eco Palazzeschi nel frammento di romanzo intitolato… Vita.
Siamo al centro di ciò che la critica italiana ha tradizionalmente definito come contrasto fra “irrazionalismo fiorentino” e “moralismo vociano”. Tale divisione (così descritta da Emilio Cecchi proprio in una lettera a Boine: “pensano che il nostro moralismo sia una cosa più ingenua di quel loro nichilismo da franjaie”), la necessità dolorosa di un ubi consistam contro ciò che lo stesso Amendola definisce “la sfrenata libertà del particolare,” ha a mio giudizio ragione di esistere, ma va intesa, da un lato al livello dei modelli artistici di riferimento (per esempio, e si perdoni il taglio con l’accetta: Péguy, Rolland, Claudel, l’Ibsen di Slataper o l’Unamuno del primo Boine vs Apollinaire, Cendrars, De Gourmont, etc.), e dall’altro al livello delle tradizioni filosofiche, con da un lato il già citato Berkeley, Schopenhauer, il pragmatismo, Bergson, Mach e Poincaré, la filosofia della contingenza, e dall’altro il pensiero di matrice religiosa, il neo-kantismo austro-tedesco, le prospettive reazionarie anticapitaliste come quelle di De Maistre e di De Bonald.
Il Modernismo, come da molti ribadito, non è semplicemente un insieme di tecniche di carattere narrativo, ma è invece espressione di una determinata tendenza culturale che prendendo le mosse da alcuni elementi pertinenti al Romanticismo (a cominciare dall’attacco all’idea di oggettività/autorità e dalla contemporanea richiesta di valori qualitativi) – e socialmente connettendosi ad alcune determinanti trasformazioni storiche che pongono in crisi il modello sociale pre-tayloristico (suffragio universale, emancipazione femminile, inurbamento massiccio, sviluppi tecnologici) – si esprime come messa in crisi dei concetti di tradizione e imitazione, facendosi al contempo mimesis del caos e tentativo di oltrepassamento ‘artistico’ di questo.
Ma il Modernismo pure ha, come detto, una propria logica formale come ‘sistema’ della contraddizione. Sentiamo Pirandello: "Un umorista potrebbe raffigurare Prometeo in atto di considerare malinconicamente la sua fiaccola, e di scorgere in essa la causa fatale del suo supplizio. Egli s’è finalmente accorto che Giove non è altro che un suo vano fantasma, l’ombra del suo stesso corpo che si proietta gigantesca a causa appunto della fiaccola che egli tiene in mano. A un solo patto Giove potrebbe sparire, a patto che Prometeo spegnesse la sua fiaccola. Ma egli non sa, non vuole, non può; e quell’ombra rimane, paurosa e tiranna, per tutti gli uomini che non riescono a rendersi conto del fatale inganno."
Siamo cioè di fronte ad un’ontologizzazione della Krisis che si presenta come condanna di qualsiasi ragione che sia creatrice di forme, che mortifichi cioè il flusso vitale (un flusso che, come gli intellettuali del periodo si affannano a ribadire, di dialettico non ha più niente) in costruzioni definite. Ma non è Prometeo: è Proteo! È una dissoluzione ‘soggettiva’ di un’oggettività considerata sulla base delle stesse istanze soggettivistiche. È questo che Lukacs definisce “distruzione della ragione”: non si tratta, come la critica marxista italiana (e non solo italiana), ha voluto presentarlo, inevitabilmente preparando la reazione e aprendo suo malgrado la via alla dimenticanza di quel libro, di misticismo o volgare scetticismo. “Irrazionalismo” significa proprio dimenticare, direbbe Novalis, che “dove non esistono gli dei, governano gli spettri,” e tali spettri, come comprende da noi Michelstaedter, non sono le ‘forme’ del pensiero, non sono un presupposto biologico/gnoseologico della mente che ‘conosce’ (“una malattia del cervello”, le chiama Soffici), sono invece le forme del consenso: le forme, vale a dire, di prospettive culturali (siano esse epistemologiche o morali) che sono in rapporto dialettico con una prassi sociale. Finché consideriamo il Modernismo solo come una battaglia di idee (finché lo consideriamo modernisticamente!), sarà inevitabile glorificarlo rispetto alle anguste metafisiche materialiste dei positivisti: nel Modernismo dovrà invece essere vista la logica culturale di una precisa fase storica. La distruzione delle norme dell’oggettività nasconde la mistificazione di un’oggettività costruita sul ‘tempo’ che può reificarsi tanto nella prospettiva epistemologica di una Verità impossibile quanto nelle forme ‘morali’ che a questa si oppongono in funzione subalterna. L’Essere non scompare, ma riappare ad oggettivare come verità, di volta in volta diversa, il molteplice. Qui le due vie che abbiamo visto si ricompongono, perché è sempre il consenso ad essere socializzato in forme culturali come Valore. Un consenso che può servirsi tanto del relativismo quanto della Verità, a patto di mantenere entrambi distanti dalla loro relazione con l’accadere storico-sociale che li significa.
Allo scoppio della Grande Guerra, Bergson attacca il militarismo prussiano con gli strumenti della filosofia della vita e incita alla “slancio vitale” delle truppe francesi, Simmel recupera la prospettiva kantiana (e Amendola da noi parla di “prova morale”) per significare il conflitto come superamento della cultura ‘scettica’ del denaro; e Thomas Mann sposta gli orrori della Zivilisation oltreconfine. In Italia, laddove Giuseppe Rensi identifica il conflitto come orizzonte insuperabile ed eterno delle contraddizioni (se tutte le opinioni in contrasto hanno uguale valore la guerra è inevitabile), Soffici chiama i fanti al ‘gioco’ modernista della guerra e, dall’altro lato, Arturo Stanghellini spiega cosa è il kantismo di guerra: “Ecco, le parole, «Dovere» e «io esigo» le ho viste ferme nel sole come se fossero scritte in lettere maiuscole, così incisivo e caldo di persuasione è stato l’accento del colonnello.”
L’autonomia di un giudizio che ora gli intellettuali stanno immaginando come possibilità di agire più facilmente, grazie al conflitto, su una sovrastruttura che determinerebbe la struttura (e l’apoteosi di tale autonomia mediante una guerra presentata come scontro di civilizzazioni, di culture), rivela la china verso un ‘consenso’ che mirava, in entrambi i casi, a porre nella teoria – sia l’apoteosi del nichilismo o la disperata e angosciosa ricerca di una Verità – lo spazio della disalienazione. Ma la questione è storica: le due strade, pur diverse, lavorano congiunte. Con la Grande Guerra, e poi con i vari fascismi, i rapporti di forza chiaramente si rovesciano, cambia l’egemonia (Palazzeschi muove verso Dio e gli Uomini, Soffici verso il Duce e gli eterni valori dell’Italianità), la precedente prospettiva scettico/epistemologica viene ad assumere valore critico, ma è l’erosione da essa messa in atto della realtà oggettiva (che vuol semplicemente dire di una cultura che si riconosce in rapporto dialettico con l’accadere sociale) ad aver preparato il terreno ai miti che ora sorgono, e, primo fra tutti, l’idea tipicamente intellettual-fascista che il mondo si cambia cambiando anzitutto le coscienze.
Come scrive un lucidissimo Malaparte nel 1921:
"Le concezioni della vita ampie e sicure si erano sgretolate, divorate dal particolare. La lebbra del «frammentario» mordeva le basi della società, filtrava attraverso le coscienze, intaccava gli scenari immobili della vita […], tutto ciò che giace in ginocchio sotto il peso dell’inutile, del piccolo, del frammentario e del cronologico, si rialza in piedi per riaffermare la sua forza."
E poi nel fatidico 1922: "Ci ribelliamo ormai a far dipendere il nostro grado di potenza e di autorità dal grado di sviluppo delle nostre industrie, dal possesso delle materia prime, dalla quantità della produzione, dai giochi e dagli equilibri di borsa."
Il ritorno, mediante il Fascismo, a un pensiero della Verità, può finalmente presentarsi, dopo la smantellamento della prospettiva storico-dialettica messa in atto dal Modernismo, come del tutto estraneo ad una connessione con i riscontri economico-sociali. Sedato il pericolo di una cultura realmente materialista, gli intellettuali fascisti possono ora presentare il pensiero modernista come espressione della ‘borghesia’ a cui, in teoria, si oppongono.
IV. Conclusione
Nell’ottobre 1936, in un’intervista concessa a Cavicchioli per la rivista “Termini,” Pirandello fa tre nomi sorprendenti: pone insieme Nietzsche, Weininger e Michelstaedter come coloro che furono “spezzati” dal tentativo di tenere insieme “forma” e “sostanza.” Il giovane goriziano è posto fra il principale accusatore del platonismo, inteso come creazione di un mondo ‘irreale’ in cui si situerebbe l’ontos on (significando, in opposizione a questo, l’emergere dello spazio egemonico Modernista nella linea dell’abbandono della Metafisica e dell’Assoluto verso “l’innocenza del Divenire”), e il maggiore interprete del tentativo tragico di riattivazione di quel mondo nel nuovo orizzonte della temporalità: il grande interprete, vale a dire, della versione neo-kantiana della prospettiva platonica. Tutti e tre gli autori, per il Pirandello difensore della Vita contro le ‘forme,’ sarebbero in fondo dei ‘cercatori d’Assoluto,’ psicologicamente dominati da stirneriane “idee fisse” e, dunque, destinati a soccombere in una realtà che non concede ‘ricomposizioni’ di sorta, se non nella ‘finzione’ di un sistema operativo di pensiero che di quelle si serve per muoversi nel reale, per dominarlo tramite una razionalità depotenziata e cinica.
Asserire, come fece anni orsono Debenedetti, che in Michelstaedter (come in Pirandello) assistiamo alla crisi del soggetto unitario/naturalistico, e soprattutto affermare, come fecero Garin e Salinari, che Pirandello e Michelstaedter furono gli autori che meglio riuscirono a cogliere le problematiche epistemologiche del loro tempo, cioè gli autori che, più di altri, introdussero nel paese le tematiche moderniste prima dell’affermarsi dell’egemonia idealistica, non significa dunque – come oggi qualcuno afferma – porli sullo stesso piano. La prospettiva modernista di Pirandello, ponendo a livello ideologico la dissoluzione della totalità del reale in frammenti all’apparenza irricomponibili muove infatti inconsapevolmente all’unisono con la ristrutturazione lavorativa/produttiva del mondo borghese che si esplica nelle nuove forme della ‘specializzazione,’ fenomeno cui si accompagna la crescente meccanizzazione razionalistica del processo lavorativo e il conseguente sviluppo dell’atteggiamento contemplativo del soggetto nei confronti di quello. Non è un caso che il siciliano legga questo fenomeno come, direbbe Marx, se la realtà fosse passata dai libri nella storia, come se fosse stata la rivoluzione epistemologica a produrre il cambiamento del reale e non viceversa, e infatti in quella cerca di risolvere (di razionalizzare) la questione dell’inautenticità della vita: cerca di risolvere la crisi dell’Erlebnis, la crisi del simbolico, come simbologia dell’assenza di quello, in ciò creando una nuova forma di Erlebnis. In tal senso il suo Modernismo diviene immagine perfetta del reale, perché il suo pensiero si salda ‘contemplativamente’ alla realtà del mondo che nell’azione borghese si vuole esprimere ‘astoricamente.’ Michelstaedter, invece, rifiutando questa organicità (che è poi un rifiutare organicità alla propria classe d’appartenenza), passa a giudicare l’intera struttura sociale nei termini di alienazione: rifiuta (questo il punto!) l’approccio teoretico/epistemologico e, riconoscendolo parte integrante del problema, apre a una reale valutazione di questo ponendolo in un rapporto doppiamente determinato con la società.
Michelstaedter, voglio dire, è come i suoi coetanei parte del Modernismo in quanto egemonia culturale del suo tempo, della crisi delle stabili certezze di realtà, pensiero, ego, linguaggio (entrata in crisi della possibilità di assumere il reale nei simbolismi dell’Io), ma ne è al contempo la coscienza negativa, il momento in cui non solo la strada dell’accettazione del ‘flusso’ (gioia dell’innocenza eraclitea oltre le forme) viene rilevata come impianto ideologico, ma anche ciò che ad essa si oppone, i vari tentativi del pensiero borghese di ricostruirsi un fondamento stabile che operano in Boine, in Jahier, in Slataper, si rivelano parte della stessa operazione culturale, cioè parte della stessa struttura astrattiva che ripercuote, nella ‘teoria’ che la disgregazione ‘ristabilizza’ (razionalizza), le forme del dominio.
Michelstaedter comprende che la crisi della razionalità classica (la sua impossibilità a porsi come Natura: ciò che l’orizzonte nichilista ora effettivamente rivela) si riverbera come capacità di occultamento di un pensiero a fondamento naturale tanto nelle ideologie disposte a lasciarsi alle spalle il feticcio dell’Essere, tanto nelle ideologie a fondamento religioso o etico che finiscono per essere parte di una struttura in cui l’Essere è comunque relativizzato ed esperito come ‘essere sociale,’ reificato in ‘teoria’ come Verità del momento ideologico che la società esprime e pone in atto come ‘consenso.’ Le coppie binomiche del pensiero borghese (Vita/Forma; Kultur/Zivilisation) qui si infrangono: Michelstaedter le vede lavorare all’unisono alla preservazione di uno status quo di natura sociale; le vede, vale a dire, come dirette dall’ambiente sociale in cui si originano. Il goriziano comprende che l’orizzonte della specializzazione (la perdita della visione della totalità che abbandona la realtà in frammenti rendendo irricomponibili i diversi punti di vista di esseri umani sempre più atomizzati) e l’orizzonte della razionalizzazione (la necessità sistemica di ricomporre questi punti di vista in un’astrazione meccanizzata sempre più prevedibile e calcolabile) lavorano insieme. Michelstaedter, posto dinnanzi alla trasformazione della Sostanza in funzione/finzione (decadenza Modernista del concetto di Verità), non solo rifiuta di considerare quella funzione come Sostanza, non solo rifiuta la possibilità cinica di servirsi di quella funzione ‘come se’ fosse una Sostanza, ma pure individua, nel pensiero teso a ricostruire, teoreticamente, l’antica idea di Sostanza, un meccanismo portato ad impiantare, nello sfondo mobile e malsicuro della temporalità, un Essere come astrazione, collante di una coesione sociale che solo in quest’ottica alienata può esprimersi e perpetrarsi come tale, impiantandosi nel cuore degli uomini: "le leggi per mezzo del calcolo, astratte dalle necessità, proclameranno; gli altri dalle proprie necessità, per calcolo al sistema organizzato delle necessità si uniformeranno. In […] quella vita ridotta che l’astrazione ha determinato, sta la condizione d’esistenza del sistema delle astrazioni."
Tale realizzazione teoretica dell’universale nel particolare è la necessaria espressione ideologica della società borghese vissuta come appercezione del mondo: la frantumazione di questa nella datità di una tassativa forma fenomenica che si esprime in sistemi parziali sempre più astratti e razionalizzanti.
Nel momento in cui Michelstaedter comprende come la modernità sia caratterizzata dall’uso reale (non soggettivo, non ‘idealistico’) delle potenze dell’astrazione (che sono potenze ben diverse da quelle della Metafisica), neppure si tratta più di scegliere fra la strada dell’Universale e quella del Particolare, fra l’Uno e il molteplice, perché tutto ciò che da qui è prodotto, non è il ‘particolare’, la sua relativistica tolleranza che oggi tanti critici letterari esaltano leggendo, ad esempio, l’Umorismo: è l’astrazione del ‘particolare’ nelle forme mimetiche proposte dal grado ideologico dalla società raggiunto.
Il Modernismo letterario deve essere rilevato (in Italia come altrove) in connessione con la grande “filosofia della crisi”, ma questa deve a sua volta essere riportata al proprio ruolo storico oltre il trionfo dell’approccio epistemologico. Se tale ruolo storico verrà ignorato, tanto il Modernismo quanto la sua analisi odierna risulteranno la propagazione mimetica di tale grado ideologico. È quello che sempre Michelstaedter intende quando scrive che allora non potremo non obbedire perché avremo già obbedito.

[1] Col termine Modernismo, come ben noto, si è indicato in Italia (e non solo in Italia) un esteso tentativo di riforma della Dottrina e delle istituzioni ecclesiastiche. I due Modernismi hanno in realtà numerosi punti di contatto, ma l’analisi di questi ci porterebbe troppo lontano dal topic di questo intervento.
Questo breve intervento si inserisce invece in quella tradizione critica volta a identificare l’esistenza di un Modernismo italiano che, principiata con Modernismo/modernismi (edito da Giovanni Cianci), ha recentemente trovato nuovi contributi grazie a, fra gli altri, Luca Somigli e Mario Moroni (Italian Modernism) e a Romano Luperini, Massimiliano Tortora e Raffaele Donnarumma (Sul Modernismo italiano).

Fonte: leparoleelecose.it 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.