La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 22 dicembre 2016

Trump e la rivolta delle élite contro il popolo

di Loris Caruso
A un mese dalle elezioni negli Stati Uniti, si è sedimentata nel senso comune – avviata dai media – la convinzione che la vittoria di Trump sia stata dovuta, soprattutto, al voto delle classi popolari. La classe operaia bianca colpita dalla deindustrializzazione, i disoccupati e le classi medie impoverite sono stati da subito al centro dei commenti post-elettorali. Si sarebbe trattato di una rivolta dei ceti medio-bassi contro il binomio vecchia politica-Wall Street rappresentato da Clinton. In questo senso, il voto americano avrebbe lo stesso segno sociale di quello inglese per il Brexit e del recente voto italiano al referendum costituzionale.
Questi fenomeni vengono ripetutamente definiti “rivolte anti-establishment” e sono accostati tra loro per la centralità del voto popolare.
I temi in questione sono dunque due. Il primo è se sia vero che la vittoria di Trump negli Usa sia da ricondurre al comportamento elettorale delle fasce sociali a reddito medio-basso. Il secondo è quali sono i motivi per cui i principali media occidentali sono così convergenti nel dare a questi fenomeni una rappresentazione insistentemente – quasi ossessivamente – univoca.
Siamo su un terreno molto accidentato e ambiguo, dove il rischio di manipolare i dati della realtà è forte. I grandi mezzi di comunicazione, da noi e Oltreoceano, stanno facendo due parti in commedia. Prima delle elezioni rappresentano il conflitto come una polarizzazione tra civiltà democratica e barbarie. Subito dopo, se l’esito non è quello che auspicavano, fanno mea culpa, lamentano di non aver compreso il mondo e di non essere più influenti come un tempo sull’opinione pubblica, e attribuiscono interamente alle classi popolari gli esiti di processi compositi, ponendole al centro di analisi da cui le avevano completamente escluse.
Se la politica cambia, così, è per merito o per colpa delle classi popolari. In questo modo, indirettamente, mezzi di comunicazione posseduti dal grande capitale finanziario (che partecipa in vari modi a tutti i più importanti mezzi di informazione del pianeta), approdano inaspettatamente a una comprensione dei conflitti politici quasi-marxista: la contrapposizione di classe è il motore della politica. Un marxismo rovesciato, però. In questo caso, alle classi popolari viene attribuita sempre e solo la vittoria delle destre. Meglio se radicali, xenofobe e fasciste. Anche quando il voto «anti-establishment» è socialmente e politicamente eterogeneo, come nel caso del No alla riforma costituzionale in Italia, si forza una lettura riduzionistica che lo riconduce interamente alla mobilitazione della destra, ai populismi e a una cieca rivolta anti-élite di settori popolari incapaci di votare in base al merito della riforma, quindi mossi esclusivamente dall’odio e della rabbia.
Si lanciano così due messaggi. Uno: quando il popolo vota e agisce produce questi effetti, vincono le destre radicali, i populismi ed emozioni generiche e puramente oppositive, mentre perdono la democrazia e la razionalità. Due: solo la destra conosce e intercetta il popolo. La destra è abile, radicata, capisce gli umori collettivi, usa bene la Tv, è geniale con i social media. Quando il voto popolare si presenta invece come determinante per l’ascesa di qualche sinistra – Sanders, Syriza, Podemos – il popolo torna a sparire dai radar. La vittoria è attribuita alle «classi medie colte» e alle borghesie progressiste. La clemenza mostrata dai media con i Trump, le Le Pen, i Salvini, i Grillo (“dobbiamo capire il fenomeno”), torna a essere pura opposizione viscerale. Per il popolo e per i suoi rappresentanti.
Il voto popolare è stato determinante nella vittoria di Trump? In base agli exit poll di Edison Research e all’analisi approfondita L. Zamponi su ilcorsaro.info, si può dire di no. Il quadro che emerge da questi studi è completamente diverso da quello che ha dominato i commenti post-voto ed è diventato senso comune. La vittoria di Trump è massima tra i ceti medio-alti. Tra chi ha un reddito inferiore ai 30.000 dollari, Clinton ha preso il 53% e Trump il 41. Nell’elettorato tra i 50 e i 100.000 dollari, Trump ha vinto 50 a 46. Tra i ricchi (più di 100.000 dollari) sono quasi pari, ma ha vinto Trump: 48 a 47. La vittoria di Trump negli stati ex industriali del nord-est (la famosa Rust Belt), è un fatto importante. Ma non è sufficiente a considerare quello a Trump un «voto di classe», e il voto a Trump in quegli stati sembra più un voto rurale e provinciale che un voto operaio. Trump ha preso i voti della destra americana, dentro e fuori dal Partito Repubblicano. Al contrario, Hillary Clinton era e si è dimostrata del tutto inadeguata a mobilitare l’elettorato di sinistra. Questo è il punto all’origine dei risultati elettorali. In questo ci sono anche, sicuramente, ragioni «di classe». Ma non nel senso che le classi popolari abbiano tributato un’ovazione a Trump. Piuttosto perché, tra le fila democratiche, hanno preferito astenersi invece che votare una candidata che percepivano – giustamente, vista la sua storia – come una propria avversaria.
Ci vogliono inoltre molta buona volontà e fantasia per definire Trump una figura «anti-establishment». Trump è stato sicuramente un formidabile catalizzatore di sentimenti anti-partito e anti-classe politica, soprattutto all’interno del Partito Repubblicano. Su questi sentimenti le classi popolari possono benissimo proiettare anche un feroce odio di classe verso i privilegiati, Wall Street, le élite intellettuali. Ma che rapporti ci sono tra Trump e le élite?
Le élite sono un insieme plurale e conflittuale di gruppi sociali. Questi possono essere in conflitto tra loro, e in ogni settore alcune componenti possono essere in conflitto con altre. Che rapporti ci sono tra l’imprenditore Trump e le imprese dei settori tradizionali? Dando per scontato che il mondo Clinton-Obama sia il rappresentante politico della digital economy (Twitter, Facebook, Amazon, eccetera), quali sono le relazioni di Trump con il mondo dell’immobiliare, delle infrastrutture, dell’energia, dell’industria pesante, del settore militare-industriale? E con pezzi di Stato e di sistema politico? L’Fbi ha sostenuto quasi apertamente Trump. Che fine hanno fatto gli antichi, e silenziosi, Neo-con? Uno di loro farà parte del governo Trump. I nomi che circolano sul futuro governo confermano l’esistenza di un insieme di relazioni tra Trump e questi settori dell’élite economica, politica e statale degli Usa. Compreso l’esercito, che sarà presente nel governo con ben 3 esponenti. Così come la reazione delle Borse dice che Wall Street non è affatto spaventata da Trump. Era Sanders a spaventarla. Il governo Trump sembra una sorta di “Bushismo” e di neo-conservatorismo con altri mezzi.
In Usa, in Europa e altrove, è in corso una rivolta del popolo contro le élite, che si esprime soprattutto per via elettorale. Questo è un fatto innegabile e, per chi prova a lavorare a un’alternativa alle politiche neoliberiste, positivo e indispensabile. Non può esistere una sinistra che non intercetti questo senso di rivolta, anche quando si presenta in forme estremamente spurie.
Ma esiste anche una poderosa rivolta dell’élite contro il popolo. I due processi devono essere sempre guardati insieme, perché sono sempre fortemente interrelati. Nel Settecento e nell’Ottocento la borghesia in ascesa utilizzava il popolo per affermarsi contro le classi tradizionali. Una volta vinto questo conflitto, si concentrava a reprimere il popolo politicamente organizzato. Le élite contemporanee stanno facendo la stessa cosa, in questa fase di strisciante rivolta elettorale populistico-democratica che ridisegnerà interamente forme della politica e istituzioni. Il popolo e il populismo vengono usati dall’élite per ridisegnare le istituzioni in senso a-democratico. Per fare questo, possono anche servirsi del nazionalismo, del razzismo e dell’autoritarismo di figure come Trump. Per questo il popolo è posto al centro della scena. La nuova configurazione delle istituzioni politiche deve essere legittimata: la vuole il popolo. Ma questo popolo è al contempo responsabile dell’ascesa dei barbari. È ignorante, incivile, pericoloso. Una volta compiuta l’operazione, si può tranquillamente ricominciare a escluderlo e colpirlo, con le élite di nuovo felicemente compatte.
Nello stesso tempo, però, si è creata una dinamica conflittuale e contraddittoria, dagli esiti imprevedibili e non per forza reazionari. Non è più possibile – soprattutto per chi voglia lavorare a un’alternativa alle politiche attuali – fare politica al di fuori di questo magma.

Fonte: eticaeconomia.it 

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