La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 22 aprile 2017

Le lotte antirazziste a un anno dalla Loi Travail

di Davide Gallo Lassere
La mobilitazione della primavera 2016 è iniziata con la contestazione della Loi Travail per assumere immediatamente una portata molto più ampia e generale, che è sembrata andare ben aldilà della Loi Travail. Ciò non tanto perché la Loi Travail non sia qualcosa di importante o perché la contestazione di questa legge sia rimasta marginale nel movimento, bensì per due altre ragioni. Innanzitutto, perché questa legge si salda perfettamente con l’insieme dei rapporti sociali esistenti; perché fa sistema con il quadro normativo e istituzionale del presente francese, e più largamente del presente europeo (si può sostenere che, un anno fa soltanto, questa legge potesse essere considerata come l’anello mancante dell’attuale regime europeo del salariato).
E in secondo luogo, il legame tra Loi Travail e questo mondo, e dunque tra critica della Loi Travail e critica di questo mondo, è coerente perché, oggi più che mai, il lavoro è diventato pervasivo: vi sono state, a partire dalla svolta degli anni ’70, un’estensione e un’intensificazione molto avanzate della messa al lavoro dei soggetti e della valorizzazione in termini capitalistici del sociale rispetto a quanto accaduto in epoche precedenti.
Ci si è perciò resi conto rapidamente - e a ragione - che non è soltanto la Loi Travail che pone problema, ma che è il mondo, di cui la Loi Travail è la punta di diamante, che deve essere criticato. Tale mondo è il frutto del processo di ristrutturazione scaturito negli anni ‘70 in reazione alle lotte operaie e ai movimenti sociali dell’epoca. Si è trattato di una vera e propria “rivoluzione dall’alto” messa in atto dalle classe dominanti, a colpi di innovazione tecnologica, di innovazione organizzativa, di delocalizzazioni ecc. al fine di ristabilire il governo sul sociale e di rilanciare l’accumulazione del capitale. Aldilà della repressione, l’offensiva dei movimenti sociali degli anni ‘60 e ‘70 è stata infatti domata e sconfitta anche grazie all’intelligenza del capitale, che ha saputo rinnovarsi e ristrutturarsi. L’innovazione sociale e la riconfigurazione degli assetti economici, però, sono andate di pari passo con una profonda riorganizzazione della forma-Stato. Abbiamo assistito, a partire dalla metà degli anni ‘70, a due processi paralleli, che sono culminati con la crisi del 2007-08: da un lato una profonda precarizzazione del lavoro, e dall’altro un accentuarsi delle tendenze autoritarie insite nelle democrazie liberali: Loi Travail e Etat d’urgence in Francia, JobsAct e decreto Minniti in Italia, i memorandum e l’esautoramento del parlamento prima, del governo poi e del referendum infine in Grecia. Ed è in seno all’UE che questi processi si sono acutizzati e manifestati in modo particolarmente violento: violenza del capitale e violenza dello Stato, violenza economica e violenza politica. Ossia processi di precarizzazione e impoverimento, di una nuova grande trasformazione del mondo del lavoro appunto; e processi di de-democratizzazione, processi di post-democratizzazione o di egemonia crescente di forme di governo impermeabili a qualsiasi istanza proveniente dal basso.
Questi due processi - anti-sociali e reazionari, o “estremisti di centro” per dirla con Balibar - hanno determinato il passaggio dal controllo dei soggetti tramite il welfare, a un controllo che articola workfare e warfare: ossia una tendenza alla sotto-occupazione precaria, da un lato, e alla centralità maggiore delle tecnologie securitarie, della polizia e delle prigioni, dall’altro.
In Francia, a causa del proprio passato e del proprio presente coloniale, chi subisce più duramente gli effetti di questa doppia ristrutturazione - del mondo del lavoro e della sfera statale - sono le soggettività post-coloniali; ossia i soggetti di origine (o presunta origine) araba e africana. E si tratta proprio di quei soggetti che hanno disertato la chiamata alle armi dell’anno scorso, che non si sono massicciamente mobilitati e che non sono scesi in piazza e nelle strade: né a marzo, con i blocchi dei licei e le iniziative universitarie; né ad aprile con le “occupazioni” delle piazze; né a maggio, con gli scioperi; né nelle oltre quindici manifestazioni che hanno costellato la mobilitazione, da marzo fino a luglio. Motivo della diserzione - perlomeno per come esso veniva declinato da diversi collettivi presenti nei quartieri popolari e in banlieue: noi, i neri e gli arabi, la Loi Travail la viviamo quotidianamente da decenni. Stesso discorso per l’Etat d’urgence: le violenze poliziesche sono il pane quotidiano che ci viene propinato non per quello che facciamo - come voi militanti bianchi - ma per quello che siamo; non perché protestiamo in piazza, ma perché viviamo nei nostri quartieri!
Ora, a partire dal luglio scorso, in concomitanza con la fine della mobilitazione contro la Loi Travail, si sono messi in piedi dei percorsi rivendicativi molto interessanti da parte di queste soggettività, delle mobilitazioni contro il razzismo strutturale dello Stato francese che non denunciano le pratiche razziste della polizia, ma le pratiche di una polizia razzista. Queste mobilitazioni (come, per esempio, la recente Marche de la dignité), hanno però delle difficoltà a compiere quel salto qualitativo che il movimento femminista è riuscito ad effettuare ultimamente, articolando denuncia delle violenze di genere e contro il corpo delle donne (stalking, stupri, femminicidi, ecc.) e istanze che hanno a che vedere col lavoro, col welfare e con i diritti sociali. È il rinnovo della pratica dello sciopero - lo sciopero dei generi - che ha permesso questo salto qualitativo; che ha catalizzato e promosso questa giunzione. In Francia, le lotte antirazziste - per il momento perlomeno - non hanno ancora sviluppato dei percorsi organizzativi in grado di articolare critica della mano destra dello Stato (ordine, repressione, ecc.), per citare Bourdieu, e critica della mano sinistra dello Stato: welfare assimilazionista, sistema di assicurazioni, educazione, sanità, diritto alla casa, ecc. Chiaramente non si tratta di abbandonare la critica delle violenze poliziesche in favore della critica dell’articolazione tra questione sociale e questione razziale, ma di integrare le due prospettive. Tale posta in palio appare decisiva se si vuole sostenere l’autonomia dei quartieri popolari e delle lotte antirazziste. Prendiamo due esempi recenti: Adama Traoré (il ragazzo che è stato assassinato nel luglio scorso dalla polizia, proprio due settimane dopo l’ultima manifestazione contro la Loi Travail) e Théo Luhaka (il ragazzo che è stato violentato a inizio febbraio dalle Brigades anti-criminalité). La famiglia di Adama è riuscita, grazie anche alla rete di militanti che le si è costituita attorno, a costruire una mobilitazione molto potente ed efficace, in larga misura immune al discorso repubblicano. La famiglia di Théo, invece, vicina alla rete associativa che orbita attorno al PS, la quale dispensa posti di lavoro e assistenza legale e giuridica, creando dunque del reddito, si è immediatamente fatta cooptare da SOS racisme e da altri gruppi posizionati sotto l’egida del PS.
Tale vicenda, come mille altre del resto, può fornire lo spunto per procedere al rovesciamento della maniera attraverso la quale siamo stati abituati a porre la questione del reddito sociale, teorizzandola e praticandola a partire dalla punta più avanzata dello sviluppo capitalistico, ossia attorno al lavoro intellettuale e cognitivo, alla cooperazione sociale, ecc. Per dirlo con una metafora spaziale cara a Bifo, per vedere tutte le potenzialità del reddito, sembra che bisogni portarlo a Sillicon Valley. È probabilmente altrettanto importante - tanto più in un contesto specifico come la Francia - guardare al reddito sociale a partire da dove i processi di ristrutturazione capitalistica si riversano in modo più duro e violento: ossia in banlieue, nelle periferie delle grandi città e nei quartieri popolari, intersecando così la questione del reddito con le lotte anti-razziste - visto che in Francia banlieue è fondamentalmente sinonimo di "neri e di arabi", ossia di soggetti razzializzati.
È su tale questione che abbiamo appena cominciato un percorso di inchiesta, confrontandoci per il momento con circa centoventi giovani della banlieue Sud e della banlieue Nord di Parigi: ciò che è già cominciato ad emergere dai primi incontri, aldilà di tutta una serie di contraddizioni sintomatiche, è la potenzialità del reddito in termini di immaginario e in termini di prospettive di auto-determinazione. Tra le varie espressioni attraverso cui definire il reddito (di cittadinanza, di esistenza, garantito, ecc.) ci pare perciò particolarmente azzeccata la formula adottata dalla piattaforma rivendicativa di Non una di meno: reddito di auto-determinazione.

Il testo riprende l'intervento presentato al Bios Lab di Padova il 7 aprile 2017 a sostegno delle CLAP

Fonte: alfabeta2.it 

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