La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 19 settembre 2017

Città, spazi abbandonati, autogestione

di Pietro Saitta
È l’età più oscura dal dopoguerra, lo sappiamo. E non perché ci sia in fondo nulla di nuovo sotto il sole nel paese che ha inventato il Fascismo e visto poi succedersi ministri della “guerra interiore” come Scelba, Tambroni, Cossiga, giù sino al loro erede Minniti; il paese dello stragismo, dei processi di massa ai danni dei militanti politici e poi quello del riflusso, delle infinite sperimentazioni neoliberali, dei tagli crescenti alle garanzie sociali – dal lavoro alla casa – e della città “disneyficata” e musealizzata. Il paese, ancora, dei mille “nemici adeguati”: in ordine storico, i “capelloni”, i tossici, i centri sociali, il “popolo della notte”, gli immigrati, i rifugiati.
L’oscurità del presente, insomma, non è data tanto dalle azioni di una classe politica terribilmente autoritaria, dai bersagli e dai progetti di quest’ultima, oppure dalle novità intrinseche nelle ideologie e nelle sensibilità anti-umaniste che la orientano e che montano nel paese. L’oscurità a cui ci riferiamo, invece, è quella che consiste nell’apparente fine dell’opposizione istituzionale e sociale a queste tendenze antiche, e nell’impossibilità di un’adeguata rappresentanza delle istanze di segno opposto.
L’impossibilità, cioè, per una parte esigua ma irriducibile di questo paese di potersi sentire minimamente parte sia di una opinione pubblica sia di un progetto nazionale (non nazionalista né identitario) volto al bene comune, alla giustizia sociale e al primato dell’umano sui nuovi processi di accumulazione ed esproprio. E il consolidarsi, dunque, di una percezione in sé tutt’altro che originale, ma investita comunque di nuovi significati storici, che consiste nella “responsabilizzazione”. Ossia nella consapevolezza di una generazione disaffiliata e residuale, senza sponde istituzionali né simpatie estese nel paese – una “minoranza perfetta”, insomma – che il proprio futuro e quello di coloro destinati alla marginalizzazione a opera dello Stato (immigrati, lavoratori poveri e indesiderabili a vario titolo) dipenda da loro e solo da loro.
La coscienza, in altri termini, che nessuno farà il “lavoro della resistenza” al posto di questa sparuta minoranza e che il compito che il destino le ha riservato è ingrato, paragonabile a quella di chi, in un epoca mai davvero troppo distante, si è gradualmente ritrovato dapprima dinanzi all’adeguamento delle rappresentanze socialiste alle istanze capitaliste e poi davanti a una serie di guerre, a una crisi economica senza precedenti, alle suggestioni di una leadership forte e alla sua pedagogia della modernizzazione; alla repressione di un’opinione pubblica critica, agli “sventramenti” urbani e alla ricollocazione delle popolazioni; e, infine, all’emergere di un discorso razzista, alle deportazioni e ai lager.
A quella generazione, proprio malgrado resistenziale, toccò confrontarsi col dilemma del cosa fare nell’immediato e del come convertire la propria visione minoritaria intorno allo stato delle cose in una visione di maggioranza, utile a sovvertire l’autoritarismo imperante e a ripristinare una democrazia inclusiva.
Non mancherà di certo chi opporrà che il passato non ritorna e che il presente in ogni caso non ha nulla di quel passato. Ma a costoro possiamo ricordare che il passato ha invece la triste tendenza a ripresentarsi come farsa, e che le farse possono essere uno spettacolo ben più deprimente dei drammi originali. A ogni modo, ciò che vi è di interessante in quella critica potenziale è l’invito ad aggiornare le categorie attraverso cui leggere il cambiamento dei dispositivi materiali e linguistici di produzione dell’ordine. Un’attività di ricerca, però, che non deve smarrire il senso della memoria e della continuità storica dei processi; partendo dall’assunto che proprio il “nuovismo” è da sempre parte essenziale delle ideologie e delle narrazioni autoritarie.
Oggi come ieri dobbiamo però essere in grado di leggere anche le “altre” continuità: quelle che legano processi apparentemente distanti loro, oppure tradizionalmente oggetto di riflessioni disciplinari specialistiche e particolari. Dobbiamo cioè essere in grado di leggere le connessioni – a livello concettuale così come di attori – tra guerre esterne e interne, tra “crisi” e processi di ristrutturazione urbana, tra liberalizzazioni e vita quotidiana, tra storia e contemporaneità. Dobbiamo cioè rinvenire il filo che connette applicazioni apparentemente distanti, ma unitarie, del governo delle cose. Quello, insomma, che permette di leggerle come un dispositivo unico.
Dobbiamo inoltre riflettere sul diritto, le trasformazioni nella cultura degli operatori giuridici (dal legislatore ai magistrati, passando per la polizia) e ragionare così anche sulla nostra difesa, oltre che su quella della città comune. Consapevoli del fatto che la lotta del presente non è più solo un’arte marziale che si fonda sullo scontro e su una netta divisione dei fronti, ma anche una raffinata competenza discorsiva volta a disarcionare il nemico sfruttandone forza e contraddizioni. Fermo restando, naturalmente, che occorre tenersi distantissimi dai postmodernismi radicali e dalle finte contaminazioni su cui si fondano le retoriche interessate del “né di destra, né di sinistra”.
Dobbiamo dunque riflettere sulle tattiche e le strategie; ossia sul presente e gli aggiustamenti minimi, ma anche sui modi di imporre un altro ordine del discorso intorno ai grandi e ai piccoli temi, venendo così inseguiti e non inseguendo.
Infine occorre ragionare sulla “riproduzione”. Sui modi cioè, attraverso cui estendere visioni concorrenti e dissidenti rispetto a quelle egemoni (la più importante delle sfide, probabilmente). E anche, se così vogliamo dire, sul come comunicare la definitiva trasformazione di una ribellione originariamente generazionale e contro-culturale, maturata sostanzialmente in seno alle classe medie, in un processo politico-sociale “maturo”, che include e risponde ai bisogni primari di quelle fasce sociali preda degli imprenditori morali di destra così come dei neofascismi. Come rendere nota, insomma, questa fase matura dell’“antagonismo”? Quella che supplisce temporaneamente alla ritirata dello Stato, fornendo case, cibo e varie forme di assistenza a chi, a prescindere dalla nazionalità, è collocato ai margini dai processi di ristrutturazione dello Stato. Un processo, peraltro, che è ben chiaro ai mandanti della repressione, ma del tutto oscuro per gran parte dell’opinione pubblica.
In conclusione, credo che la giornata di studi organizzata da Crash sia essenziale perché coniugherà ricerca e azione, intellettualità e prassi, simbolizzazione e presenza, memoria e futuro dell’azione sociale di base. Soprattutto, però, sta lì a dimostrare che la Resistenza continua malgrado tutto. In fondo è sopravvissuta a Mussolini; sopravvivrà a Minniti.

Quello qui presentato è uno degli interventi introduttivi alla giornata di studi organizzata il 3 ottobre 2017 a Bologna dal Laboratorio Crash! sul tema “Citta, spazi abbandonati, autogestione”. Per ulteriori informazioni: https://www.infoaut.org/culture/citta-spazi-abbandonati-autogestione-call-4-contributions

Fonte: effimera.org 

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