La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 19 settembre 2017

Referendum sull’indipendenza del Kurdistan: una svolta per il Medio Oriente?

di Gabriele Sirtori
Il 25 settembre sarà una data che farà tremare il Medio Oriente. Il governo regionale del Kurdistan iracheno infatti, nella persona del suo presidente Massoud Barzani, ha indetto per quel giorno un referendum sull’indipendenza dall’Iraq. È una scelta esplosiva: un esito positivo potrebbe riaccendere le tensioni mai sopite tra i governi di Turchia, Siria ed Iran e le rispettive minoranze curde. E non è il rischio maggiore. Lo Stato iracheno potrebbe infatti non riconoscere l’esito del voto: in tal caso la lotta per l’indipendenza si trasformerebbe in una prova di forza che rischia di diventare guerra civile.
Massoud Barzani, capo del KDP, Partito Democratico curdo, prima forza politica nella regione, aveva più volte promesso questo referendum. La prima nel 2014, poi nel 2016, senza mai stabilire una data. Poi nel 2017 la svolta: “Le votazioni saranno dopo la liberazione di Mosul” aveva annunciato e finalmente il 7 giugno la dichiarazione definitiva: il 25 settembre in tutti seggi della regione si terrà un referendum non vincolante sull’indipendenza dall’Iraq. In caso di esito positivo spetterà ai leader curdi scegliere se proclamare la secessione.
Sulla carta sembrerebbe di trovarsi di fronte al trionfo della democrazia e dell’autodeterminazione dei popoli. Il KRG (Governo Regionale Curdo) ha tutte le istituzioni necessarie per governare uno Stato indipendente: ha un suo esercito, un suo parlamento, un sistema giudiziario autonomo e un passato di quasi 30 anni di scontri con le autorità irachene che ne giustificano le istanze autonomiste. Tuttavia sul voto di settembre il fronte curdo non è per nulla compatto.
“Questo referendum è una scusa per i vecchi leader curdi per rimanere al potere” affermava alcuni mesi fa in un’intervista per il Washington Post Shaswar Abdulwahid Qadir, proprietario del network televisivo indipendente curdo NRT. “I giovani non sanno nulla della loro lotta nelle montagne contro Saddam, perciò serve loro una scusa per governare altri 26 anni”.[1] La situazione nella regione al momento è tutt’altro che democratica. Nello stesso articolo si denuncia come il parlamento curdo non venga convocato da almeno due anni e come lo stesso presidente del KRG, Massoud Barzani, sia al governo da quattro anni oltre la scadenza del suo mandato. Le stesse istituzioni regionali non sono compatte al loro interno. Le lotte tra tribù e clan rivali, prime fra tutte le famiglie dei Barzani e dei Talabani, attualmente al comando dei due principali partiti politici, il KDP e il PUK, dividono in due il territorio. Fino al 2006 nel Kurdistan iracheno si avevano due premier, due gabinetti, due eserciti e persino due sistemi giudiziari: le istituzioni facenti capo ai Barzani erano attive nella regione Nord Ovest, nei distretti di Erbil e Dohuk; le altre, connesse ai Talabani, avevano la propria giurisdizione nel Sud-Est della regione: Suleymaniya, Darbandikhan e i dintorni di Kirkuk.
Dal 2006 iniziò un processo di unificazione territoriale, ma 15 anni di divisione amministrativa hanno lasciato il segno.
Come e perché il Kurdistan iracheno è diventato regione autonoma
La questione curda in Iraq ha una storia lunga quanto l’Iraq stesso. Già il trattato di Sèvres del 1920, con il quale dopo la prima Guerra Mondiale le potenze alleate si spartivano le province dell’impero ottomano e creavano l’attuale mappa del Medio Oriente, prevedeva (agli art. 62, 63 e 64) la creazione di un’autorità locale per le aree a predominanza curda a Est dell’Eufrate, a Sud dell’Armenia e Nord della Siria, a cui garantire la piena autonomia entro un anno dalla sua creazione.
Questa promessa che era stata avanzata dagli inglesi durante la guerra nell’idea che i curdi, un popolo di origini etniche iraniche, potessero essere utili pedine all’interno dell’Impero ottomano da mobilizzare contro il c.d. panturanesimo, la fratellanza di tutti i popoli turanici, un ideale proposto da alcuni leader turchi che poteva spingere anche popolazioni non strettamente turche come caucasici o azeri a combattere per la causa ottomana. Quella inglese si trattava però di una promessa vuota: risultava chiaro alle potenze dell’epoca che le divisioni tribali al suo interno, l’assoluta mancanza di una cultura amministrativa, la permanenza di numerosi nazionalisti turchi, avrebbero reso impossibile la formazione di uno Stato curdo.
In quell’area inoltre era in atto la riconquista di territori da parte delle forze nazionaliste turche di Mustafa Kemal Ataturk, padre della Turchia moderna, tanto che già nel 1923 il trattato di Sèvres dovette essere rinegoziato e fu superato dal trattato di Losanna, siglato non più con l’Impero ottomano ma con la neonata Repubblica di Turchia. L’idea di uno stato curdo indipendente fu abbandonata e al suo posto la Società delle Nazioni nel 1925 decise di riconoscere il dominio sui curdi in Anatolia alla Repubblica di Ataturk e di unire la velayat (governatorato ottomano) di Mosul al territorio già concesso al Regno Unito sotto mandato: si formavano così i confini di quello che oggi conosciamo come Iraq.
Durante il periodo del mandato i funzionari britannici trovarono un modo molto efficace di gestire le province curde: cooptarono i capi tribali locali e lasciarono a loro il controllo del territorio fomentando le lotte intestine tra clan. Ciò comportò l’indebolimento di quelle aree in favore del controllo diretto da parte di Baghdad.
L’autonomia promessa tuttavia non fu dimenticata, ma in quel periodo non si poteva ancora parlare di vero e proprio nazionalismo curdo: le forme di protesta o di guerriglia contro le autorità ottomane portate avanti in modo sporadico fino a quel momento infatti erano mosse per lo più da interessi specifici di tribù o notabili locali. Lo stesso Sheykh Mahmud, leader dei movimenti curdi nel nuovo Iraq sotto mandato britannico, autoproclamatosi negli anni Venti sovrano del Kurdistan, era un’autorità religiosa e il suo linguaggio era quello della jihad e non quello dell’indipendenza nazionale.
Il controllo della lotta politica passò quindi dalle élite tribali, per lo più grandi possidenti terrieri, alle autorità religiose. Ciò fece sì che la partecipazione alle istanze autonomiste coinvolgesse tutti gli strati della società. È nelle città curde irachene negli anni Trenta, grazie anche all’influsso delle idee nazionaliste pan-arabe, socialiste e comuniste, che iniziano a formarsi i primi movimenti nazionalisti curdi. Il 1932 è l’anno di nascita dell’Iraq, finalmente indipendente dal mandato britannico. Il nuovo governo sceglie però di ignorare i diritti culturali e civili a tutela dei curdi sanciti dalla costituzione provvisoria varata alcuni anni prima. Le proteste portarono all’entrata in scena a fine anni Trenta di Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente del KRG, che nel 1946 fondò il KDP, Partito Democratico curdo, attualmente ancora al potere.
Seguirono anni difficili per i curdi, soprattutto durante gli anni in cui il potere era occupato dal partito nazionalista panarabo Baath (1968-1991). Le divisioni tribali non furono mai risolte e nel 1975 fu fondato, ad opera di Jalal Talabani, l’Unione Patriottica del Kurdistan, il PUK, l’attuale secondo partito più importante della regione.
La vera svolta fu nel marzo del 1991. L’invasione del Kuwait da parte di Saddam e le sue conseguenze in termini di sconfitte militari portarono ad un indebolimento del regime. Ne approfittarono le popolazioni sciite del sud e soprattutto i curdi che diedero inizio al loro rapareen, la grande rivolta che portò all’effettiva indipendenza delle regioni del Nord: infatti a seguito della risoluzione ONU n° 688 che denunciava le violazioni del diritto internazionale compiute dal governo di Saddam le potenze occidentali crearono una no-fly zonenelle regioni a maggioranza curda che da quel momento poterono godere dell’indipendenza sostanziale in attesa di una nuova costituzione che sancisse il loro status.
Nel 2005 la nuova costituzione dell’Iraq fu approvata e le province di Dohuk, Erbil e Suleymaniyya divennero la Regione Autonoma federale del Kurdistan iracheno.
Il KRG è un governo democratico?
La definizione di democrazia è sempre problematica. Nel 1992 si svolsero le prime elezioni regionali che videro la partecipazione dei due partiti principali: il KDP (partito democratico curdo) e il PUK (unione patriottica del Kurdistan). Non emersero indizi di irregolarità. L’esito a livello di numero di voti guadagnati fu sostanzialmente un pareggio, a livello territoriale invece emerse una chiara spaccatura tra nord-ovest (controllato dal KDP) e sud-est della regione (a maggioranza PUK).
La soluzione trovata fu quella di condividere il potere (c.d. power-sharing system) a tutti i livelli dell’amministrazione. Per ogni istituzione si cercò di trovare un giusto equilibrio di rappresentanza: se il presidente era del KDP, il ruolo di vice-presidenza doveva essere attribuito a un membro del PUK, e viceversa.[2]
La situazione di equilibrio ebbe breve durata e già nel 1994 scontri intestini portarono alla creazione di due sistemi amministrativi separati: fino al 2006 in Kurdistan si ebbero due eserciti, due parlamenti, due sistemi giudiziari, due premier e due gabinetti, controllati dai rispettivi partiti. La stessa situazione all’interno degli schieramenti politici, ancora oggi, è condizionata da un misto di tribalismo e clientelismo, gestito dalle forti personalità dei loro leader, Massoud Barzani e Jalal Talabani, a cui i principali esponenti dei vari partiti sono uniti da un vincolo di fedeltà e spesso da rapporti familiari.[3]
Nel 2006 inizia un processo di pacificazione e cooperazione tra i due partiti e di integrazione istituzionale. I due partiti però conservarono la propria pesante influenza sulle istituzioni del territorio, che danno lavoro a 1,5 milioni di persone in un paese che vede circa 3,5 milioni di aventi diritto di voto.[4] Inoltre il già precario equilibrio tra PUK e KDP è vacillato nelle elezioni del 2013 a cui ha partecipato per la prima volta il movimento Gorran, partito di opposizione formato da fuoriusciti del PUK. Nonostante sia diventato il secondo schieramento politico del paese, PUK e KDP hanno collaborato per tener fuori i suoi esponenti dalle istituzioni regionali e da ruoli di rilievo, relegandolo all’opposizione. In quell’anno il parlamento regionale, il cui primo partito risultava il KDP, votò per una proroga di due anni della presidenza di Massud Barzani, giunto alla fine del suo secondo e legalmente ultimo mandato. Nel 2015, al momento di eleggere un nuovo presidente, la situazione di lotta tra partiti ha portato ad uno stallo politico che ha garantito a Barzani il potere fino a oggi.
Si può quindi affermare che il KRG non sia ancora pienamente una democrazia, sebbene veda svolgersi regolari elezioni. Manca infatti di una caratteristica fondamentale: l’indipendenza delle istituzioni statali dai partiti. È comprensibile che i movimenti di liberazione nazionale (vedi Hamas in Palestina), appena ottengano il controllo su un territorio, accentrino in sé la maggior parte delle funzioni statali (sicurezza, amministrazione territoriale, rappresentanza politica dell’elettorato), tuttavia la situazione curda, oltre a perdurare da 26 anni, è aggravata dalla storica divisione partitica al suo interno.
L’esempio più lampante sono le sue forze di sicurezza: i peshmerga. Sebbene si sia costituito un ministero unico per la gestione delle forze armate, soprattutto dovuto all’esigenza di fronteggiare le forze dello Stato Islamico, queste sono costituite da diverse formazioni che rispondono innanzitutto ai propri partiti di riferimento e che ricevono aiuti ciascuna da uno specifico Stato estero (chi dalla coalizione a guida USA, chi dalla Turchia, chi dalla Russia, chi dall’Iran).[5]
Quali stati (non) vogliono l’indipendenza del Kurdistan?
I due stati più direttamente coinvolti dal referendum sono Iran e Turchia, oltre naturalmente all’Iraq. La posizione dell’Iran è sempre stata chiara: assoluta opposizione al referendum. Quello che teme la Repubblica Islamica è innanzitutto che il raggiungimento dell’indipendenza dei curdi iracheni porti i curdi presenti sul proprio territorio ad avanzare simili istanze. In secondo luogo in gioco c’è l’esistenza stessa dell’Iraq, ad oggi roccaforte dell’influenza della Repubblica Islamica nel mondo arabo. L’indipendenza curda potrebbe mettere in discussione l’unità amministrativa di uno stato profondamente diviso tra sunniti e gli sciiti filo-iraniani del Sud ora al potere. In terzo luogo c’è una preoccupazione riguardo al ruolo di Israele. Oltre ad appoggiare la causa dei curdi Israele da alcuni anni, insieme agli Stati Uniti, sta diventando sempre più influente nella regione. Di conseguenza la nascita di un Kurdistan indipendente e alleato di Israele significherebbe per l’Iran avere il nemico alle porte.[6]
Per quanto riguarda la Turchia, formalmente il suo governo si dichiara contrario all’indipendenza. Tuttavia tra KDP e governo di Ankara i rapporti sono buoni: il petrolio estratto in Kurdistan finisce in Turchia, la quale fornisce anche supporto per le infrastrutture di trasporto. Uno stato curdo, qualora nascesse, sarebbe uno stato alleato (e ricco di risorse naturali). Tuttavia resta l’incognita PKK. Uno stato indipendente curdo animerebbe ancora di più le tensioni in corso tra curdi in territorio turco e governo di Ankara.
Dell’Iraq, in parte già si è detto. Le dichiarazioni ufficiali del suo governo sono che un’eventuale indipendenza dovrebbe essere decisa dalla popolazione irachena nel suo complesso. Inoltre, sfruttando l’attuale debolezza delle forze armate irachene, i curdi hanno ormai controllo su quelle aree a maggioranza curda situate al di fuori dei confini attribuiti al KRG dalla costituzione irachena. Tra queste l’area della città di Kirkuk, città importantissima per l’estrazione e lavorazione delle risorse naturali. Massoud Barzani ha affermato che anche lì saranno presenti i seggi per le votazioni.
Senza il suo principale centro di produzione energetica, senza un esercito forte, senza un governo forte, con un’economia vessata dalla guerra e cellule dello stato islamico ancora presenti sul proprio territorio, può l’Iraq sopravvivere a lungo?
Stati Uniti e Russia nelle loro dichiarazioni si sono tenuti più neutrali. L’invito da parte degli Stati Uniti (così come dell’Europa) è stato di desistere dall’iniziativa del referendum. Hanno dichiarato di essere a favore di un Iraq unito e federale, considerando soprattutto i rischi per la stabilità della regione. Tuttavia i curdi sono degli alleati importanti per la lotta contro il terrorismo e, così come vale per la Turchia, anche per la Casa Bianca uno Stato curdo sarebbe uno Stato alleato, e per di più al confine con l’Iran.
Da Mosca, infine, anche i russi hanno scelto di mantenersi su posizioni diplomatiche, suggerendo che il referendum si tenga nel rispetto del diritto internazionale.
Che cosa ne pensano i curdi?
All’esterno del KRG i curdi sono per la maggior parte a favore dell’indipendenza, ma con qualche perplessità. In un articolo uscito sulla rivista online al-monitor.com[7] sono state raccolte diverse opinioni espresse tra i curdi iraniani, i quali, sebbene siano per la maggior parte favorevoli all’indipendenza dei loro fratelli iracheni, sono anche piuttosto preoccupati dalle effettive condizioni di benessere che un’indipendenza porterebbe. Nell’articolo si denuncia la fortissima diseguaglianza attuale tra ricchi e poveri, la grave crisi economica generata dal calo del prezzo del petrolio, dall’aumento del numero di rifugiati, dalle spese belliche e da una cattiva gestione economica, e infine si racconta del trattamento spesso umiliante ricevuto da alcuni rifugiati curdi iraniani da parte delle autorità di polizia del KRG.
Per quanto riguarda invece la popolazione curda all’interno dell’Iraq, questi sono contraddistinti da un particolare spirito nazionalista che definire genericamente curdo è riduttivo. Si dovrebbe invece parlare di Kurdistaniyeti, “curdistanità”. Si tratta di una forma di etno-nazionalismo, descritta e analizzata dallo studioso curdo Mahir A. Aziz. Esso si fonda su un comune senso di appartenenza all’etnia curda, alla sua lingua e al suo apparato di tradizioni, miti e leggende, ma al tempo stesso profondamente legato all’esperienza irachena, essendo imperniato sulla storia comune politica della seconda metà del Novecento.
In particolare centrali sono le vicende dell’operazione Anfal, una campagna di pulizia etnica contro i curdi portata avanti tra l’87 e l’88 da Saddam Hussein attraverso politiche di sfratto, distruzione di centri abitati, attribuzione diseguale delle risorse e dei posti di lavoro basata sull’etnia e culminata nel massacro di Halabjia del 1988 che a seguito dell’uso di armi chimiche provocò la morte di 5000 persone in un solo giorno. In tutto le vittime di questa campagna sono stimate tra le 50’000 e le 182’000, 4’000 i villaggi distrutti
Questo tipo di sensibilità nazionalista curda, ma estremamente legata all’esperienza irachena, ha lasciato il segno sui giovani di oggi nati e cresciuti dopo quegli avvenimenti. In alcuni sondaggi fatti all’interno delle università curde da M. A. Aziz è emerso come, se da una parte la quasi totalità degli studenti (90.0%) si dichiarasse favorevole all’indipendenza curda non sentendo di avere alcun legame di attaccamento emotivo o fedeltà all’Iraq, dall’altra solo l’1,6% affermava che all’indipendenza dell’Iraq dovesse seguire l’unificazione in un’unica entità territoriale di tutti i popoli curdi.[8]
Conclusioni
Il “Grande Kurdistan” è un’entità territoriale mai esistita. Sebbene tra Turchia, Iran Siria e Iraq vi sia un senso di comune appartenenza all’etnia curda e di generale fratellanza, questo è ben distante dal generare un condiviso desiderio nazionalista di unità. Le varie popolazioni curde sono ancora molto divise tra loro e al proprio interno e il caso delle istanze di indipendenza del KRG ne è la dimostrazione.
Oltre a questo, guardando la situazione politica interna al KRG, emerge che il primo beneficiario della consultazione popolare è il KDP, Partito democratico curdo, nella persona del suo leader Massoud Barzani. In un momento di crisi dei consensi della vecchia dirigenza, indire un referendum significa ricordare ai giovani che non li hanno vissuti i momenti più bui dell’esperienza curda in Iraq, fondativi delle pretese nazionaliste; in altre parole i motivi per cui l’attuale dirigenza si è formata, è stata votata e si trova al potere. Richiamando l’ideale di indipendenza nazionale si prova a far dimenticare l’attuale situazione di crisi economica, disoccupazione e debolezza delle istituzioni che è principalmente da attribuire alle élite da 26 anni al potere.
Qualunque sia l’esito di questo referendum, ricordiamo, non vincolante, è probabile che l’indipendenza curda sarà nuovamente rimandata, così come il rinnovamento democratico della regione.


[2] cfr. M. Aziz, The Kurds of Iraq.

[3] cfr. Stansfield, Iraqi Kurdistan.

[4] fonte dati: Limes 7/2017.

[5] fonte: Limes 7/2017.



[8] fonte: M.A. Aziz, The Kurds of Iraq.

Fonte: pandorarivista.it 

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